Dove si posa la mosca, che il diavolo dipinge
Fortuna della mosca, tra Rinascimento e Barocco. Da Crivelli a Guercino, il nero insetto che ronza tra burle, inganni e segni inquietanti
Quando si pensa a una farfalla, si è subito colti da un senso di ostentata bellezza. Anche i grilli e le cicale hanno una dignità letteraria inattaccabile; e poi ci sono le laboriose formiche e le sedule api, insetti che godono il favore della stampa. Le mosche invece? Subito, quando si posano vicino a noi, o peggio sul nostro cibo, sollecitano la nostra vocazione all’assassinio; e nonostante le nostre scomposte manate, le mosche non desistono dall’ostinazione di posarsi di nuovo, vicino o su di noi, e forse proprio perché irritanti, repulsive e indifferenti alla morte, hanno il compito di stimolare il nostro lato più oscuro. La mosca è l’assassinato perfetto. Non è perciò sconcertante che proprio questi insetti molesti appaiano in una serie di quadri fra Rinascimento e Barocco, in un periodo temporale e geografico ben determinato? Da Petrus Christus e Carlo Crivelli a Vincenzo Campi, da Cima da Conegliano e Guido Reni fino a Guercino, e poi nelle opere di Jacopo da Bassano, Louise Moillon, Balthasar van Ast. C’è tutto un brusio, un ronzio, uno zampettare del nero insetto.
“Non vorrei suggerire l’immagine di una mosca vittima”, scrive Giorgio Manganelli nella sua postafazione a Musca depicta. “L’impressione è che a questo animaletto sia affidata una parte importante che ha del sacro e dell’infernale”. Insomma, le mosche hanno esercitato una particolare attrattiva sugli artisti almeno fino al XVII secolo. Capostipite della notorietà è l’aneddoto che riguarda l’illustre Giotto. “Dicesi stando Giotto ancor giovinetto – scrive Vasari nelle sue Vite – dipinse sul naso di una figura che esso Cimabue aveva fatta, una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro si rimise più d’una volta a cacciarla con mano, pensando che fusse vera, prima che si accorgesse dell’errore”. Certo le prodezze del trompe l’oeil erano già state raccontate da Plinio, come i famosi grappoli d’uva dipinti da Zeusi che ingannavano gli stessi uccelli, e la prodezza imitativa faceva parte del folclore delle botteghe rinascimentali. Ma perché proprio la mosca?
Prendiamo la Danza campestre di Guido Reni. La scena raffigura un soggetto anomalo per il pittore; si è di fronte a un quadro di paesaggio, il dipinto corale di una festa al chiaro di luna: un ballo, organizzato da un gruppo di contadini, al quale assistono benevolmente alcune dame e signori del luogo. I personaggi sono seduti in cerchio, in una radura tra gli alberi accanto alla quale scorre un ruscello che canta un inno al locus amoenus. Al centro, un giovane villano invita una dama ad aprire le danze. Ma è mai possibile che lo sguardo di chi osserva “questa lieta brigata” sia punzecchiato e turbato da due mosconi che ronzano in alto, sulla destra del quadro, zampettando sul cielo blu della notte incantata? Mosche che si vorrebbe scacciare, poggiate sul quadro, non nel quadro. Sono grasse, grosse e tridimensionalmente, fuori scala rispetto al paesaggio rappresentato. Quando il nostro sguardo le scopre, si guarda l’opera con altri occhi, partendo proprio dalla loro fastidiosa presenza.
Considerando la vicenda attributiva del quadro, viene quasi da pensare che le mosche abbiano a lungo distratto lo sguardo dei connoisseur. A lungo data per dispersa, l’opera è stata acquistata nel 2020 dalla Galleria Borghese di Roma, ma ancora nel 2008 compariva sul mercato antiquario di Londra riferita a un anonimo artista bolognese. Dopo le prime ipotesi attributive, è stata riconosciuta la mano di Guido Reni, grazie anche all’individuazione del dipinto negli inventari della collezione di Scipione Borghese. Dopo l’esposizione al TEFAF, nel marzo del 2020, la Danza campestre di Guido Reni è rientrata definitivamente in Italia nella collezione del suo antico proprietario. Certo il trompe l’oeil di Reni è il marchio sorprendente del virtuoso; il gioco illusionistico barocco è malizioso e perfetto, ma che fastidio che anche queste due mosche siano passate alla storia… O forse è proprio questa la loro funzione: loro, le mosche, titillano con la zampetta il disordine, insinuano la loro lordura, monito a non immedesimarsi nella magia notturna del ballo.
Più facile aspettarsi la musca depicta – specificamente la “Sarcophaga carnaria” – appoggiata su una triste Vanitas, sui crani baciati dalla Maddalena penitente, oppure sui teschi da meditazione di San Gerolamo, o su quelli posti ai piedi della Croce. Nel dipinto La crocifissione mistica attribuito a Matteo di Giovanni, opera datata 1450 ora nella collezione dell’Art Museum di Princeton, quattro teologi in contemplazione del Golgota navigano come nuvolette su un fondo oro. Ai piedi della croce il fatidico teschio con mosca. È il cranio di Adamo bagnato dal rivolo di sangue che fiotta dal costato del Cristo per redimere l’uomo dal peccato originale. Sopra di esso, c’è un’enorme mosca.
Joos van Cleve fa volitare un nero moscone nel nudo teschio del San Girolamo nel suo studio del 1550, ospitato al Museum Carolino di Salisburgo. Sono mosche mortifere, grossi punti neri, quasi nei scuri che fanno da pungolo perché i devoti si spingano al di là dei piaceri della carne terrena destinata alla corruzione. Così, pur nella loro infernale livera, i mosconi si trasformano in ascensori simbolici e morali verso l’alto.
L’onnipresenza della morte nel tempo e nello spazio si fa largo anche nella mitica Arcadia, la regione greca dell’immortalità poetica. Et in Arcadia ego è il titolo di un’opera di Guercino del 1622 conservata a Palazzo Barberini. Due pastori sbucano faticosamente da una barriera di alberi in questo luogo mitologico ispirato dalle Egloghe di Virgilio, simbolo della felice età dell’oro. Ma anche qui è entrato il dominio della Morte. Sopra un’ara c’è un vecchio teschio muschioso, emblema funereo, e per questo anche l’Arcadia diventa terra prediletta per mosca, verme e topo. Si potrebbero invece definire “Sacre Conversazioni con mosca” i quadri di Carlo Crivelli dove Maria e il Bambino dialogano con i neri insetti.
Dalla Madonna Lenti datata fra 1472-1473 circa, alla Madonna con Bambino in trono del 1472, conservate entrambe al Metropolitan Museum di New York, alla Madonna con Bambino del Victoria and Albert Museum a Londra, datata 1480, l’ostinata presenza dell’insetto che in modo del tutto naturale sfida lo sguardo di Maria e di Gesù Bambino è perfino assillante. Qui la mosca non è l’escamotage illusorio esterno al quadro, la burla per far credere che la realtà vi si depositi, come nella Danza campestre di Reni.
Nelle tavole di Crivelli l’insetto è nel quadro, è uno dei protagonisti. Dallo sguardo in tralice lanciato dalla Madonna Lenti e dal Bambino sul moscone luciferino, raddoppiato dalla sua ombra scura, a quella occhiata di ansiogena attenzione vissuta dalla Madonna nell’opera londinese, verso quella mosca che si avvicina al divin Bambino, tutto è un dialogo con l’insetto che è il segnale forte, l’intrusione del gretto naturalismo nel mondo della metafisica. E allora proprio la Madonna nata terrestre e divenuta celeste è l’unica che può davvero dialogare con una creatura come la mosca, forse per anticipare il futuro giorno del Giudizio, quando lei stessa interverrà a favore dell’insetto di Belzebù, il dio delle mosche. Questo significherebbe riconoscere alla mosca la sua natura di angelo decaduto.
Si potrebbe percorrere la storia della natura morta per catalogare gli insetti che la attraversano: ghirlande di fiori, ceste di frutta, cacciagione o pesci si accompagnano a un proselitismo di insetti; ma le mosche detengono il vessillo del memento mori. I ditteri sono gli accessori della Vanitas, sono la natura viva nella natura morta, destinata infatti a necrofagica deperibilità. Ma la raffigurazione del moscone è sempre anche il perfetto motivo di inganno, da parte dell’artista, all’occhio di chi guarda. La prima presenza di mosche nelle nature morte si ritrova nei quadri fiamminghi, e forse qui si può tratteggiare sinteticamente la geografia della fortuna della mosca su tela, dall’Italia ai Paesi bassi e ritorno. Si può dire che l’aneddoto della burla con mosca di Giotto abbia creato il substrato narrativo per il trompe l’oeil della musca depicta dei fiamminghi; poi questo soggetto ripassa con un certo successo in Italia fra XV e XVI secolo, per scomparire quasi completamente intorno alla fine del Seicento: la mosca, motivo choc di molti quadri, nel XVIII secolo non era più un curioso simbolo chic. Ormai l’attendeva solo la carta moschicida.
Il primo quadro fiammingo finora noto in cui campeggia la mosca è olandese, Il ritratto di un certosino di Petrus Christus del 1446, oggi al Metropolitan Museum di New York – un’opera che ha molto incuriosito Erwin Panofsky. Questo ritratto è legato trasversalmente alla natura morta. Una delle ipotesi è che il monaco del ritratto sia da identificare con il filosofo certosino Dionigi di Rijkel, autore del De venustate mundi, il testo in cui si classifica la bellezza dell’universo in una gerarchia che comprende, sia pure al grado più basso, anche la bellezza degli insetti come testimonianza dell’armonia del creato.
Ecco allora le sorprese di trovare gli insetti nelle nature morte fiamminghe: una piccola mosca è adagiata su un acino lucente di uva in una Natura morta di Louise Moillon del 1630, oggi all’Art Institute of Chicago. Rappresentano l’effimero una mosca e una goccia d’acqua nella Natura morta con fiori di Ambrosius Bosschaert, oggi nella collezione del Mauritshuis all’Aja.
Una grossa mosca la fa da padrona su una mela gialla nel Cesto di frutta di Balthasar van der Ast del 1632 (oggi alla Gemaldegalerie di Berlino), quasi dirigesse la danza di coleotteri e libellule che le ronzano sotto. E stupisce vedere in Italia, alla Galleria Palatina di Firenze, i quadretti delle nature morte di Giovanna Garzoni, così legata ai modelli olandesi di perfezione pittorica: nella sua Canina con biscotti e tazza cinese del 1648 due grosse mosche scorrazzano su un biscotto riservato alla “vergine cuccia”, per dirla con Parini, ossia al soffice botolo della Granduchessa di Toscana, Vittoria della Rovere.
La cagnetta è sdraiata su una tavola rosa confetto e la sua ciotola è una preziosa porcellana cinese. Forse è improprio definire i due grassi ditteri come l’intrusione naturalistica nel dipinto della Garzoni. In realtà sembrano due lacchè che si muovono sull’Aria della mosca – ma questa sarà composta molto dopo da Offenbach. Intanto, chapeau! All’artista che firma la propria opera con il sigillo della mosca come in Fra Luca Pacioli spiega un teorema, un’opera alla Galleria Capodimonte di Napoli del 1495, attribuita a Jacopo de’ Barbari.
L’insetto è il nero sigillo di ceralacca sul cartiglio in basso, accanto alla firma dell’artista. Anche nell’Annunciazione di Cima da Conegliano, quadro all’Hermitage di San Pietroburgo, un lungo moscone si allunga sul cartiglio con il nome dell’artista. Questo aggiogamento fra il pittore e l’insetto è un atto di umiltà, l’ammissione da parte di Cima che ogni umano è soltanto un futuro pasto per le mosche. Ma quell’insetto che è messo lì dall’artista come esterno al quadro, in un gioco dal rimando giottesco, si trasforma in una mosca al quadrato: non più infima creatura terrestre, ma una categoriale Grande Mosca, una sorta di mosca in sé, che misteriosamente eterna l’arte.
Bibliografia
- André Chastel, Musca depicta, Franco Maria Ricci – Milano, 1984
- Luciano Di Samosata, Encomio della mosca in Dialoghi e saggi, Bompiani, Milano, 1994
- Erwin Panofsky, Early Netherlandish Painting, Harper and Row, Icon Edition, London, 1971
- Erwin Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 2009
- Giuseppe Elio Barbati, La nascita della natura morta in Europa, Kairòs, Napoli, 2020
- Pietro Zampetti, Carlo Crivelli, Nardini editore, Firenze, 1986
March 8, 2021