Polvere: particelle che accumulano simboli
Dai pittori del Seicento fino a Man Ray, Duchamp e Jeff Koons, la polvere è un’ossessione che stratifica significati esoterici
Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris, ricordati uomo che polvere sei e in polvere ritornerai. Lo sfogo di Dio contro Adamo ed Eva nel momento della loro cacciata dal Paradiso Terrestre, colpevoli di morsi al Pomo della conoscenza, è un urlo di condanna al più totale disfacimento del corpo umano dopo le fatiche della vita. Tutti ci si riduce a mucchietti di polverosa terra. Forse nessuna immagine più di questa polvere, che si deposita e disperde, dà un senso di abbandono, sporco, nullità all’esistenza. Viene da pensare che per contrasto il Paradiso sia l’essenza della pulizia, dove non c’è necessità di ramazza e olio di gomito per eliminare l’impalpabile eppure fastidiosamente visibile granello di polvere, e tutto è divinamente chiaro.
“Nel Quattrocento gli artisti erano tra i più acuti osservatori. Elaborarono sistemi per osservare e rappresentare meglio il mondo. […] Nelle opere d’arte la vita veniva raffigurata del tutto priva di polvere”, scrive John A. Amato nel suo testo dedicato alla polvere. Una storia del piccolo e dell’invisibile. “Gli artisti idealizzavano una natura priva di polvere e sporco”. Amato associa la polvere alla bidimensionalità e l’immagine tersa alla tridimensionalità che ha promosso la nascita della prospettiva. Come si può, infatti, pensare alle Madonne di Piero della Francesca se non in uno spazio prospettico divino , trasparente, assolutamente privo della sporca, demoniaca e umana polvere?
Paradisi senza polvere
Certo nel mondo divino è facile pensare ad un vaccum cleaner metafisico che tutto pulisce magicamente, ma nel resto del mondo umano la povere va tolta, pulita, spolverata; forse è proprio questo desiderio di limpidezza, che per un attimo eleva lo spazio domestico di una abitazione a similitudine d’un piccolo eden, a spiegare la presenza di tante scope, granate e spazzoloni in una serie di quadri del Seicento olandese, tutti strumenti per sfregare, spazzare, eliminare la polvere. Queste rappresentazioni ingannevolmente innocue della vita quotidiana, dove spesso i protagonisti sono proprio lo spazzolone e la ramazza, costituiscono una vera nicchia anche all’interno del mondo della pittura di genere olandese, che si sviluppa nella metà del XVII secolo, all’apice della potenza economica delle Province Unite. I membri dell’élite olandese, che sono orgogliosi del loro status sociale, richiedono un’arte che rifletta la loro realtà in ascesa.
La “nuova ondata” della pittura di genere vede così la luce all’inizio degli anni Cinquanta del Seicento: gli artisti iniziano quindi a concentrarsi su scene di vita privata in interni eleganti, donne al virginale, fanciulle in fiore con perle all’orecchio, gentiluomini e merlettaie; ma perché, se questa pittura doveva essere un inno alla prodigiosa laboriosità calvinista di questa borghesia, in molti dipinti lo spazio è occupato dai “non luoghi” delle abitazioni? C’è un interesse per i corridoi vuoti , i passaggi di scorcio fra stanze, in cui si intravedono persone occupate per i fatti loro e non certo protagoniste del quadro; in primo piano invece vengono rappresentati i cortili, i muri, come quelli vermeeriani a Deft, di un realismo che congiunge il quotidiano e ciò che è solo apparentemente banale.
Polvere olandese
Proprio in questi spazi, e spesso in primo piano, fanno bella vista di sé le scope, gli spazzoloni, i secchi e le ramazze, oggetti usati per togliere la polvere e poi quasi distrattamente dimenticati. Sono opere di una “silenziosa potenza”, rubando la definizione sulla pittura di Delacroix. Nei soggetti dipinti da Pieter Janssens Elinga (1623 – 1682) si possono trovare in una stessa sala una signora che suona il virginale o che legge e la donna delle pulizie che scopa con cura. Un mondo di donne certamente di ceti sociali diversi, l’una impone e l’altra esegue, ma la finalità è condurre a buon fine le faccende domestiche e che la casa risulti linda; un piccolo mondo antico, una modalità per evocare la purezza morale e spirituale rappresentata dalla casa lucida di domestico lindore, con tutto un gioco di luce che entra dalle deterse finestre a creare quasi un gioco di scacchi, uno spazzare la luce.
In questi artisti del Seicento olandese c’è un potere d’osservazione acutissimo, fedelissimo, ma anche la capacità paradossale di grandi giochi di prestigio della prospettiva per descrivere e ingannare contemporaneamente. Le opere di Samuel van Hoogstraten (1627 – 1678) sono un potente stimolo di invenzioni pittoriche che mette a confronto gli spettatori con enigmi rappresentativi. La sua scatola prospettica, A Peepshow, è il miglior esempio di capacità meta-pittoriche dell’artista, probabilmente stimolata dal suo contatto con Carel Fabritius quando i deu pittori erano entrambi studenti di Rembrandt ad Amsterdam.cQuesta scatola prospettica mostra una sequenza “filmica” di interni vistosamente privi di figure-protagoniste, misteriose soglie, percorsi che si biforcano e che si aprono sugli inquietanti scacchi di piastrelle bianche e nere dei pavimenti; certe volte compare uno stupito animale domestico, un cane, un gatto, ma sono gli accessori, sedie, pantofole, specchi, quadri, chiavi e fra questi la scopa, strategicamente posizionati, a evocare una “storia”.
Polvere e gadget
Altro che la marinettiana “Guerra sola igiene del mondo”! In pieno boom economico postbellico, è l’aspirapolvere ad assurgere a simbolo del grande consumismo pop della pulizia. La Hoover è la nuova arma per debellare il pulviscolo. Prendere in mano il tubo dell’aspirapolvere è un atto rivoluzionario, come nel collage di Richard Hamilton (1922-2011) Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?, del 1956. Nel 1990 lo stesso Hamilton, il padre della pop-art, parlando del suo collage, puntualizza: “Il senso era quello di gettare nello spazio angusto di un living room una rappresentazione di tutti gli oggetti e le idee che si affollano nella nostra coscienza del dopoguerra: la mia “casa” sarebbe stata incompleta senza la sua forza vitale simbolica, così Adamo ed Eva si sono messi in posa insieme al resto dei gadget”.
E allora cosa ne è stato della biblica condanna, pulvis es, Uomo sei polvere … con quel che segue? Tutto si è modernizzato, ma l’ossessione per la polvere è rimasta, anche se negli anni del consumismo l’arcangelo Michele è ridotto a domestico della coppia edenica, e la sua spada è il gran tubo di aspirazione con meccaniche non certo divine, per pulire, rassettare la casa, mantenendo la dovuta e debita distanza dai due protagonisti biblici che si trastullano con un gigantesco lecca lecca, un Chupa chupa pop in erezione, pomo adamitico del novello junk food, mentre la bella Eva si atteggia in posa da Pin up.
Monumenti e polvere
Poi la performance dell’aspirapolvere migliora. La grande aspirapolvere assurge alla metafisica delle aspirazione. La mano dell’artista scompare e la macchina che sferza con vigore moquette e pavimenti si automonumentalizza nelle trasparenti teche di Jeff Koons nato nel 1955.
Dal 1980 fino al 1987 Koons “crea”in diverse configurazioni una serie di sculture composte da aspirapolvere esposti in teche di plexiglas. Tutti questi lavori concettuali sono stati definiti dall’artista The New, Il nuovo. La creatività di Koons soggiace passiva e sono i vacuum cleaner a impersonare gli oggetti delle nostre brame. Luccicanti in modo seducente sotto il bagliore delle luci fluorescenti, grondano di fascino. Sono sospesi in uno stato di perfezione assoluta. Koons ha commentato: “Nella mia serie di lavori The New, mi interessava rappresentare uno stato psicologico dell’individuo legato alla novità e all’immortalità: la figura complessiva, la Gestalt, proveniva direttamente da un oggetto inanimato, un aspirapolvere, posto in una condizione di immortalità”. Koons arriverà a paragonare le luccicanti cromature dell’aspirapolvere, che proteggono e trattengono la polvere, a gran ventri materni. Si è ben lontani dall’indifferenza per la scelta dell’oggetto del ready made, dell’Orinatoio di Duchamp o dello scolabottiglie, qui si parla di corpi degli aspirapolvere virginalmente made in Heaven. Questo sarà il titolo di una serie successiva, quando Koons privilegerà il corpo d’arte di Cicciolina; ma anche con il porno siamo in Paradiso e gli aspirapolvere, angeli guardiani, hanno eliminato assolutamente il segno del polveroso passaggio del tempo.
[Leggi anche: “La prima volta che Marcel Duchamp spiegò come nasce un ready made”, ndr]
Le dita sulla polvere
Certe volte pulire è uno strano modo di lasciare un segno. Nelle opere di Evaristo Baschenis (1617 – 1677), autore secentesco di nature morte con polvere; il pulviscolo imbrattante è un protagonista, non un casuale esercizio di stile; è sostanza del suo dipingere. Depositata in bella vista sugli strumenti musicali, dai liuti alle mandole, dai chitarroni ai violini, la polvere viene evidenziata dalle ditate strisciate sugli strumenti musicali, quasi suoni stridenti che innalzano trilli di polvere. Certo, la poetica di Baschenis consuona con i versi barocchi di Giovambattista Marino e si potrebbe dire “è del pittore il fin la meraviglia […] chi non sa far stupir, vada alla striglia!”. La sua polvere sugli strumenti è infatti un altissimo pezzo di bravura, effetto potente di illusionismo con un ulteriore tour de force: la ditata. In tutto il Seicento la polvere indicava la Vanitas, il senso immanente di una fine che tutto cancella, ma guardando quella di Baschenis si affollano dubbi . Che voglia dimostrare come la pittura, in analogia con la musica, sia capace di trilli del diavolo e sappia rendere l’impalpabile diabolica polvere, visibile, tattile, come il pizzico di Paganini rende udibile un suono demoniaco? Che Toccata (di dita) e Fuga strumentale dipinta possano dimostrare l’eco della polvere in una perfetta congiunzione fra musica udito e tatto?
Fotografare la polvere d’arte
Parlando di Marcel Duchamp, di cui si sentiva erede, John Cage ha affermato: “Tutti gli altri erano artisti, Duchamp raccoglie polvere”. Man Ray ha registrato l’accumulo di polvere con cui Duchamp voleva riprodurre le diverse sfumature di colore sul suo Le Grand Verre, Il Grande Vetro che lo impegna dal 1912 al 23, per poi decidere di lasciarlo incompleto. Duchamp lascia alcune criptiche annotazioni tutte giocate su doppi sensi linguistici dove parla della necessità di un “Allevamento di polvere”(questa è l’azzeccata traduzione di Elio Grazioli del termine duchampiano Élevage de poussière ) da far crescere sul vetro, perché non vuole completare l’opera con i colori da pittore, ma cambiare la pittura a tutti i livelli e questo lo farà la polvere, dando una nuova serie di rifrazioni ottiche.
Le foto di Man Ray del 1920, esposte nel 2015 a Parigi negli spazi del museo Le Bal in una rassegna curata da Gerhard Richter dal titolo esemplificativo Dust / Histoires de poussière d’après Man Ray et Marcel Duchamp, mostrano lo svilupparsi del Grande Vetro, attraverso i cumuli di mesi di polvere, perché i detriti partecipano dell’ opera. I tagli fotografici di Man Ray sono bassi, distorti, quasi anamorfici; la luce ha attraversato per ore l’obiettivo per ottenere queste rese fotografiche di un paesaggio immaginario, lunare, illuminato di colori-non colori, creato da pittura-non pittura: “Non nel senso di opposizione alla pittura, al colore”, scrive Elio Grazioli nel suo La polvere nell’arte, “ma nella logica tutta duchampiana della differenza, anzi dell’indifferenza[…]ed essa crea altro e (…) dà origine al suo frutto più eclatante : i ready mades contemporanei alla lavorazione del grande vetro.”
Come si può presentare attraverso la fotografia un’opera d’arte in cui la polvere sia un elemento-chiave? Quali i criteri per rendere sulla pellicola questa seconda pelle salvaguardandone l’integrità simbolica? Le fotografie di Luigi Ghirri (1943-1992) raccolte nel volume L’atelier Morandi e quelle dedicate da Man Ray al Grande vetro di Duchamp riescono a ri-creare questa impronta. È un legame per analogia quello delle impronte di polvere che Ghirri coglie nello studio di Giorgio Morandi, uno fra i gli artisti più solitari ,“ un frate novecentesco” come lo definisce Cesare Garbali in Falbalas: “Morandi, lui che odiava tutto quello che luccicava troppo, lasciava che uno strato di polvere di depositasse sopra i suoi oggetti per smorzarne il brillio.”
Trent’anni dopo la sua morte, il fotografo è entrato nello studio dell’artista in via Fondazza a Bologna e in quello di Grizzana sull’Appennino bolognese, onorando con una serie di scatti quella stessa discrezione luminosa dei suoi dipinti; ne imita l’immortale “tocco di luce in meno” emanato da bottiglie ,caraffe, cuccume e bricchi, sempre ripetuti nei suo dipinti, “senza che mai ci sfiori il sospetto dell’ossessione (è il miracolo di Morandi)” prosegue Garboli. Ghirri fa dialogare queste suppellettili assiderate, eppure calde in quella cipria di polvere che le ricopre , con i segni sporchi sul pannello di compensato retrostante: sono le ditate di Morandi e i tocchi di pennello tutti grigio su grigio, strisciati su quel legno morbido, facendo entrare anche i residui come elementi necessari per comprendere l’opera. Ghirri coglie benissimo questa cerniera fra le nature morte di Morandi e la sua fatica del dipingere, dello sporco da lasciare “sotto lo zerbino”, per arrivare a quel senso di arcaico degli oggetti coperti solo con quel tanto di polvere necessaria.
Bibliografia
- John A. Amato, Polvere. Una storia del piccolo e dell’invisibile, Bollati Boringhieri, Torino, 2002
- Elio Grazioli, La polvere nell’arte, Bruno Mondadori, Milano, 2004
- Celeste Brusati, The Universal Art of Samuel van Hoogstraten (1627-1678), Amsterdam University Press – Stable URL: https://www.jstor.org/stable/j.ctt6wp6wc.6
- Cesare Garboli, Falbalas. Immagini del Novecento, Garzanti, Milano, 1990
- Dust / Histoires de poussière d’après Man Ray et Marcel Duchamp, Catalogo della mostra a cura di Gerhard Richter -Museo Le Bal -Parigi 2015 /2016
- Georges Didi-Huberman, Sculture d’ombra. Aria polvere impronte fantasmi, Electa, Milano 2009
June 25, 2021