Louis Osmosis inscena una commedia sociale
Louis Osmosis contestualizza gli elementi in base a ciò che li circonda, in modo da rendere l’interpretazione potenzialmente infinita
Per Louis Osmosis (Brooklyn, 1986) La galleria come un labirinto. Al posto del filo di Arianna, dei montanti di nastro nero, gli stessi di aeroporti, ospedali e apparati governativi: la burocrazia, le scartoffie e anche l’arte, ci mettono in fila. “Nessuno ti conosce meglio di te stesso, per quanto sia estenuante essere sempre te stesso” dice delicatamente Louis Osmosis, che concepisce la seconda mostra da Kapp Kapp, galleria con doppia sede a New York e Philadelphia, come un’installazione multimediale all’interno di un percorso obbligato. Al di là del rimando mitologico, i montanti agiscono su più livelli metaforici: l’intrico mentale, il parco di divertimenti, il livellamento sociale, lo smarrirsi e il ritrovarsi. Vengono in mente Cady Noland e Lutz Bacher, Simon Denny e, soprattutto, l’opera Stanchions (Barriers) di Puppies Puppies (Jade Kuriki-Olivo) che nel 2017, presso T293 a Roma, ricreava in galleria il percorso aeroportuale prima dei controlli (qui il link al mio scritto su Puppies Puppies). Se per quest’ultimo prevaleva la dimensione autobiografica di disagio psicologico vissuto da un artista transessuale nel confronto con l’autorità, Queques suggerisce un circuito tanto spaziale quanto mentale nel quale sono intrappolati objets trouvés, storia dell’arte, TikTok e politica. “Questa è anche una strategia per coinvolgermi, con il ruolo di istrione”.
Lungo il percorso Louis Osmosis ha infatti posizionato le sue opere, tutte del 2024. Strizzano l’occhio agli esponenti del modernismo, come Brancusi ed Henry Moore, e alle icone della corrente concettuale. “Trovo interessanti gli espedienti usati dalla TSA (Transportation Security Administration) per comunicare alle persone in coda negli aeroporti l’elenco degli articoli illegali” dichiara l’artista. “Si tratta di vetrine contenenti oggetti confiscati o facsimile iperrealisti. Mi affascinano. Questi oggetti esistono solo per negare il loro possesso: il modo migliore per indicare un articolo non consentito è produrre un suo duplicato, che poi è una sorta di ready-made”. Osmosis sembra scortare l’improvvisato Teseo/spettatore in un dedalo di scoperta punteggiato da progressive epifanie: lungo l’arzigogolato itinerario infatti, incontriamo sculture protagoniste di una pastorale americana dotata di logica interiore, a doppio senso.
Perché Osmosis? “Ho scelto questo nome quando avevo dodici anni, per impedire alla mia famiglia di trovarmi su Facebook” spiega Louis, “Alton Brown lo cita poi anche in Iron Chef. L’ho interpretato come un segno del destino”. Ci sono legami con la definizione scientifica del termine estrapolata dall’Oxford Dictionary? “Sebbene in origine non abbia a che fare con il significato lessicale, al tempo stesso questo si attaglia al mio lavoro poiché da un lato tendo a concepire gli artisti come ricettacoli di cultura e dall’altro trovo evocativa l’immagine di un bambino in camicione che si cimenta con i primi esperimenti di laboratorio. Senza trascurare l’ilarità che un cognome scientifico può suscitare in un testo che tratta d’arte”. Quella inscenata da Louis Osmosis è una commedia sociale ritratta mediante il dispiegamento di forze di appropriazione, nel tentativo di dimostrare che, nell’America di oggi e non solo, la derivazione risulta più originale del modello di partenza. “L’ereditarietà familiare, concettuale o di altro tipo, è per me una nozione su cui riflettere in rapporto alla produzione” spiega; “se da un lato allude alla trasmissione, che si tratti di geni o di debito, dall’altro spiega le mie influenze. Tendo anche a pensare che la genesi artistica sia più generativa quando è concepita come accumulo”.
L’insieme – ludico e impenetrabile – ricorda le regressioni all’infanzia e i fallimenti del protagonista del film di Ari Aster Beau ha paura; ed è una commedia, a tratti divertente. Divertente in senso asteriano. Non dobbiamo cioè coglierne veramente l’ironia, ma siamo investiti da quella sensazione di straniamento che si prova leggendo Kafka o guardando i film di David Lynch. Big Mascot e i suoi pargoli sono una famiglia di spermatozoi tridimensionali, differenziati tra loro da bizzarri copricapi, simbolo di un passato che ci accomuna, ma anche speranza in un progresso travestito di grottesco. Chair with pipe rappresenta l’infanzia attraverso una sedia perforata verticalmente da un palo. Già dal titolo, il lavoro rende omaggio a Robert Gober non senza richiami al violento Bel Air Trilogy di Walter de Maria, Chevrolet tirate a lucido attraversate da cilindri d’acciaio. Nell’atto di “armare” gli oggetti del quotidiano, Louis Osmosis dimostra di aver assorbito la lezione di Eva Hesse e Mona Hatoum, scoprendo l’altra dimensione del domestico, il suo doppelganger.
Se Smoking’ Tiki allude agli scontri di Charlottesville del 2017 capitanati da suprematisti bianchi nella forma di uno scudo antisommossa, Content House, for New York e Content House, for Los Angeles mutuano dal linguaggio dell’arte povera e si presentano come diorami giocati sulla giustapposizione di materiali e oggetti di recupero. Alludono agli sforzi di creare contenuti social, compiuti sotto lo stesso tetto da un’ipotetica generazione di giovani imprenditori. Ma nelle falcate dell’abito da sposa che esplode da un armadietto, Osmosis scaglia una frecciata ai progressi e alle false illusioni di una tecnologia che piange i suoi trionfi, non diversamente da quanto faceva Pino Pascali negli anni Sessanta con l’incalzare del modernismo utilizzando paglia, raffia e corda. Incubator sembra citare il mito della caverna di Platone e il capitolo finale, criptico e voyeuristico, di Duchamp con Etant donnès, in una sorta di auto profezia che si auto rivela in un auto rappresentazione; la pianola, la radiolina e i palloncini di poliestere di Score, for Ellipsis & Roundtable invece, evocano il malinconico esito di una, nessuna e centomila feste nel giardino della tipica famigliola statunitense, perfetta e disfunzionale.
A proposito di questa scultura, Louis Osmosis cita William Pope.L e la sua mostra del 2013 presso la Renaissance Society di Chicago, Forlesen, costellata da palloncini sgonfi (qui il link alla nostra intervista con Pope.L, ndr). Anche Pope.L rifletteva sulla miope ossessione di chi vede solo la funzione degli oggetti trascurandone le proprietà latenti. “Il suo lavoro è un pilastro per me” spiega Louis; “la lettura di Holy Theory al college e poi di Canary in the goal mine hanno contribuito alla formulazione del mio metodo e fornito una base teorica. Pope.L era un maestro nel caricare di metafore la “cosa” (per esempio, applicare una miscela di composto per articolazioni e ketchup su una parete a forma di pene, in modo che si squamasse nel tempo) pur mantenendo un’ambivalenza nei suoi confronti. Sono anche attratto dalle sculture esposte nei centri commerciali, negli aeroporti, lungo i viali, ecc. che ricordano vagamente quelle moderniste del passato, rilette in forma di pastiche dall’industria meccanizzata. Le definisco sculture di NPC (non player-character) in quanto la loro proliferazione dipende dall’inerzia. Sono queste idiozie a stimolare il mio lavoro”.
Ogni elemento è contestualizzato da ciò che si trova accanto nell’ottica di un’allegoria in continua espansione, così da rendere l’interpretazione potenzialmente dell’opera potenzialmente infinita. Osmosis rivela il suo interesse per la tecnologia, la memoria, le strategie di allestimento, la trasmissione dell’informazione e il ready-made proponendosi come epigono, ma anche antesignano di chi verrà dopo di lui, in un circuito continuo. In merito al ruolo sempre più “ibrido” dell’artista, Osmosis afferma “è una sorta di momento di chiusura del cerchio, no? il ruolo e l’impiego degli artisti o, più precisamente, degli “operatori culturali” era nell’antichità al servizio della corte, della nazione, per costruire e legittimare un ideale culturale condiviso. Il mio cervello da hype-beast tende sempre a riflettere su Da Vinci e Kanye. Terry Eagleton compie un ottimo lavoro nel delineare l’attuale traiettoria del dibattito nel saggio Where does culture come from? E credo che questa poliedricità vada di pari passo con l’industrializzazione e l’egemonia delle tecnologie dell’informazione. Il mercato ormai precede la produzione artistica e non viceversa; le tendenze decidono cosa fanno le persone. Quindi l’ibridazione è un vero segno dei tempi”.
Ma se i sistemi di comunicazione impongono una trasmissione accelerata delle informazioni, Louis Osmosis, attraverso l’escamotage dei nastri tesi, non solo dimostra una diretta discendenza dagli artisti ambientali ma sembra suggerire anche la necessità di una pausa riflessiva, di una sospensione momentanea alla clessidra impazzita di una società iperconessa, distratta e sempre di fretta.
July 11, 2024