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Il poeta fedele: Boltraffio e l’allegoria di Girolamo Casio

Cristina Quattrini (da Nuovi Studi 26, 2021 anno XXVI)

Una nuova analisi dell’Allegoria di Girolamo Casio dipinta da Boltraffio, opera che plaude la devozione del poeta per i Medici

L’Allegoria di Girolamo Casio della collezione del Duca di Devonshire a Chatsworth (Bakewell, Derbyshire), dipinta da Giovanni Antonio Boltraffio (1465-1516) a Bologna, all’apertura del Cinquecento, deve parte del suo fascino all’apparente ambiguità del soggetto. La tavola raffigura da un lato un elegante giovane androgino con le iniziali “C B” ricamate in oro sul bavero, dall’altro un teschio in una nicchia con l’iscrizione “insigne svM ieronyMi cAsii”. Il soggetto del recto nel tempo è stato visto anche come figura o ritratto femminile, come immagine idealizzata dello stesso Casio (alias Girolamo Pandolfi 1464-1533) o come archetipo di bellezza portatore di messaggi di amore o di amicizia fra uomini che dovevano essere comprensibili in ambienti colti e cortigiani.

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Giovanni Antonio Boltraffio, “Allegory of Girolamo Casio”. Duke of Devonshire Collection, Chatsworth House.

L’interpretazione in chiave amorosa e poetica è centrata sulla familiarità di Boltraffio con gli ambienti intellettuali delle corti padane al volgere del secolo e sulla figura di Casio autore di poesie che trattavano di amore e (soprattutto) di morte, oltre che sull’epitaffio da lui dedicato all’artista: “L’unico elievo dl Vinci Leonardo, Beltraffio/ Che co’l Stile & co’l pennello / Di Natura facea ogni huom più bello/ Morì ch’l Ciel non fu a rapirlo tardo”. Il penultimo verso, infatti, è stato letto talvolta non in relazione al tema del paragone fra natura e pittura, ma come testimonianza di una produzione di ritratti che avrebbero sublimato gli effigiati in immagini ideali. A questa lettura hanno contribuito la mano destra sul cuore del giovanetto, che pare alludere alla ferita inferta dallo sguardo della persona amata secondo un topos petrarchesco, i suoi occhi che cercano quelli dello spettatore e la stretta somiglianza con i cosiddetti Giovani in veste di san Sebastiano dello stesso Boltraffio del Museo Pŭskin di Mosca (circa 1496) e del Timken Museum of Art di San Diego (circa 1500-1501). Questi raffigurano il santo in un aspetto insolitamente adolescenziale, secondo una rara formula nata a Milano in ambiente leonardesco nell’ultimo decennio del Quattrocento, nota da pochi esemplari per lo più dovuti a Giovanni Antonio stesso e a Marco d’Oggiono. A loro volta infatti, i ‘giovani con la freccia’, in qualche caso privi di aureola, sono stati considerati immagini sensuali o sentimentali dalle valenze neoplatoniche e i dardi che impugnano sono stati collegati al tema petrarchesco dello strale d’amore, corrente nella lirica del tempo e nella produzione dello stesso Casio. Per la loro somiglianza con l’Allegoria sono stati anch’essi riferiti alla committenza di quest’ultimo e talvolta ritenuti suoi ritratti idealizzati, senza tuttavia che se ne conoscano committenza e destinazione.

Altro dipinto di Boltraffio che ha interferito fino a poco tempo fa in questa vicenda critica è il Ritratto di giovane con un teschio della Pinacoteca di Brera, proveniente dall’Archiginnasio di Bologna. Questo, in realtà, è stato trasformato in ritratto di Girolamo Casio dall’aggiunta di una corona d’alloro sul cappello e dei versi tratti dalla Clementina che celebrano l’investitura d parte di Clemente VII a poeta laureato e a cavaliere aurato (titolo nobilitante) a coprire una scritta preesistente sul cartiglio.

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Giovanni Antonio Boltraffio, “Allegory of Girolamo Casio” (back of the painting). Duke of Devonshire Collection, Chatsworth House.

Il significato del quadro di Chatsworth continuerebbe a essere misterioso e a suggerire com- plesse chiavi di lettura senza un documento recentemente scoperto, decisivo per ricostruirne quasi per intero la storia collezionistica e per circoscrivere le ipotesi sulla destinazione. Si tratta di una testimonianza rinvenuta da Luca Boschetto, che molto generosamente mi ha permesso di pubblicarla.

Il manoscritto in quattro volumi Delle casate et famiglie fiorentine della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze rientra nella categoria fiorentina dei prioristi ‘a famiglie’ ed è stato scritto fra l’ultimo decennio del Cinque e il primo del Seicento da Giuliano Ricci (1543-1606), nipote di Niccolò Machiavelli. Dedicato ai Medici, esso è una dettagliata storia dei casati di Firenze, suddivisi nei quattro quartieri cittadini. Nella parte riguardante gli stessi Medici, in una pagina che tratta di Leone X e di Clemente VII (vol. IV, f. 189v), Ricci ha inserito questa nota, nella quale si riconosce immediatamente l’Allegoria di Girolamo Casio di Boltraffio e si trova la notizia inedita di un coperto perduto:

Non mi pare fuor di proposito il fare menzione di un quadro che di donna bellissima ritratta al naturale di mano di raffaello da urbino pittore eccellentissimo si ritruova hoggi nel 1602 in casa di successori di m. piero turini da Pescia uno d[e’] quali turini fu cameriere di papa leone et si vede che il quadro fu fatto ad instantia di d[e]c[t]o papa leone, o, di altri di quelli tempi q[uest]a figura ha li capelli sparsi fatti con tanta diligentia et accuratezza che si scambiano da veri et si conteriano a uno a uno e da un curioso per vedere se vi erano posti veri, o, se pure erano finti furono co[n] ferro tentati e scortecciati 12 de e a foggia di una spera da una parte nel rovescio e un teschio di morto ritratto da[l] naturale co[n] q[uest]e parole insigne sum hieronimi casii dall’altra parte nell’assicella che la cuopre vi e l’arme de medici antica con un motto. Ricordasi assai chi ben serve e tace.

Nel 1602, dunque, il dipinto si trovava presso i discendenti di Piero Turini, figlio di Giulio e nipote di Andrea (1473-1550), che era stato figura eminente della nobiltà pesciatina e della cerchia medicea, medico di Clemente VII, di Caterina de Medici e del re di Francia Francesco I, poi di papa Paolo III 13. Baldassarre (1486-1543), uno dei fratelli di Andrea, fu amministra- tore del ducato di Urbino per Lorenzo de’ Medici e dal 1519 datario di Leone X e poi chierico di camera di Paolo III ed è noto per la sue relazioni con gli ambienti artistici toscani e romani del tempo 14. Amico di Raffaello, del quale gestì le finanze e fu esecutore testamentario, seguì la realizzazione de parte di Giuliano da Sangallo il Giovane e Baccio Bandinelli delle tombe di Leone X e Clemente VII in Santa Maria sopra Minerva. A Roma si fece costruire da Giulio Romano la villa (poi Lante) al Gianicolo con affreschi per lo più di Polidoro da Caravaggio, a Pescia fece ristrutturare il palazzo di famiglia e fra il 1534 e il 1542 affidò a Baccio d’Agnolo e al figlio Giuliano la cappella nel Duomo destinata a ospitare il monumento funebre dello zio Baldassarre senior e il proprio, scolpiti rispettivamente da Raffaello da Montelupo e da Pierino da Vinci (nipote di Leonardo), e la Madonna del baldacchino lasciata incompiuta da Raffaello in Santo Spirito a Firenze.

La nota in Delle casate et famiglie fiorentine permette di rendersi conto che sia Giorgio Vasari sia Raffaello Borghini menzionano il quadro in casa Turini a Pescia, riferendolo a Leonardo e identificandone il soggetto come un giovinetto. Il primo, infatti, riferisce:

[Leonardo] Fece in questo tempo per M. Baldassarre Turini da Pescia che era datario di Leone: un quadretto di N. Donna con il figliuolo in braccio con infinita diligentia e arte. Ma, o sia per colpa di chi lo ingessò, o pur per quelle sue tante, e capricciose misture delle mestiche e de colori, è hoggi molto guasto. Et in un altro quadretto ritrasse un fanciulletto, che è bello a guardare a maraviglia, che oggi sono tutti e due in Pescia appresso a messer Giulio Turini.

La stessa notizia ritorna in Borghini:

[Leonardo] “Dipinse in un quadretto una Nostradonna col figliuolo in collo, & in un altro quadretto ritrasse un fanciullo che è bello a maraviglia, i quali quadri non da molto tempo erano in casa i Turini di Pescia, e peraventura ancora vi sono.

Nessuno dei due fa parola del verso con il teschio e l’iscrizione con il nome di Casio, né del coperto con l’arma medicea. Forse non conoscevano l’opera dal vero, forse ai loro tempi essa era esposta sul lato più accattivante, mentre non erano visibili quello con il memento mori e la tavoletta di copertura.

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Giovanni Antonio Boltraffio, Portrait of a Youth Holding an Arrow. Timken Museum, San Diego, CA, US.

In Delle casate et famiglie fiorentine non si trova cenno alle loro attribuzioni a Leonardo. Giuliano Ricci, che condivideva gli studi di storia e filologia con Borghini e che detestava Vasari e ne criticava gli errori storici nelle Vite e le origini non nobili, riferiva l’opera a Raffaello. Il resto della storia dell’Allegoria di Girolamo Casio è noto. Il 30 gennaio 1636 la tavola arrivò a Londra, parte di un ingente dono di dipinti da tempo promesso al re Carlo I e alla regina Enrietta da Francesco Barberini, potente cardinal nepote di Urbano VIII: un omaggio politico, volto a rendere la politica dell’Inghilterra favorevole al cattolicesimo. L’Allegoria, creduta un ritratto di donna e ormai priva del suo coperto, fu particolarmente apprezzata dai reali e da Inigo Jones, architetto della corona. Quest’ultimo, scriveva l’agente papale Gregorio Panzani al Barberini, “[…] crede che il Quadro del Vinzi sia il ritratto d’una tal Ginevra Benzi venetiana, e lo raccoglie da G. e B. che ha sul petto, e questo suo concetto, come che è huomo vanissimo, e molto vantatore, lo replica spesso per mostrare la sua gran pratica di Pitture”.

Nel 1761 il dipinto era passato nella collezione dei duchi di Devonshire, si trovava nella loro residenza londinese a Piccadilly sotto il nome di Leonardo da Vinci ed era ritenuto un ritratto del duca di Braganza. Ancora a Devonshire House lo segnala Johan David Passavant, il primo a orientarlo su Boltraffio, mentre Waagen lo descrive a Chartsworth e ipotizza che sia un ritratto di Boltraffio dipinto da Leonardo e che le iniziali fossero in origine “G.B”.

[Qui la nostra intervista con Peregrine Cavendish, 12° Duca di Devonshire. Ndr.]

Giuliano Ricci era consapevole che il quadro non era stato eseguito per i Turini ma per qualcuno di casa Medici. La mancata menzione del cappello cardinalizio sul perduto coperchio con “l’arme dei medici antica” potrebbe indurre a escludere Giovanni de’ Medici (1475-1521), il futuro Leone X, a favore del fratello Giuliano (1479-1516), dal 1515 duca di Nemours. L’Allegoria di Girolamo Casio, in ogni modo è strettamente legata alle tormentate vicende dei Medici durante la repubblica fiorentina, e al ruolo nella causa medicea rivendicato da Casio stesso, la cui fedeltà fu gratificata con cariche e onori da Leone X, da Giuliano e da Clemente VII (Giulio de’ Medici).

L’Allegoria appartiene alla fase stilistica della pala del Louvre che nel 1500 Girolamo fece eseguire a Botraffio per la cappella di famiglia in Santa Maria della Misericordia a Bologna. In questo momento l’artista, che alla caduta del Moro a fine 1499 deve essersi recato a Venezia con Leonardo venendo a conoscenza delle opere di Giovanni Bellini e incrociando il percorso di Giorgione, mostra anche la conoscenza del classicismo precoce di Lorenzo Costa e di Francesco Francia. Nell’ottobre 1502 Boltraffio era di nuovo a Milano e riceveva la commissione della Santa Barbara della Gemäldegalerie di Berlino per Santa Maria presso San Satiro.

Dai Diari di Marin Sanudo si sa che fra il 1497 e il 1504 Giuliano de’ Medici risiedette principalmente a Bologna, la prima città alla quale si erano rivolti i figli di Lorenzo il Magnifico in fuga da Firenze; dall’autobiografia inserita da Casio nella Clementina (1523) si apprende che nel 1501 il poeta ospitò in casa sua il futuro duca di Nemours, allora impegnato a coinvolgere Cesare Borgia in un progetto di restaurazione dei Medici a Firenze. La loro familiarità appare duratura. Nell’agosto 1510 “il magnifico Iuliano”, che viveva allora alla corte di Francesco Maria Della Rovere, fece arrivare a Federico Gonzaga a Urbino dieci braccia di taffetà per conto di Girolamo, in quel momento coinvolto nelle vicende di un ritratto del marchese di Mantova commissionato a Francesco Francia da sua madre, Isabella d’Este. Nel 1514 Giuliano ricompensò la fedeltà di Casio concedendogli di aggiungere il cognome Medici al proprio, come riferisce un tetrastico della Clementina; negli Epitaffi un altro tetrastico e un sonetto lo celebrano dopo la morte avvenuta nel 1516.

Vissuto muovendosi fra le corti durante l’esilio dei Medici da Firenze e dotato di una statura politica recentemente rivalutata, Giuliano era poeta e bibliofilo (possedeva il manoscritto Hamilton 90 del Decameron di Boccaccio della Staatsbibliothek di Berlino) ed è evocato fra gli interlocutori del Cortegiano da Baldassarre Castiglione e fra quelli delle Prose della volgar lingua da Pietro Bembo, conosciuto a Venezia durante l’esilio. Quando Leone X, all’inizio del pontificato, progettava di creargli uno stato dinastico, è possibile che Niccolò Machiavelli, con il quale Giuliano era in ottimi rapporti, gli volesse dedicare Il Principe. Alla stessa epoca, a Roma, egli ebbe al suo servizio Leonardo e fu immortalato da Raffaello e bottega nel Ritratto del Metropolitan Museum di New York.

Giuliano de’ Medici sembra un buon candidato per essere stato all’inizio del secolo il destinatario dell’elaborato dono del Pandolfi. Egli doveva essere in grado di apprezzare la pittura di Boltraffio, che verosimilmente aveva conosciuto nella cerchia di Leonardo a Milano, dove visse fra il 1495 e il 1498 alla corte di Ludovico il Moro, abitando nel palazzo che era stato del Banco Mediceo. La fama del pittore, inoltre, poteva essergli giunta da Mantova, dove Giovanni Antonio era stato inviato nel 1498 da Isabella d’Aragona per copiare un ritratto di suo fratello Ferrante appartenente ai Gonzaga, o da Venezia, dove si ritiene si sia recato nel 1499 con Leonardo e Luca Pacioli.

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Giovanni Antonio Boltraffio, Portrait of a Young Man. Pinacoteca di Brera, Milan, IT.

Il quadro di Chatsworth, ora inserito in una cornice seicentesca di pietre dure, era latore di un messaggio preciso. Si può supporre che aprendo il coperto con lo stemma mediceo e la frase “Ricordasi assai chi ben serve e tace” si vedesse l’enigmatico adolescente con le iniziali “C B” sul bavero, sciolte in “Casius Bononiensis” da Wilhelm Suida. Girando la tavola sarebbe quindi apparso il teschio in una nicchia. L’iscrizione “Insigne sum Hieronimi Casii” (“sono l’emblema di Girolamo Casio”) chiariva di chi colui che riceveva il dono si sarebbe dovuto ricordare, per i suoi servigi e la sua discrezione.

Il perduto coperto descritto da Giuliano Ricci rimette in discussione i significati finora attribuiti all’opera. L’Allegoria è più che altro un memento mori, costruito contrapponendo un’immagine di avvenenza giovanile a una di morte: un memento mori, ma associato a una dichiarazione di fedeltà e a una richiesta di gratitudine per niente velata. Non è obbligatorio vedere nel ragazzo androgino sul recto un’immagine idealizzata del trentaseienne poeta, le cui vere fattezze sono tramandate dalla pala ora al Louvre. Si tratta, piuttosto, di una formula leonardesca di bellezza adolescenziale, impiegata da Boltraffio anche nei Giovani in veste di san Sebastiano di Mosca e di San Diego senza che questo comporti che il committente fosse lo stesso e che essi trasfigurino l’immagine di un personaggio reale. Come dipinto a due facce dal significato simile si può richiamare l’esemplare di Andrea Previtali del Museo Poldi Pezzoli di Milano, databile all’incirca fra il 1502 e il 1506, dove il recto è un vero ritratto di giovane e sul verso si legge la firma dell’artista accanto a un teschio e un cartiglio con la scritta “HIC DECOR H[A]EC FOR- MA MANET H[A]EC LEX OMNIBUS UNA”.

Come ha evidenziato Elena Rama, il tema della vanitas è in linea con quella che sarebbe divenuta una specialità della lirica di Casio: gli epitaffi. Come egli confessa candidamente nelle Vite dei santi, sarebbe stato poi lo stesso Leone X a incoraggiarlo a praticare questo genere, data la concorrenza troppo spietata nel campo della poesia d’amore.

Per gli studi di storia dell’arte Girolamo, “mercante e zoielliero” che “con Appol’ hebbe la mente unita”, è figura di estremo interesse, come committente (di Fra Bartolomeo, Giuliano Bugiardini, Ludovico Mazzolino, Giacomo Francia oltre che di Boltraffio), come collezionista di antichità (quando morì la sua collezione fu acquistata da Primaticcio per il re di Francia) e come tramite fra artisti e committenti in grado nei primi anni del Cinquecento di orientare il gusto delle corti padane. La Cronica contiene versi dedicati a numerosi artisti (emerge un particolare legame con Francesco Francia) e a collezionisti e committenti di Bologna, e componimenti su opere alcune delle quali altrimenti ignote.

Sono meno indagati il suo ruolo politico — Casio era legato ai Bentivoglio e ai Gonzaga ed era consulente per acquisti e commissioni di Isabella d’Este — e le sue benemerenze nei con- fronti dei Medici. Benemerenze che comportano anche un ruolo diplomatico. Nella Clementina subito dopo avere ricordato l’ospitalità offerta a Giuliano de’ Medici egli passa a elencare i propri meriti di quegli anni: si attribuisce la liberazione degli ambasciatori felsinei Angelo Ranucci e Giovanni Marsili fatti prigionieri da Vitellozzo Vitelli nel 1501 durante l’assedio di Imola e nel 1503, oratore di Bologna presso Cesare Borgia, il progetto della spedizione dei bolognesi e della Chiesa per restaurare i Medici a Firenze, poi lasciato cadere dal Valentino dietro compenso della città. Afferma anche di avere combinato le nozze senza dote fra Ermes Bentivoglio e Giacoma Orsini (figlia di Giacomo capitano del Valentino), unione strategica nelle relazioni fra Bologna e il Borgia celebrata nel 1504. Rivolto a Leone X, rivendica una cieca fedeltà ai Medici nei tempi bui e ricorda di avergli donato a Roma un cappello con un pendente di agata (“pietra di Giove che benevolenza acquista”) raffigurante lo Spirito Santo, pronosticandogli l’ascesa al soglio pontificio.

Sebbene Leone X si circondasse di poeti e letterati di livello assai ineguale, gli onori con cui i Medici ricompensarono il Pandolfi appaiono sproporzionati rispetto alle doti poetiche, segno che i loro debiti di riconoscenza nei suoi confronti non dovevano essere da poco. Nel 1513 il neoeletto Leone X inserì Girolamo tra i Quaranta del Reggimento di Bologna, carica presto decaduta per la contrarietà del senato a causa delle umili origini, seguirono nel 1514 il titolo di cavaliere e, da parte di Giuliano, la concessione del cognome Medici. Nel 1523 la proclamazione da parte di Clemente VII a cavaliere aurato e poeta laureato furono il culmine del cursus honorum di Girolamo, ma diventarono presto facile argomento di scherno per i suoi detrattori, fa i quali l’Aretino e Paolo Giovio.

Bersaglio di Francesco Berni nel Dialogo contra i poeti (1526) come incarnazione del poeta vaniloquente, adulatore e perennemente in cerca di protezioni e uffici, Casio nella Clementina dedica vari componimenti ai figli di Lorenzo il Magnifico. Alcuni sonetti parlano degli omaggi di oggetti preziosi (non di quadri) a Leone X — il pendente da cappello ricordato prima, un piatto di diaspro con la testa del Battista, una scultura di legno raffigurante un cavaliere (allusione alla concessione di un cavalierato) — e di un anello regalato a Clemente VII. Nei versi indirizzati a Leone X il poeta auspica ripetutamente segni di gratitudine al proprio fedele servizio. Nella Gonzaga tale attitudine e tale condizione sono dichiarate nel Sonetto ai lettori:

Se dato è dal destin, Sorte o Natura,
Servir, o dominar per fin a morte,
Quel laudo, che’l servir mi diede in Sorte,
Io servo e al ben servir mai sempre ho cura
Senza esso mancaria la mia natura
Qual senza cibo ogni Animal ben forte,
Però a quei lochi vado, e a quelle porte
Ove penso gradir mia fede pura.
Non avendo fin qui del sparso seme
Altro che ingratitudine raccolto
Mancar al mio servir dovria la speme.
Non manca, no, anci più intento, e sciolto
Di voglia servo (e sol c’habbia mi preme)
Per Morte dal servir esser disciolto.

Un simile atteggiamento anima, già all’inizio del secolo, il dono del quadro di Boltraffio.

Nei fatti il ricordo dell’omaggio di Girolamo Casio a un Medici, forse Giuliano, svanì dopo poco tempo. Presto il dipinto, del quale nessuno capiva più il significato, passò ad Andrea o a Baldassarre Turini, membri di spicco della cerchia medicea. Celebre nelle corti padane al volge- re del secolo e cantato come eccezionale ritrattista da Marcello Filosseno, Lancino Curzio e dallo stesso Casio, Boltraffio non era famoso in Toscana. Vasari si limita a nominarlo al termine della Vita di Leonardo come suo allievo, nella Torrentiniana non ne ricorda alcuna opera, nella Giuntina menziona solo la pala Casio e non i dipinti lombardi. Il suo nome fu dimenticato e in casa Turini l’Allegoria, forse per accrescerne il valore, era riferita a Leonardo o a Raffaello.

Senza Giuliano Ricci la memoria del coperto, che non è arrivato fino a noi, sarebbe andata perduta. Essa restituisce al quadro di Botraffio un senso più prosaico di quanto si potesse immaginare, legandolo alle vicende dei Medici durante l’esilio da Firenze e al “ben servir” di Girolamo Casio.

January 26, 2023