Il Belisario ritrovato: un Legnanino per il Principe di Carignano
Una dipinto di Stefano Maria Legnani (detto il Legnanino) è stato recentemente scoperto a Palazzo Carignano, a Torino
Dormiva sotto una coltre di polvere centenaria e con il roboante nome di Luca Giordano la tela di Stefano Maria Legnani detto il Legnanino (Milano 1661 – 1713) che qui si vuole per la prima volta presentare (208 x 195 cm). Il pittore fu artista poliedrico poiché seppe adempiere commissioni di grande prestigio e respiro con una pittura innovativa, pienamente barocca, connessa con i grandi modelli classici del passato ma rinnovata da un gusto alla moda. Autonomo nello stile fin dai suoi albori, risulta tutt’oggi pittore di immediata riconoscibilità e, per dirla con le parole di Marina Dell’Omo alla quale si deve la prima monografia, egli gioca “un ruolo d’innovatore nell’ambiente pittorico lombardo, negli anni che precedono l’arrivo di Tiepolo e la moda della grande decorazione dell’affresco settecentesco”.
Osservando la tela del Belisario comprendiamo l’‘errore intelligente’ che venne tramandato per generazioni nella famiglia che lo custodiva: il quadro dovette far certamente fantasticare l’ignoto attribuzionista della fine dell’Ottocento che, osservando forse la freschezza della pennellata, il chiarore venetisant dell’insieme e l’acribia pittorica per la ricerca dei dettagli sofisticati, ebbe l’ardire di proporre la tela come opera di Luca Giordano (attribuzione rimasta tale fino al riconoscimento attuale).
L’opera è concepita con una grande composizione in cui viene dispiegata teatralmente la vicenda, rarissima nel campo delle arti figurative e sulla quale ci si soffermerà più avanti, di uno dei più importanti condottieri romani dell’Impero d’Oriente caduto in disgrazia e costretto a chiedere l’elemosina. Gli attori vengono posti in due gruppi da tre personaggi, le campiture sono larghe, le pennellate velocissime e espressioniste in alcuni punti, una pittura di trasparenze come spesso il Legnanino ci ha abituato a cavallo dei due secoli, lampi di luce percorrono le zone più in ombra mentre sulla sinistra il cielo schiarisce insieme ai colori pastello dei personaggi annunciando in questo modo la venuta del nuovo secolo. Si parlava di ‘errore intelligente’ riguardo l’antica attribuzione poiché nei più recenti contributi critici dedicati al Legnanino, pittore la cui importanza e portata storica è stata riscoperta all’incirca negli ultimi venti anni, il nome di Giordano è stato accostato al milanese proprio per alcune caratteristiche sopra espresse.
La riscoperta critica del pittore trova origine agli inizi degli anni novanta del Novecento nei saggi puntuali di Simonetta Coppa, di Marina Dell’Omo e di altre voci: gli studiosi non solo hanno ordinato in maniera organica la sua attività nelle grandi commissioni lombarde, piemontesi e genovesi, ma hanno anche riportato alla luce importanti documenti, eccezionali prove pittoriche e il clima culturale in cui Legnanino operò. Più di recente nuove scoperte hanno incrementato la conoscenza di questo artista. Tra le più significative la testimonianza del suo apprendistato bolognese e romano grazie al ritrovamento di uno scambio epistolare riguardante la ‘raccomandazione’ per il giovane artista dell’illustre committente e mecenate Vitaliano VI Borromeo di Isola Bella.
Come Monferrini e Dell’Omo hanno messo a fuoco, lo scambio epistolare permette di ipotizzare la frequentazione della villa, di primaria importanza per le suggestioni artistiche ivi contenute e meta di tutti gli artisti lombardi, inoltre la certezza che nel 1682 (anno in cui è datata la missiva) il Legnanino si trovava a lavorare a Bologna presso importanti famiglie quali il marchese Cesare Tanari (che inizialmente lo ospitò), il conte Pepoli (probabilmente Ercole) e il signor Pizalli (referente bolognese per i Borromeo). La famiglia Pepoli aveva legami con i Borromeo per vincoli di parentela, inoltre è significativo il ricevimento di Ercole Pepoli nel febbraio del 1679 alla corte di Torino, conoscenze che vennero mantenute nel tempo anche in rapporto alla nobiltà che vi gravitava. La figura del Pizalli, come è stato dimostrato da Monferrini, è da tenere in gran conto poiché lui stesso era possessore di una collezione d’arte invidiabile, incentrata sui grandi pittori bolognesi, veneti e centro italiani.
Appare ulteriormente significativo per il nostro studio, che ci condurrà tramite il Belisario alla corte piemontese, sottolineare il contatto che il Pizalli ebbe nel 1686 con il Principe di Carignano quale intermediario per l’invio di due quadri di Antonio Francesco Peruzzini da Bologna a Torino. Il Principe soggiornò a Bologna per cinque mesi (dal 13 dicembre del 1684) a causa di un esilio imposto da Luigi XIV re di Francia: Emanuele Filiberto Amedeo di Savoia-Carignano (Moutiers 1628 – Torino 1709) si sposò con Maria Caterina d’Este mentre il regnante francese avrebbe preferito una nobile francese per avere ovviamente più influenza nella corte torinese. A causa di questa disubbidienza, il principe di Carignano fu bandito dalla città di Torino trovando dimora a Bologna. Filiberto riuscì a far rientro a Torino tramite una missiva di chiarimento e conferma della sua fedeltà: in questo breve periodo ebbe modo di conoscere l’aristocrazia locale frequentando nuovamente i Pepoli.
É stato dimostrato da Marina Dell’Omo che il principe e Legnanino non poterono incontrarsi in questa occasione poiché il Legnani rimase a Bologna sino alla primavera del 1684, data in cui scrive una lettera al suo mecenate Vitaliano nella quale asserisce “di aver compito in parte alle opere cominciate” e di volersi trasferire a Roma “a studiare le cose insigne” 8 . Questo importante indizio sulla formazione romana dell’artista, da sempre ipotizzata dagli studiosi, può definirsi uno dei tasselli importanti per la matrice che guiderà le sorti stilistiche del Legnani. L’artista rimase a Roma fino alla seconda metà del 1685. Gli importanti contatti che s’intrecciarono tra i nobili felsinei e piemontesi e la relazione con i primi da parte di Legnanino furono la culla per la futura chiamata dell’artista alla corte piemontese. Se osserviamo brevemente l’ascesa artistica del Legnani appare evidente l’attenzione successiva che ebbe per lui la nobiltà e la corte torinese da sempre interessata a pittori con formazione accademica e orbitanti tra Bologna e Roma.
A Milano lo Scaramuccia poté infervorare la mente dell’artista agli albori della carriera indirizzandolo verso il classicismo bolognese, tanto da far gravitare il pittore dapprima su quella città, in seguito a Roma ove, al momento, registriamo soltanto la pala raffigurante la Sacra famiglia con la Santissima Trinità conservata nella chiesa di San Francesco a Ripa. Su questa commissione si è soffermato Paolo Coen che ha evidenziato la figura importantissima di Olimpia Ludovisi e la datazione in cui si può circoscrivere l’esecuzione della pala d’altare (la tela è databile tramite i recenti ritrovamenti tra il 1684 e il 1685) tenendo conto della costruzione della cappella di San Giuseppe presso cui doveva essere collocata. Il pittore dovette interessare Olimpia per la sua formazione nella città felsinea (1682-84) a contatto con pittori del calibro di Carlo Cignani e Domenico Maria Canuti: i Ludovisi furono dediti al collezionismo di un certo tipo di classicismo di marca bolognese. La teoria di Coen, riguardante i motivi della scelta artistica di Olimpia, trova le ragioni nella suggestiva annotazione che la pala del Legnanino veniva a supportare il classicismo delle pale del Cavalier d’Arpino con il San Francesco in estasi e di Annibale Carracci con la Deposizione in netto contrasto con la Beata Ludovica Albertoni del Bernini e la rispettiva pala d’altare del Gaulli poste nella medesima chiesa. Il Titi, sottolinea Coen, menziona anche la costruzione della cappella di San Giovanni da Capestrano che doveva essere decorata con opere di Ciro Ferri e di Carlo Maratta: in questo modo veniva precisandosi la sfida al barocco di Bernini e Gaulli da parte dell’Accademia.
Il fascino degli artisti bolognesi del versante classicista incise fortemente sull’estro del Legnanino: egli dovette ricercare e studiare attentamente i lavori dei grandi maestri emiliani nell’Urbe per comprendere come avevano innestato il loro stile nell’ambiente romano. Prove delle suggestioni di queste ricerche si possono ritrovare puntuali in molteplici dipinti del Legnani: nelle quattro tele con le Storie di Bacco e Arianna (Comune di Saronno, già in Palazzo Calderara a Milano) compaiono alcune figure derivate direttamente dalla volta Farnese di Annibale Carracci. Ad esempio la donna sulla sinistra che porta seminuda il cesto di vimini in testa corrisponde esattamente a quella di Annibale. Allo stesso modo nell’altra tela del medesimo ciclo il Sileno a cavallo del somaro sorretto da due satiri ricalca il gruppo carraccesco.
La volta dovette impressionare talmente Legnanino che nel corso della sua carriera riprese queste figure più volte: la donna con il cesto ritorna nella Pala detta della Vittoria ovvero della Natività della Vergine (chiesa di San Massimo, Torino) nella figura sulla estrema sinistra questa volta abbigliata in maniera più consona ad un soggetto religioso. La donna che suona i cembali dell’estrema sinistra dell’affresco di Annibale torna molto simile in uno dei peducci degli affreschi di Palazzo Carignano. Il carro della Notte (purtroppo non ben leggibile a causa di uno stato conservativo non eccellente) dell’Appartamento detto di Mezzanotte nella ‘camera longa’ al pian terreno di Palazzo Carignano riprende l’Aurora Ludovisi del Guercino. Bisogna considerare che nell’Inventario dei beni del pittore sono citati due mazzi di stampe da 300 e 400 pezzi e di conseguenza non ci sorprenderemmo vi fossero le incisioni di Pasqualini dalla volta Ludovisi di Guercino (datate 1621) e quelle di Pietro Aquila dalla volta Farnese (datate 1670-1679).
Solo chi ha visto di persona l’affresco può tuttavia interpretarlo nel modo corretto e riproporlo con intelligenti variazioni iconografiche, ma mantenendo quell’effetto di movimento e di sfondato architettonico che rappresentano il vero dato interessante della composizione. Egli dovette trascorrere il suo tempo romano armato di fogli e lapis per disegnare dal vivo tutto ciò che potesse essere utile mescolando i suoi interessi tra gli autori classici, gli ardimentosi scorci di sotto in su di carattere scenografico e le novità più alla moda.
I lavori del Legnani una volta rientrato a Milano si estendono ben presto oltre i confini cittadini, è chiamato infatti a Novara e al Sacro Monte di Orta, a Lodi e a Monza. Il 1694 è però l’anno di svolta del pittore poiché è richiesto dalla corte torinese in cui viene messo alla prova con vaste superfici: egli lavora in contemporanea alla Cappella dei Banchieri e dei Mercanti (con la commissione di Padre Provana di Druent) e al Palazzo Provana di Druent (ora Palazzo Barolo). Su questi fondamentali lavori si preparava lo sfondo per il suo impegno più importante eseguito per i principi di Carignano. Si può al momento soltanto supporre che tramite lettere di raccomandazione dei Pepoli e dei Provana sia stato presentato a corte, tenendo presente che personalità legate al contesto felsineo ebbero un ruolo di primo piano nella commissione di questo lavoro, in particolare nella figura Ercole Agostino Berò con il suo programma predisposto per il salone del piano nobile (l’apparato iconografico è stato attuato però con riferimenti generici nell’appartamento meridionale a piano terra). Il palazzo fu costruito su disegno di Guarino Guarini e può essere considerato l’ultimo grande progetto prima della sua morte, mentre l’iniziativa della costruzione può datarsi negli anni settanta del Seicento da parte del principe (il palazzo fu terminato già nel 1684).
Il principe Filiberto aveva avuto un’infanzia difficile: sordo, dovette imparare con metodi duri a leggere e scrivere in più lingue e a far valere sul campo le doti di cavaliere emergendo in molteplici campagne militari. Seppe resistere agli intrighi di corte e ai giochi di potere per la successione al trono sino a quando Vittorio Amedeo II non avesse avuto eredi. Nel 1682 il principe Tommaso aveva sposato una borghese francese e quindi a Torino era necessario trovare una sposa per Filiberto per assicurarsi che la linea ereditaria andasse ad una coppia di sangue nobile (Tommaso nel frattempo venne diseredato).
Contro i voleri di Luigi XIV Filiberto scelse, come detto, Angela Maria Caterina d’Este, figlia di Borso d’Este. La reazione del regnate francese fu durissima poiché chiese a Vittorio Amedeo II di annullare il matrimonio o di esiliare il principe. La seconda opzione era quella più fattibile essendo i due innamorati sposatisi regolarmente. Le campagne militari filo-francesi a cui il principe aveva preso parte e l’esilio che sentiva ingiusto fecero nascere nella mente di Filiberto, aiutato parzialmente dal Berò e probabilmente da altri letterati, l’attento programma per una decorazione del palazzo guariniano ricca di un’iconografia specifica e atta alla glorificazione dei Carignano (più avanti si spiegherà le strette connessioni tra l’esilio del principe e le scelte iconografiche).
Fu così che l’impresa nel Palazzo Carignano di Legnanino si svolse in una dozzina di camere tra il 1695 e il 1703 con un ritorno nel 1707. La prima serie di affreschi ha un piano iconografico che vuole da un lato glorificare il Principe, in veste di Ercole, portandolo al cospetto di tutti gli dei, dall’altro lo si vuole celebrare nelle sue virtù intellettuali e etiche. Al secondo piano invece il principe è descritto come glorioso guerriero e viene presentato all’Olimpo; sono affrescati inoltre i continenti, le arti liberali e le quattro parti della notte.
La sua sensibilità decorativa a Palazzo Carignano non è lontana da quella di Daniel Seiter (chiamato a corte anch’egli dopo un’esperienza romana), tuttavia i loro stili e le radici della loro cultura, pur avendo matrici comuni, si differenziano. Legnanino dovette arricchirsi a Torino osservando i pittori genovesi ivi operanti, apprezzando le loro caratteristiche di leggerezza compositiva. I due artisti però dovettero osservarsi e insieme promossero, seppur in competizione e attraverso due vie parallele, una nuova lettura della luce e del fasto barocco giocando di anticipo sulle innovazioni di Sebastiano Galeotti al Castello di Rivoli e sulle novità dei veneti.
Legnanino e Seiter furono inoltre una guida per i nuovi pittori che nacquero o transitarono a Torino a cavallo dei due secoli e forse anche oltre. Essi rappresentavano infatti la grande pittura che la corte avrebbe ricercato negli anni successivi: un’arte aulica e solenne di matrice classica che unisse le accademie di Bologna e di Roma. Le sale da loro affrescate vennero studiate ad esempio sia da Beaumont e allievi, sia da Francesco De Mura e Corrado Giaquinto, questi ultimi transitati molto giovani per Torino nel terzo decennio del Settecento. Tramite i documenti si può ipotizzare l’esecuzione di tre tele eseguite dal Legnani per Palazzo Carignano: il ritratto di Filiberto (tuttora non identificato), la tela raffigurante Belisario e forse una terza che potrebbe essere identificata in quella Venere incoronata da Amore che si ritrova inventariata a Parigi insieme al Belisario e di cui si dirà più avanti.
Il recupero del Belisario e la storia personale del principe sopra riassunta rendono chiare le intenzioni: da un lato il ritratto ufficiale probabilmente in abiti cerimoniali, dall’altro il suo alter ego Belisario (rappresentato spesso, come in questo caso, cieco a chiedere l’elemosina), fiero generale romano la cui storia fu in seguito romanzata per essere caduto più volte in disgrazia sotto Giustiniano. Iconografia rarissima (nel Seicento si ricorda il Belisario di Mattia Preti, Museum Boijmans Van Beuningen), più diffusa con il Neoclassicismo, come illustra le tela famosa di Jacques-Louis David, la scena riassume esattamente il sentimento che Filiberto dovette provare durante il suo esilio: un senso di ingiustizia rispetto ai rapporti di potere. Non è da escludere che un ulteriore riferimento personale sia da riconoscere nella relazione tra l’handicap del generale, acciecato in una delle punizioni subite, e la sordità del principe.
La tela, per le strette attinenze sopra descritte, potrebbe essere stata pensata direttamente da Filiberto, conoscitore della storia romana grazie al contributo formativo di Emanuele Tesauro, letterato e storico alla corte Savoia. La sede d’origine del Belisario, come dimostrano i documenti di spesa, era Palazzo Carignano. Il dipinto fu eseguito contemporaneamente agli affreschi, se ne ha infatti menzione nei pagamenti del 16 agosto1697 in cui Legnanino riscuote 7.500 lire, cifra da suddividere con i compagni (probabilmente i quadraturisti e suo fratello Tommaso), per un “quadro grande ad olio rappresentante Belisario” e per gli affreschi dell’appartamento a piano terra verso mezzanotte.
Nell’Inventario del 1710, redatto in occasione della morte del Principe Emanuele Filiberto Amedeo, la tela è registrata nella stanza di piano terra verso la piazza e verso ponente “in cui si teneva il letto del Sig. Principe”, citandola come “un quadro grande di Belisario con cinque altre figure con li quattro angoli a circoli con cornice grande intagliata e dorata” con una stima ammontante a 525 lire.
Il dipinto, particolarmente caro alla famiglia Carignano per le virtù e il simbolismo espresso, ebbe una sorte collezionistica che lo portò per un periodo imprecisato fuori d’Italia. Alla morte di Emanuele Filiberto il figlio Vittorio Amedeo (Torino 1690 – Parigi 1741) ereditò e subentrò a palazzo. Nel 1714 sposò Vittoria Francesca di Savoia, figlia legittimata dal re Vittorio Amedeo II e della sua amante, Jeanne-Baptiste d’Albert de Luynes, la contessa di Verrua. Riallestendo le stanze un tempo abitate da Emanuele Filiberto, i due sposi si stabilirono definitivamente nel loro appartamento di Palazzo, tuttavia Vittorio Amedeo nel 1718 dovette organizzare una fuga da Torino verso Parigi a causa dei creditori che lo assediavano: il principe infatti aveva inclinazioni per una vita dispendiosa, il gioco e l’azzardo che gli fecero dilapidare un ingente patrimonio e contrarre molti debiti. Si stabilirono all’Hôtel de Soissons, il palazzo di famiglia da parte della nonna, Maria di Borbone Soissons, nei pressi della chiesa di Saint-Eustache e già residenza di Caterina de’ Medici.
Negli anni successivi i due coniugi furono accusati in biografie e memorie contemporanee di una vita dissoluta, senza riguardo alle modalità e alle quantità delle spese e di comportamenti immorali. La collezione di Vittorio Amedeo si accrebbe enormemente, partendo di certo da un piccolo nucleo portato con sé da Torino, ma alla sua morte si dovette organizzare un’asta dei beni per far fronte ai debiti. La storiografia recente, in particolare Giuseppe Dardanello nel 2012, ha messo in luce la consistenza di questa collezione parigina, sulla base dell’inventario in mortem del 1741, del catalogo d’asta del 1743 e degli elenchi di opere andate cedute a differenti compratori al di fuori della vendita all’incanto.
La grande tela del Legnanino raffigurante Belisario qui in esame figura in quegli elenchi dimostrando che il Principe volle riunire a Parigi un piccolo gruppo di opere di grande pregio già in suo possesso a Torino.
Oltre al Legnanino, Vittorio Amedeo portò con sé le Quattro stagioni di Marcantonio Franceschini (due delle quali si conservano oggi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna), poiché commissionate nel 1716 (come rivela il libro dei conti del pittore), e l’Assemblea degli Dei di Charles Dauphin. É importante osservare che al n. 252 dell’Inventario parigino figuri una Venere incoronata da Amore del Legnanino (ancora non identificata) posta nella medesima stanza delle Quattro Stagioni del Franceschini. Come poco sopra ricordato, appare suggestivo ipotizzare che il quadro del Legnanino raffigurante la Venere potrebbe essere identificato con quel dipinto non precisato negli inventari del Palazzo Carignano per il quale il pittore dovette far ritorno nel 1707 “per far il disegno, e prender le misure / del quadro della camera della serenissima Principessa”. In questo caso quindi possiamo in questa sede già raggruppare un numero di opere che il Principe portò con sé da Torino, tuttavia si deve rilevare la scarsità di notizie che purtroppo incombe sulla tela del Belisario, poiché dopo la ricostruzione storica della commissione e del suo successivo spostamento a Parigi, dopo la vendita del 1743 non siamo in grado, allo stato odierno degli studi, di trovare traccia di essa fino al momento attuale del suo ritrovamento.
La residenza parigina dei Carignano fu rinnovata dal raffinato architetto Germain Boffrand, dedito a progetti di residenze eleganti ma allo stesso tempo comode e funzionali. Il giardino pensato per l’Hôtel era enorme, la spericolata lottizzazione dei terreni per la nuova casa fu anche uno dei motivi per cui il principe si trovò nei successivi vent’anni sempre in affanno. Per migliorare la propria residenza Vittorio Amedeo coinvolgerà nel 1732 finanche l’architetto di corte Filippo Juvarra, il quale fornirà un disegno “del teatro con palazzo dell’Hôtel de Soissons in Parigi per il Serenissimo Principe di Savoia Carignano” 20. Il Palazzo e l’enorme giardino saranno sacrificati nel 1748 da Luigi XV per realizzarvi Les Halles au blé.
Ogni sala aveva il suo tema e i suoi plafond, la tela del Legnanino si trovava a seguito di “un petit passage a guache de la salle d’entrée” affiancato ad un dipinto raffigurante L’educazione di Amore di Charle Van Loo (stimato per la vendita 200 Luigi e assai minore di dimensioni, 89,3 x 121,8 cm). La collezione era davvero sconfinata, comprendeva porcellane alla “China” e svariate altre di genere differente (giapponesi, delle Indie, di Meissen e francesi) disposte in una ventina di ambienti, bronzi (tra cui alcuni di Ladatte) e mobilio di lusso. Il principe fece acquisti importanti una volta arrivato a Parigi per quanto concerne i dipinti: una Madonna con il Bambino di Andrea Solario (Parigi, Louvre), un Ritratto femminile di Jacopo Bassano, un’Adorazione dei pastori di Tintoretto, quattro dipinti dell’Albani, due concerti di Valentin e la Distruzione del tempio di Gerusalemme di Poussin (Gerusalemme, The Israel Museum), tutti provenienti dalle collezioni degli eredi di Mazarino.
Altri pezzi, di medesima qualità rispetto ai primi acquisti, entrarono in collezione successivamente: basti citare un Venere e Adone e un Ritratto di cavaliere di Malta di Tiziano (quest’ultimo conservato a Kassel, Staatliche Museen) e un Marte e Venere di Poussin, oltre a dipinti del Veronese, Domenichino, due Castiglione provenienti da collezioni fiamminghe (selezionati successivamente dal mercante De Brais per il re di Polonia per la considerevole cifra di 12.000 lire e ora uno al Louvre e uno a Dresda), tele di Jacques Courtois (ora al Louvre), Il giardino dell’Amore di Rubens di provenienza della contessa di Verrua (Dresda, Gemäldegalerie) e del medesimo autore Loth e la sua famiglia lasciano la città di Sodoma e Paesaggio con castello e torneo medievale (ora al Louvre), la Giovane donna che legge una lettera davanti alla finestra di Vermeer acquistato come Rembrandt dal commerciante De Brais.
Come fa capire questo elenco, buona parte della collezione del Principe di Carignano è tuttora visibile sparpagliata tra i più grandi musei del mondo: da Parigi (Louvre) a Dresda (Gemäldegalerie), da Kassel (Staatliche Museen) a Bologna (Pinacoteca Nazionale) e Torino (Galleria Sabauda). Dalle descrizioni del palazzo si evince quanto sfarzo e raffinato collezionismo veniva profuso dal principe. La tela del Legnanino si trovò dunque a gareggiare con antichi e moderni pittori: forse lo stesso artista non si sarebbe aspettato di doversi “confrontare” idealmente con una platea così variegata e impegnativa di colleghi.
Le tela del Belisario concentra quanto stava realizzando il Legnani negli affreschi delle sale di Palazzo Carignano. Pur rimanendo fedele a sé stesso stilisticamente, egli crea una pittura di luce, iridescente, contrastata nei toni schiariti e immaginifici di un Settecento che ancora deve arrivare. I sei personaggi sono calati in un ambiente creato con intelligenza, da un lato infatti vi è la quinta teatrale del muro che serve per dare maggior contrasto e rilievo alla figura centrale, il Belisario, e ai due soldati che lo riconoscono stupiti. D’altro canto a sinistra si apre un paesaggio di una Roma schiarita dalla luce desunta in primis da Correggio, aggiornandola però con stesure veloci e repentine, schiarite tramite la corretta lettura di Canuti e del miglior Gaulli romano.
Non si deve però dimenticare l’influsso dei pittori genovesi operanti alla corte torinese che, tramite le loro iridescenze, crearono interessanti suggestioni pittoriche. I soldati sulla destra, costruiti con pennellate gagliarde e contrastate, possono rievocare i migliori dipinti di Paolo Pagani, con forti ascendenze venete, che il Legnani riuscì vedere a Milano, mantenendo però una vena classica, retorica nelle pose e nei gesti, desunta dalla pittura romana. Le figure, concepite con un solido studio accademico, mostrano molteplici piccoli pentimenti in virtù di miglioramenti posturali e gestuali, quelle della donna, del bambino e del soldato all’estrema destra, ricorrono molto spesso in altre tele del Legnani. Le pitture che più rispecchiano questa vena creativa sono gli affreschi di poco precedenti del Sacro Monte di Orta e due pale d’altare: La predica di san Sebastiano della basilica di Sant’Ambrogio a Milano e le Nozze di Cana della chiesa di San Rocco di Miasino. Nella Predica di san Sebastiano, di poco successiva al Belisario (1703 circa), ritroviamo non solo l’ambientazione, ma tutta l’impostazione scenica e i raggruppamenti dei personaggi; molto similari sono anche il trattamento delle luci e la cadenza dei panneggi. Nella tela di Miasino (anch’essa da datarsi al 1703 circa) la figura del ricco signore in primo piano ha la medesima posa del soldato all’estrema destra del Belisario. La figura di quest’ultimo trova la giusta corrispondenza proprio in due lunette della sala detta ‘prima anticamera’ di Palazzo Carignano raffiguranti la Continenza di Scipione e Scipione poeta: nella prima il protagonista, oltre a esibire la medesima impostazione, ha alle spalle un tendone scuro che contribuisce a far risaltare la figura dallo sfondo. Nella seconda, oltre a ricalcare la posa della tela del Belisario, mostra nella spada in basso a destra l’elsa decorata con il becco d’aquila proprio come quella tenuta alla vita dal soldato in piedi all’estrema destra del Belisario. Nelle medesime lunette della decorazione del palazzo, come ad esempio in quella raffigurante il Trasporto dei buoi, si intravedono vestigia di monumenti antichi trasfigurati da una luce chiarissima.
La tela può essere apprezzata nel suo insieme leggendola con le caratteristiche sopra espresse, ma solo osservandola dal vero si colgono le qualità pregevoli della sua lavorazione, poiché la pasta pittorica si mescola e si addensa negli incarnati e nelle cromie dei tessuti dei soldati e del generale, si increspa nell’elsa di spada dorata sulla destra, si contrae e diventa un gorgo denso di ombre nei panneggi, diventa pura luce nello scintillio della corazza. Di colpo invece sulla sinistra si espande e schiarisce, diventa liquida e persino vicina al carattere del bozzetto, come ad esempio nel personaggio del vecchio completamente vestito di un giallo di Napoli, dal cappello buffo e rapidamente descritto, proprio come la sua barba e gli occhi accigliati, virgole di colore senza disegno. La donna sulla sinistra indica fuori dallo spazio teatrale, alludendo forse al luogo lontano, Costantinopoli, da cui proviene il nostro Belisario ormai cieco e povero, ma l’interpretazione che noi oggi potremmo leggere è allusiva al futuro incombente, ovvero l’evolversi della pittura che questa tela presagisce e finanche il suo destino che l’ha portata lontano dal luogo per cui era stata pensata. Una storia e un girovagare che fortunatamente abbiamo potuto parzialmente scoprire e riscrivere.
June 6, 2023