La collezione di dipinti di corte indiani di Howard Hodgkin
L’approccio di Howard Hodgkin al collezionismo non aveva a che fare con la storia dell’arte. Ciò che conta è l’emozione che l’opera suscita
A quanto si dice, Howard Hodgkin divorava i romanzi di Agatha Christie. Andava matto per agli elefanti. E quando si trattava di acquistare qualcosa che desiderava per la sua collezione privata, non gli si poteva dir di no. L’artista britannico, scomparso nel 2017, era convinto che gran parte delle motivazioni individuali che preludono a una collezione d’arte sono riconducibili a un unico sentimento, il desiderio. Ma una volta che si va oltre di esso, e la fisionomia della raccolta si delinea, i pezzi devono essere acquistati “per necessità, oltre che per passione”. Durante una conferenza che Howard Hodgkin ha tenuto nel 1992, così si è categoricamente espresso a questo riguardo: “una grande collezione può semplicemente sembrare il prodotto di un uomo molto ricco che va a fare shopping. Non è così. Collezionare è in realtà una malattia, un’incurabile ossessione”.
La raccolta di dipinti di corte indiani di Howard Hodgkin è stata acquisita nel 2022 Met Museum di New York. La mostra che è seguita, Indian Skies: The Howard Hodgkin Collection of Indian Court Painting, ha offerto una visione complessiva su un corpus che spazia tra opere Mughal, Deccan, Rajput e Pahari, databili tra il XVI e il XIX secolo. Nella raccolta c’è l’epica e ci sono le scene di corte; ritratti di maharaja e dervisci; studi botanici e zoologici; la caccia, i bagni, i matrimoni; e una stanza interamente dedicata agli elefanti, molti raffigurati con la stessa attitudine introspettiva riservata agli esseri umani. Del resto, sembra che l’artista amasse identificarsi con gli elefanti.
Attribuito al maestro Kota, “Elephants Fight” (circa 1655-60) è un disegno finemente eseguito con acquerello su carta. Si tratta di uno dei primi ritrovamenti di Howard Hodgkin. La sua migliore scoperta è invece stato “Rawat Gokul Das at the Singh Sagar” (1806), ossia la rappresentazione di una battuta di caccia intorno a un lago. Hodgkin trovava che fosse come aver appeso al muro un frammento del Subcontinente. Altro highlight della collezione è il capolavoro in stile persiano intitolato “Mihrdukht Aims her Arrow at the Ring” (circa 1570), tratto dal manoscritto Hamzanama, che raffigura le avventure del leggendario Amir Hamza.
Howard Hodgkin ha collezionato anche molte opere di piccole dimensioni, e non potrebbe essere altrimenti, considerato che le immagini venivano concepite in gran parte come illustrazioni di manoscritti sacri, o comunque per fascicoli che venivano passati di mano in mano. Tuttavia, Howard Hodgkin preferiva “recuperare” opere di più grande formato e, al contrario di molti collezionisti, non gli importava se queste fossero danneggiate, purché ne sopravvivesse il carattere originale. Gli piaceva anche incorniciare le opere e appenderle, A differenza di come questo genere di oggetti vengono solitamente esposti nei musei, ossia appoggiate su supporti orizzontali color crema, Hodgkin preferiva incorniciarle e averle appese ai muri di casa.
Mentre la mania di collezionare è probabilmente stata incoraggiata dall’eccentrica Florence, eclettica nonna irlandese dell’artista, a inziare Howard Hodgkin all’arte indiana è stato un suo professore di Eaton, ossia Wilfred Blunt – “un collezionista dilettante”, come Hodgkin lo descriveva, “piuttosto nella tradizione del mio bisnonno” (la passione per il collezionismo è un tratto caratteristico della famiglia Hodgkin). In quegli anni in Inghilterra era ancora possibile trovare illustrazioni indiane a prezzi ragionevoli. Per questa ragione, tra l’altro, si stabilisce a Londra un grande connaisseur come Stewart Cary Welch. A presentare Hodgkin e Welch, nel 1959, mentre erano a pranzo in un famoso ristorante polacco di South Kensington, ci ha pensato Robert Skelton, conservatore del Victoria & Albert Museum. “Il loro incontro ha l’effetto di ridestare in Howard tutto il suo istinto di cacciatore”, annotava Bruce Chatwin, che è stato uno dei migliori amici di Hodgkin [qui la nostra pagina dedicata a Utz, il fondamentale romanzo dedicato da Chatwin al collezionismo d’arte, pubblicato nel 1988. Ndr].
Uomo colto e cosmopolita, Howard Hodgkin, si dedicava all’acquisto di dipinti di corte indiani, ma mostrava scarso interesse per categorie o classificazioni convenzionali. Per sua stessa ammissione, il suo approccio poco aveva a che vedere con la storia dell’arte. Gli interessava piuttosto che le opere soddisfacessero una sua arbitraria idea di qualità artistica e che perciò provocassero in lui una certa reazione emotiva. Lo stesso vale per il resto della sua vasta, eclettica collezione – Hodgkin collezionava da onnivoro -, venduta all’asta nell’anno stesso della sua morte.
In quell’occasione Antony Peattie, compagno di Hodgkin per 40 anni, ha redatto un testo dove trapelano dettagli interessanti sulle abitudini dell’Hodgkin collezionista. Secondo quanto riportato da Peattie, l’artista “segnava i cataloghi con MH, must-have, quando voleva qualcosa a tutti i costi”. E se partecipava a un’asta di persona, “rimaneva per tutto il tempo con la matita alzata a significare che stava continuando a offrire”. Gli accadeva spesso di pagare “troppo” e spesso per pezzi che erano tutt’altro che capolavori. Tuttavia, Howard Hodgkin riteneva che con i capolavori non si possa convivere, perché sono troppo “esigenti”. Tendeva a nascondere, prestare o comunque rimuovere dal suo campo visivo le opere più importanti della collezione. “Comprava più volentieri le opere con cui era più facile convivere”. Aveva un debole per gli elefanti, le sedie e i frammenti; “tutto faceva brodo”, avrebbe detto; tutto era necessario a costruire l’opera della sua vita.
March 14, 2024