Francesco Joao e l’umidità (un’intervista)
Una mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano fa il punto sull’arte brasiliana emergente. Tra gli artisti invitati c’è Francesco Joao Scavarda, che siamo andati a trovare mentre preparava le tele che vedremo in mostra.
Il passato è esperienza, il futuro è speranza. Il presente? Praticamente il brivido dell’imprevisto. Questo per sommi capi il pensiero di Francesco Joao, come emerge dall’enigmatico verso di una cartella stampa di una sua recente mostra in galleria, e si scopre che più che mai il suo lavoro è radicato nel tempo presente mentre recupera antiche tecniche della pittura. Eppure non si potrebbe dire un entusiasta del pennello, che accomoda per parlare di arte attraverso i suoi archetipi. Ora l’opera dell’artista, classe 1987, trova la sua esposizione museale in Italia al Padiglione di Arte Moderna e Contemporanea (Pac) di Milano nell’ambito della mostra Brasile. Il coltello nella carne. Di passaporto italiano e brasiliano, Scavarda ha vissuto tra un paese e l’altro e oggi si è stabilito a San Paolo, ma mantiene uno studio nella casa di famiglia sul Lago Maggiore, una storica dimora di campagna tinteggiata di rosa, ormai slavato, che si colloca sotto la Rocca di Angera. È qui che abita il suo cane dalla testa fulva Toby Dammit e dove incontriamo l’artista un pomeriggio in cui impegnata sul campo di calcio dei mondiali c’è proprio la squadra brasiliana.
Si sente il brusio dello stadio proveniente dalla tv, quando si dice lupus in fabula, eh?
Francesco Joao: Tra l’altro io amo il calcio, ma il mio tifo per la nazionale è proporzionale alla percentuale di calciatori del Milan presenti nella nazionale. Ce n’erano molti tra gli Azzurri quando nel ’94 l’Italia perse la finale, proprio contro il Brasile. Baggio sbagliò il rigore che decise il risultato finale. Mi trovavo in Brasile quella notte, per cui avevo una nazione in festa intorno a me, mentre piangevo da solo nella mia cameretta.
Fai mai sogni premonitori?
Francesco Joao: Una volta ho sognato Richard Prince che mi rassicurava e diceva che stavo facendo la cosa giusta.
Incubi?
Francesco Joao: Un incubo a occhi aperti è la vita senza connessione. Di recente sono stato invitato per l’ennesima volta nella fazenda del mio gallerista. Bene, non solo internet è completamente assente ma il telefono non prende. Ho perso il sonno.
E dire che c’è chi paga per rifugiarsi in relais che promettono la “disconnessione digitale”.
Francesco Joao: Per me è una questione di info-sfera: la disconnessione equivale alla sensazione di rimanere con le mani in tasca. Mi sento disabilitato.
Passiamo alla tua routine lavorativa.
Francesco Joao: Non amo dipingere e passo davanti alla tela meno tempo possibile, anche perché tutto il lavoro viene prima strutturato al computer. Per la verità non c’è una routine quotidiana o se così possiamo dire inizia a letto. Quando mi sveglio allungo la mano verso il computer e fino a mezzogiorno mi dedico alla ricerca.
Cosa cerchi?
Francesco Joao: Immagini. Nelle tele per la mostra Brasile al Pac, parto da una collezione di fotografie pre-esistenti: tra queste c’è uno scatto del deserto del Nevada e uno di un sito archeologico in Galles. Ma poco importa. Quel che m’interessa è che si tratta di raffigurazioni ancestrali. Sono tutti paesaggi rocciosi, un rimando immediato all’idea di sublime del periodo iconico del romanticismo. Ce ne sono alcune che raccontano una storia più complessa, come quella del monolite risalente all’età del bronzo vandalizzato con uno “smile”: un gesto che rafforza l’idea di memoria.
E dopo aver raccolto immagini dalla pancia del web cosa accade?
Francesco Joao: Le porto su photoshop e le filtro aumentando il contrasto, per ottenere silhouette decise. L’ultima fase è quella effettiva di produzione, cioè la pittura su tela cruda: dopo aver steso una base monocroma – la palette è sporca e ha il sapore d’inchiostro – la trasmigrazione delle immagini dal digitale all’analogico avviene per mezzo di un proiettore.
Un proiettore? Quale feticcio di paleo-tecnologia!
Francesco Joao: È una situazione liminare, effettivamente. Le mie tele, pur realizzate con pennelli e metodi iper-tradizionali, come il gouache ricordano i silk screen printing o rudimentali “plotteraggi pixelosi”. Il paradosso è che sono prodotti a mano con pazienza certosina a piccoli tocchi di pennello, pixel dopo pixel. Le sessioni di lavoro possono essere abbastanza estenuanti, ma questo tipo di pittura non ti permette di staccare: la tela deve essere portata a termine prima che il colore asciughi.
E nonostante ciò qualche purista del bel disegno, se ancora ne esistono, potrebbe trasalire.
Francesco Joao: Del virtuosismo tecnico proprio non m’importa, anzi lo avverso. Mi approprio qui di grandi cliché romantici, in termini di immaginario, e pop, nell’evocazione della tecnica della serigrafia, per riflettere sulla produzione artistica in quanto tale. Come dicevo, non amo dipingere e mi costa fatica, ma m’interessa la pittura quale archetipo dell’opera d’arte. Inoltre ha un’immediatezza che permette al lavoro stesso di esistere, indipendentemente dal luogo, da come e perché. E allo stesso modo ti permette di speculare sui massimi sistemi per ore oppure semplicemente guardalo dire: “Ah starebbe bene con il divano di casa mia”.
Dimmi del divano.
Francesco Joao: Non ho nessun imbarazzo nel pensare all’opera d’arte come a una commodity. E se mi chiedi se le opere per me sono immagini o messaggi, ecco, innanzitutto sono oggetti. Questa tensione tra commodity e oggetto contemplativo è in definitiva l’aspetto che m’interessa di più.
Vuoi farci un esempio?
Francesco Joao: Ricorrerò al caso del mio capolavoro preferito al mondo: la cappella degli Scrovegni a Padova. Poiché una volta essere banchieri, ovvero usurai, significava aver dannata l’anima, Enrico Scrovegni, per salvare suo padre Rinaldo dall’inferno si rivolse al papa chiedendo come avrebbe potuto fare. “Stai tranquillo e segui il mio consiglio” lo rassicurò il papa. “Dona alla città di Padova l’opera più bella”. Fu allora che Scrovegni jr. commissionò al più affermato (e costoso) dei pittori dell’epoca il famoso affresco. Morale della storia? La città di Padova ci ha guadagnato la sua nuova Via crucis, papà Scrovegni è andato in paradiso e anche il papa era contento. Infine, ora l’umanità intera ne gode.
Stai dicendo che non sono le ragioni che permettono la creazione dell’opera d’arte a determinare ciò che quest’opera è e sarà?
Francesco Joao: L’aspetto spirituale intrinseco prescinde dalla storia dell’opera che si mescola a questioni economiche.
Se quella è la tua opera preferita, il tuo artista preferito è Giotto?
Francesco Joao: Assolutamente sì. Seguito a stretto giro da Stanley Kubrick, e poi da Ed Ruscha, Robert Longo, Olivier Mosset, Paul Sietsema.
Anche tu, hai lavorato in profondità sulla superficie delle cose per liberarti dagli elementi soggettivi e personali?
Francesco Joao: È stato il frutto di una crescita disciplinata, ma non ho mai avuto la presunzione di pensare che a qualcuno potessero interessare eventuali miei demoni.
Ti piace pensare che il tuo sia un contributo a un discorso più ampio?
Francesco Joao: Sicuramente è così. Anche Robert Longo lavora su immagini pre-esistenti. E piace sia ai cafoni, ai puristi del bel disegno, sia ai più sofisticati, per me lui è innanzitutto un intellettuale raffinato del nostro tempo e un critico della cultura di massa. In pochi ricordano che Longo è anche regista. I film o i video (ha girato ad esempio quelli per i New Order) sono forse la chiave di lettura migliore per accedere alla sua poetica. Suo è Johnny Mnemonic, tra l’altro, uno dei miei capisaldi.
In che modo Johnny Mnemonic ti riguarda?
Francesco Joao: Avevo dipinto una serie di tele che si riferivano a quel film, ma in senso indiretto, cyberpunk, anarchico – e infatti esteticamente non c’entravano nulla. Una di queste, un dipinto gouache molto piccolo, è stato scelto poi per una collettiva da Mendes Wood DM a Bruxelles lo scorso anno. Era già riservato quando entrò un collezionista che lo voleva a tutti i costi e alla fine riuscì a spuntarla. Solo in seguito scoprii che questo collezionista era niente meno che il produttore del film, Johnny Mnemonic. Non ho mai saputo se ci avesse scovato un’affinità, ma per me questa è come la storia di un figlio ritrovato e sono contento che quell’opera ce l’abbia lui.
Tu collezioni?
Francesco Joao: Soprattutto opere che vanno in questa direzione. Cioè non solo che “potevo fare anch’io”, ma che avrebbe potuto fare il primo uomo incontrato per strada.
Definiresti il tuo lavoro onesto?
Francesco Joao: Preferisco la parola sincero.
Classico o moderno?
Francesco Joao: Per me tutto si appiattisce nel momento della percezione e non sopporto la nobilitazione del vecchio a dispetto del nuovo, che si porta dietro mostri come il rifiuto di parlare di economia e l’esaltazione dell’artista romantico.
Cos’ha che non va l’artista romantico?
Francesco Joao: Penso che l’arte debba essere un atto di responsabilità e tenerla rinchiusa in studio, come da mitologia dell’arte romantica, è irresponsabile.
Volevi fare l’artista fin da bambino?
Francesco Joao: Sì. O in alternativa il pilota di Formula uno.
Qual è il ricordo d’infanzia che hai più vivido?
Francesco Joao: Quando andavo con mio nonno sul Rio delle Amazzoni la notte a caccia di coccodrilli.
E l’Italia della tua infanzia è Milano o Angera?
Francesco Joao: Questa casa di Angera, dove ora ho ricavato lo studio. Penso sia per via del contatto con la natura.
Decisamente, in entrambi i luoghi, c’è dell’umido.
Francesco Joao: È un concetto con cui posso convivere, anzi mi appartiene.
January 25, 2022