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Jos Amman von Ravensburg a Chiaravalle

Federico Cavalieri (da Nuovi Studi 27, 2022-2023 anno XXVII-XXVIII)*

Jos Amman von Ravensburg, una nuova presenza oltremontana nella pittura milanese dell’età sforzesca.

Un importante affresco quattrocentesco di cultura nordica, che mostra Cristo davanti a Pilato, è visibile nell’oratorio di San Bernardo presso l’abbazia di Chiaravalle Milanese ormai da dieci anni. Il dipinto ancora stenta a trovare un accettata collocazione e se non fosse su quel muro – che fa riaffiorare e cristallizzare le sostanze saline che lo impregnano, quasi a vendicarsi dell’asportazione delle vecchie scialbature – qualche voce sarebbe probabilmente giunta a negarne il collegamento con le vicende dell’antica pittura lombarda. Invece è lì, e viene da chiedersi che cosa ci faccia un simile esotico exploit nel piccolo oratorio voluto nel 1412 dall’abate Fontana per la cura spirituale di pochi massari: “una cappella di San Bernardo, dove le donne odono messa ogni mattina, e già nella definizione di “chiesa della donne si avverte l’inflessione dispregiativa. Né sarà una confraternita del Santissimo Sacramento, attestata solo nel 1571, a spiegare tale intrusione di gusto e di qualità. Da un altro oratorio nei dintorni di Milano un nuovo dipinto viene ad arricchire questa vicenda oltremontana, non fiamminga. 

Jos Amman von Ravensburg, Cristo davanti a Pilato, Chiaravalle Milanese, abbazia, oratorio di San Bernardo.

Si tratta di una tavola che misura circa 160 centimetri di altezza per 140 di base. Al centro vi è raffigurato il Cristo che mostra la ferita del costato affiancato da due piccoli angeli che reggono il manto rosso pendente alle sue spalle. Alla sua destra si trova Sant’Ambrogio, con pastorale e sferza, e alla sinistra Sant’Agostino che, oltre al pastorale, regge un cuore trafitto da frecce. Il primo ha un ricco e pesante manto di colore azzurro scuro, con bronzei bordure ingioiellate e veste bianca; il secondo indossa vesti e calzari rossi e un manto che parrebbe bruno, lavorato in oro. Le figure sono collocate davanti ad un interno spoglio e piuttosto profondo, suddiviso in tre campate uguali con voltine forse a crociera e con le pareti coperte per gran parte dell’altezza da un tendaggio rosso appeso ad un’intelaiatura tramite una maglia chi sembra metallica. Nel registro superiore, rette ed incorniciate da un’elaborata finta architettura, con nicchie elegantemente cuspidate e piccole statue (il tutto di color legno su fondo dorato) trovano posto ridotte finestrelle che ospitano gli evangelisti Luca (con veste in rosso chiaro), Giovanni (veste bruna), Dio Padre (con manto rosso, circondato da gialle figurette d’angeli), Spirito Santo, i santi Pietro (veste rosa e manto verde) e Paolo (veste rosso mattone). La tendina che fa da sfondo alle figurette è azzurro-verdastra. I nimbi e le fiamme che irradiano dalla colomba sono in oro. 

Alla metà del Settecento, e verosimilmente già da molto tempo, la tavola si trovava nella piccola chiesa di Sant’Ambrogio a Brugherio, poche miglia a nord-est di Milano: “altare pareti adheret ornatumque sacra lignea icone, opere sculptorio vetusto, incisa ac picta, in qua inserta est tabulaq per pictura exprimens imagine Salvatoris cum imagine a dexteris Sancti Ambrosii et a sinistri Sancti Augustini”. Ancor più precisa è una descrizione del 1794: “un solo altare con una tavola di buon pennello ma antico, sì che viene giudicata del secolo 14mo. Essa rappresenta un Cristo il piedi che si sostiene con una mano il ferito costato, ha alla destra Sant’Ambrogio con pastorale mitra e staffile, alla sinistra Sant’Agostino pure con pastorale, mitra ed un cuore frecciato in mano; nella parte superiore con ornati di pittura gotica viene formato un fregio diviso in sei caselle (…)” . Queste testimonianze non permettono di stabilire con certezza se il dipinto fosse effettivamente nato per l’altare su cui si trovava all’epoca, ma l’antica provenienza locale è molto probabile. Per forme e contenuto, quest’opera quattrocentesca e di evidente origine nordica appare piuttosto sorprendente nel panorama pittorico milanese. La raffigurazione varia sul tema della Schmerzensmann presentato come Giudice ultimo (l’attributo del manto) ed è probabilmente ispirata a un modello degli inizi del Quattrocento di Maister Francke, rispetto al quale si notano però alcune varianti: la mano sinistra del Cristo non mostra la ferita sul palmo, ma regge una croce astile e i due angeli che sorreggono il manto non portano gli attributi del giudizio (giglio e spada). 

Jos Amman von Ravensburg, Cristo di dolori fra Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, San Tommaso Didimo, San Giovanni evangelista, Dio Padre, colomba dello Spirito Santo, San Pietro, San Paolo, Museo diocesano (da Brugherio, Sant’Ambrogio), Bressanone.

La parte centrale della tavola esprime l’idea trinitaria, con un possibile rimando alle interpretazioni di Robert Campin. In tutta l’Italia settentrionale, dominata dall’iconografia tosco-padovana del Cristo in pietà sopra il sarcofago (o anche, verso la fine del secolo, affiancato dai simboli della Passione) non mi sembra che un simile modello flandro-tedesco abbia diffusione a questa altezza cronologica. Fra le non molte accezioni che conosco vanno almeno ricordate la Trinità di Torino di Antoine de Lonhy, che mostra qualche somiglianza nonostante sia più strettamente legata alla matrice campiniana, e la cosiddetta Pietà o Madonna addolorata del Museo Borgogna di Vercelli. Inconsueto è anche il cuore trafitto da frecce tenuto, come fragile ampolla, nella mano destra da Sant’Agostino: questo attributo tradizionale (Sagittaveras tu cor meum charitate tua) si ritrova in ambito italiano a date più avanzate, a volte nella variante fiammata. La scritta nel nimbo sulla tavola – di non facilissima lettura – pare comunque confermare l’identificazione, data per certa nei documenti settecenteschi. Interessante è pure il curioso aspetto della sferza di Sant’Ambrogio, munita di nodi che ne travisano il significato tradizionale per assimilarla forse a uno strumento della passione. 

Jos Amman von Ravensburg, Cristo di dolori fra Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, particolare di Dio Padre, Museo diocesano (da Brugherio, Sant’Ambrogio), Bressanone.

Del tutto straordinaria in area milanese – e non solo – è la fiammeggiante cornice finemente realizzata in trompe-l’oeil e decorata da gugliotti cuspidati, con piccole nicchie e statue, sottilissimi trafori, foglie e riccioli. La struttura architettonica e il gusto decorativo mescolano generiche suggestioni flandro-borgognone e tedesche. I termini di paragone, non numerosi, comprendono le tavolette dedicate alle Storie di Santo Stefano già Gualino, da Romano attribuite a Jean Bapteur, e il San Girolamo e i discepoli della National Gallery di Dublino (con un’analoga impostazione che accentua l’effetto di profonda scatola spaziale e una simile partizione interna). Cornici costruite su uno schema simile a questo sembrano peraltro avere fortuna in area piemontese verso lo scadere del Quattrocento: ne sono testimonianze il polittico della Novalesa, attribuito alla bottega di Lonhy, e la pala Tana del Battistero di Chieri (con ampi rimaneggiamenti, in parte antichi). Se si osserva comunque la decorazione nei suoi dettagli, non di può fare a meno di notare che i punti di riferimento più vicini sono costituiti dalle architetture dipinte nel Cristo davanti a Pilato di Chiaravalle e nell’Annunciazione di Giusto di Ravensburg in Santa Maria di Castello a Genova. Tipicamente germanici per gusto, con paralleli in una vasta area che copre almeno l’alto e il medio Reno, sono i nimbi: piatti, di ragguardevoli dimensioni preziosamente lavorati, mostrano al centro fiamme o raggi e intorno due fasce di intensa luminosità che racchiudono un’elaborata scritta gotica. Nimbi relativamente simili si ritrovano anche in Savoia: un esempio è nell’Adorazione dei Magi della Galleria Sabauda di Torino (n. 181), di un anonimo pittore sensibile alla lezione campiniana. 

Jos Amman von Ravensburg, Annunciazione, 1451, Santa Maria di Castello, chiostro, Genova.

Al di là di questi e altri particolari, che già indicano a larghe maglie una collocazione cronologica e geografica, va sottolineata l’eccentrica raffinatezza del dipinto, ancora apprezzabile nonostante il precario stato di conservazione della pellicola pittorica. Con un personalissimo equilibrio fra spinta attenzione calligrafica e sorprendente scioltezza di approccio, il suo autore ha costruito un’immagine di grande sobrietà sentimentale, rifuggendo l’ostentazione di piaghe, sangue, gesti e smorfie tipica di tanta pittura germanica, e anche dei vari epigoni jacqueriani [link al nostro approfondimento su Giacomo Jaquerio; Ndr]. Nel Cristo, i rivoli del sangue fuoriuscito dalle ferite, che piccoli tocchi di luce mostrano ancora fluido e caldo, sono di un realismo pungente ma mai volgare e non a caso trovano riscontri precisi nella Trinità di Torino del Lonhy. Non sempre, comunque, la mimesi materica è in cima alle preoccupazioni del pittore e lo dimostra la resa relativamente sommaria dei ricchi tessuti e dei gioielli sulle bordure. Ben altra è la sua tensione realistica quando si accinge a descrivere gli incarnati, di una verità di lume quasi sfacciata. Accarezzando le pareti di fondo e laterali, la stessa luce dà credibile profondità a un ambiente costruito su una sghemba prospettiva e denuncia la meditata ma autonoma assimilazione della lezione fiamminga. Una luce proveniente da una posizione relativamente rialzata, a sinistra, che danza in chiare pennellate sulle creste nervose dei panneggi, che segna ad uno ad uno gli anelli reggi-tendaggio, che scivola fluidamente sulle lunghe aste metalliche dei pastorali, che tornisce i volti con accentuati ma morbidi passaggi e che determina profondi contorni d’ombra proiettata sui nimbi. 

Jos Amman von Ravensburg, Annunciazione, 1451, Santa Maria di Castello, chiostro, Genova.

In un tessuto di pennellate veloci e sommarie la stessa luce riesce a creare con sorprendente sintesi l’asciutta epidermide del Cristo, il cui corpo vivo ma avvizzito, a malapena coperto dal perizoma, non riesce più a reggersi all’asta della croce e sta per franare a terra. Nonostante la sua forte fisicità, quel corpo è attorniato da sguardi un po’ distanti, testimoni di introverse meditazioni più che fisicamente partecipi delle sue sofferenze (anche qui si dimostra la suggestione fiamminga, soprattutto rogieriana). Ciò che la foto in bianco e nero lascia solo intuire è il vertiginoso effetto creato dall’infuocata trama dei rossi, dal più acceso vermiglio, al mattone fin quasi al morello, nel manto del Cristo, nella veste e nelle calzature di Sant’Agostino, nel grande tendaggio, nelle volte visibili sullo sfondo e ai lati, in almeno tre figurette del registro superiore. I legami fra questa tavola e il Cristo davanti a Pilato dell’oratorio di San Bernardo a Chiaravalle mi sembrano molto stretti e credo che entrambe le opere spettino al medesimo pittore. Si possono proporre molti confronti a partire dal volto del Cristo, quasi una variazione speculare dello stesso modello di Chiaravalle, identica morfologicamente (si accostino per esempio le morbide capigliature e le barbette lanose), nel sentimento e, nonostante la diversità di supporto e tecnica, nella resa per pennellate fitte e veloci, mai dissimulate. 

Anche il Sant’Ambrogio offre un’interpretazione solo lievemente meno caricata, ma vicinissima, del volto visibile subito sopra il Cristo a. Chiaravalle. L’assorta espressione del secondo santo da sinistra del registro superiore trova un riscontro puntuale nel profilo del servitore di Pilato. Molto simili sono anche alcuni dettagli minori, quali i volti degli angeli dai contorni più asciutti e marcati, e i nimbi. Il gusto per le architetture fiammeggianti e per le piccole sculture dipinte in elaborate nicchie è identico e somiglianze si trovano anche nei panneggi, pur scarsamente conservati a Chiaravalle. Alcuni colori, per esempio i rossi mattone e il verde chiaro, trovano riscontro nell’affresco. Entrambe le opere – e per almeno una non può esserci dubbio sul fatto che sia stata eseguita in Italia – mostrano peraltro ben scarsa attenzione per la contemporanea pittura italiana. Credo che le immagini siano sufficienti per giudicare se quanto propongo è fondato o meno. Mi preme però sottolineare ancora alcuni elementi. L’assoluta padronanza del disegno ostentata dall’autore dell’affresco di Chiaravalle, ben apprezzabile anche alla luce della particolare tecnica esecutiva (definita in sede di restauro quasi un’acquarellare a fresco), è la stessa che gli consente di tracciare interamente a mano libera l’ornatissimo, arcigotico intreccio della finta cornice sulla tavola. Si tratta peraltro di una maestria di cui l’autore valorizza con piena coscienza l’autonoma valenza espressiva. Anche la tavolozza relativamente limitata è un elemento comune ai due dipinti. Assolutamente coincidenti sono inoltre i toni della narrazione, privi di accenti davvero grotteschi: la dignità da dramma sacro delle Fiandre metropolitane è sempre preservata, rivista però alla luce di una curiosità che oscilla fra nostalgie aristocratiche e introversioni popolareggianti. Per molti versi, un contraltare in lingua germanica dell’umanità del Lonhy. 

La vicenda critica dell’affresco di Chiaravalle offre vari appigli per affrontare il problema attributivo di queste opere. Dopo due interventi sulla stampa quotidiana di Forti Grazzini e Bertelli miranti ad allontanare il dipinto dagli ultimi anni del Quattrocento e dal nome di Bosch, Meijer ha attirato l’attenzione verso l’area basso-renana proponendo una datazione verso il 1460 circa. La Castelfranchi ha quindi aperto una pista savoiarda leggendo l’opera alla luce della tarda cultura jacqueriana, delle miniature di Perronet Lamy, della pittura witziana – con qualche confusione fra Konrad e Hans – e proponendo una datazione al quinto decennio del Quattrocento. Romano, infine, ha fatto il nome di Hans Witz, recuperando la notizia di un soggiorno milanese del pittore savoiardo nel 1478. Per quanto diverse, le tre ipotesi non sono in stridente contrasto. La proposta di Romano, l’unica a collegarsi seppur ipoteticamente a dati storico-documentari, si appoggia alla ricostruzione dell’identità di Hans Witz proposta da Sterling nel 1986: questa ruota intorno a tre opere – la Pietà (senza donatore) Frick, la Sacra famiglia e sante in una chiesa di Capodimonte e il Calvario con donatore di Berlino – nessuna delle quali può essere di molto posteriore al 1450. Fra questi dipinti, l’affresco di Chiaravalle e (in misura minore) il Cristo che mostra la ferita del costato di Brugherio varie affinità, in effetti, ci sono. Molti degli astanti nel Cristo davanti a Pilato hanno tipologie facciali witziane, anche se le somiglianze sono limitate ai personaggi di secondo piano. 

La tavola napoletana mostra figure in primo piano, davanti ad un interno costruito con sciolta sicurezza, incurante di scorci precisi e di linee rette parallele, e indagato da marcati effetti di luce abbastanza simili a quelli della tavola già a Brugherio; nella quale, peraltro, si osserva anche un insistito realismo anatomico di probabile matrice campiniana non lontano da quello che permea la Pietà Frick. E ancora: il contrasto fra il panneggio che si squaderna al suolo del Sant’Ambrogio e quello che cade a piombo del Sant’Agostino dà un’interpretazione più molle del medesimo effetto nel Calvario di Berlino. Il netto, quasi grossolano segno di contorno che stacca la fronte dalla mitra dello stesso Sant’Ambrogio compare nella Santa Caterina di Capodimonte, la cui capigliatura è resa da una sorta di griglia non dissimile da quelle delle due mitre vescovili nella tavola già a Brugherio. Le stesse statuette nervose, rapidamente abbozzate ma fortemente espressive, si trovano a Napoli, a Chiaravalle e in questa tavola. Ciò detto, e ricordando che la ricostruzione di Sterling è pur sempre ipotetica, resta la sensazione che l’elemento storico giochi un ruolo non trascurabile in quest’ipotesi. 

Miniatore lombardo del settimo decennio del sec. XV, Galeazzo Maria Sforza con la sua corte riceve la dedica del manoscritto da parte di Gerolamo Mangiaria, ms. Lat. 4586, Gerolamo Mangiaria, Opusculum super declarationem arboris consanguinitatis et affinitatisivis principibus, c. 1r, particolare, Bibliothèque Nationale, Parigi.

Oltre l’evidenza di una composita cultura renano-alpina, che rende comunque praticabile l’ipotesi Witz, c’è infatti da chiedersi se i venti-venticinque anni che separerebbero le tavole a lui riferite dal suo soggiorno milanese bastino a spiegare le diversità: se, cioè, l’evoluzione delineata da Sterling per un Hans che si svincola dalla stretta osservanza konradiana possa approdare alla parete di Chiaravalle e all’altare di Brugherio. Le differenze sono importanti: poco si ritrova nelle due opere milanesi delle spigolosità di nasi e zigomi, delle mani appena abbozzate, dei piegoni forti e appiattiti dei panneggi; ben poco anche del fare scultoreo, della spazialità di matrice eyckiana (ancorché travisata rispetto all’interpretazione fornitane da Konrad) entro la quale si scavano un posto, gonfiandosi enfaticamente, le vesti sovrabbondanti. Si può trattare della stessa mano a distanza di due decenni? La riduzione degli elementi imitativi sui quali si era basata in non piccola misura l’attribuzione delle tre tavole allo stesso Konrad (ripetutamente proposta dagli studi) mi sembra tale da suggerire una risposta negativa. L’evoluzione della corrente witziana è peraltro testimoniata ancora nel 1458 dalla scabra e pungente Tomba di Vhilibert de Monthouz in Saint-Maurice ad Annecy, secondo un percorso che solo con qualche sforzo si potrebbe far approdare, vent’anni dopo, a Chiaravalle e a Brugherio. In più, va detto che l’identità storica del Witz che soggiornò a Milano nel 1478 è tutt’altro che chiara: è infatti molto probabile che siano esistiti almeno due pittori con questo nome. A conferma di questa impressione – e per riportare la discussione in un ambito che in questo caso crea meno incertezze di quello documentario – ripropongo l’affresco genovese di Santa Maria di Castello, dove già nel 1451 Giusto di Ravensburg si mostra in alcuni brani parente strettissimo del pittore di Brugherio e Chiaravalle. All’inquadramento architettonico ho già accennato, ma va ribadito che il gusto decorativo e i dettagli – capitelli, statuette, pinnacoli, fogliami che si arricciolano – sono assolutamente identici (e andrebbe aggiunta la presenza, a Chiaravalle come in una zona secondaria nel convento genovese, di un curioso partito a merli sopra oculi tondi, già notati dalla Castelfranchi).

Jos Amman von Ravensburg, Cristo di dolori fra Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, particolare di Sant’Ambrogio, Museo diocesano (da Brugherio, Sant’Ambrogio), Bressanone.

Le affinità non si esauriscono qui: si possono accostare le due severe ed introverse figure di Dio Padre circondate da cherubini di Genova e Brugherio o rilevare le affinità fra il Sant’Ambrogio e l’Angelo annunziante, minuziosamente descritti, il viso segnato da un’espressione aristocratica e al tempo stesso un po’ vacua. Si possono rilevare accenti comuni in alcuni brani dei panneggi, molli ma nervosi e crestati di luce, che ben poco hanno di fiammingo in senso stretto. Simili sembrano anche le mani prensili, atteggiate con qualche leziosità, e analoga, almeno concettualmente, è l’elaborata incorniciatura che con effetto astraente separa lo spazio della rappresentazione pittorica da quello reale. Per l’opera di Chiaravalle nessuno studioso ha fin qui preso in seria considerazione, come termine di paragone, l’affresco genovese con il suo sicuro autore (con la sola eccezione della Castelfranchi, che si limita peraltro ad osservare l’identità di gusto decorativo); un nesso con Giusto comunque c’è e appare senza dubbio rafforzato dalla tavola di Brugherio. Restano da rilevare anche le diversità, a cominciare dal registro cromatico che a Genova è più tenue e di gusto più gotico-internazionale. 

Jos Amman von Ravensburg, Annunciazione, 1451, Santa Maria di Castello, chiostro, Genova.
Jos Amman von Ravensburg, Annunciazione, 1451, Santa Maria di Castello, chiostro, Genova.
Jos Amman von Ravensburg, Annunciazione (particolare del profeta David), 1451, Santa Maria di Castello, chiostro, Genova.
Jos Amman von Ravensburg, Annunciazione (particolare del profeta Isaia), 1451, Santa Maria di Castello, chiostro, Genova.

Nel chiostro di Santa Maria di Castello, inoltre, l’eccentrico naturalismo e il realismo anatomico a tratti ossessivo si manifestano in misura più contenuta, né si notano – mi pare – la scioltezza di mano e la forza espressiva del disegno visibili a Chiaravalle. Tutto l’affresco genovese mi sembra più studiato, pacato frutto di una matura tradizione tardo-gotica che cede, con arrendevolezza ma senza sconvolgimenti, alle suggestioni più alla moda dell’ars nova delle Fiandre metropolitane. Gli espliciti omaggi eyckiano-provenzali di Giusto non mi sembrano infatti trovare inequivocabili riscontri nelle due opere milanesi, il cui autore aggiorna la propria matrice tardo-gotica e internazionale anche con l’uso quasi espressionistico di una forte vena di realismo sud-tedesco. Mi rendo conto che potrei sbagliare e che la mano potrebbe in realtà essere la stessa. Per giustificare le differenze che mi hanno trattenuto dal colpo di teatro attributivo – tentazione non da poco – occorrerebbe però in primo luogo postulare un sensibile scarto cronologico (dieci anni? quindici?). Il terreno è scivoloso: l’ultima notizia di cui disponiamo oggi su Giusto di Ravensburg è del 1452, quando il pittore è documentato nella città natale per trattare affari di famiglia. In secondo luogo, occorrerebbe anche postulare una sensibile evoluzione del suo stile. Ostacoli non insormontabili, è vero, ma che esistono. Ridotto alla sostanza, il problema è che l’affresco di Chiaravalle è ancora troppo isolato e non dichiara in modo inequivocabile la propria data di esecuzione. Lo testimonia anche la ridda di ipotesi fin qui espresse dagli studiosi: dal 1440 al 1506 circa. La tavola già a Brugherio – sempre che si accetti l’identità di mano – porta nuovi argomenti in favore di una data non troppo vicina allo scadere del Quattrocento ma non risolve tutti i problemi. D’altra parte, anche un maestro come Charles Sterling aveva spostato la Trinità di Torino di ben trent’anni avanti rispetto alle più attendibili ipotesi attuali, e questo la dice lunga sulle incertezze dei territori poco dissodati. Spingersi oltre nell’immaginare come potesse dipingere Giusto di Ravensburg in un momento in cui non sappiamo neppure se fosse vivo o ricostruire lo stile del 1478 circa dello sfuggente Hans Witz, sorta di Zanetto Bugatto al contrario, mi sembrano entrambi esercizi un po’ avventati. Non sterili, però. Per parte mia, preferisco mantenere in sospeso il giudizio: queste opere risalgono al terzo quarto del Quattrocento e spettano a un ‘Maestro tedesco di Chiaravalle’. Un pittore originario probabilmente della regione di Costanza, affine a Giusto di Ravensburg, forse suo allievo, sensibile a suggestioni witziane, attivo anche negli stati sabaudi dopo la metà del secolo (del formulare più domande che risposte, d’altra parte, mi piace rivendicare il valore caratteriale, oltre che la validità metodologica). L’autore dell’affresco e della tavola già a Brugherio merita senza dubbio uno spazio nelle vicende artistiche del secondo Quattrocento: sul fronte italiano può infatti giocare un ruolo nel rimescolare le carte intorno all’accreditata tesi che vede in Genova e nella Liguria, dopo la metà del secolo, l’unica fonte di aggiornamenti settentrionali per i pittori milanesi.

Manifattura fiamminga (Bruxelles?), Storie della Passione, 1467, arazzo, antependium, Museo dell’Opera del Duomo, Milano.

Il titolo originale del saggio è: “Una nuova presenza oltremontana nella pittura milanese di età sforzesca”.

December 2, 2024