E se l’Art Nouveau rifiorisse in Cina? Un’intervista con Robert Zehil
Robert Zehil ha aperto la sua prima galleria nel 1982, a Los Angeles, quando l’Art Nouveau era voga e i ricchi di tutto il mondo arredavano le proprie case con lampade Tiffany, vasi Gallè e mobili Majorelle. A 37 anni di distanza abbiamo incontrato Zehil a MIlano, per provare a immaginarne il futuro della sua eccezionale carriera.
- Robert Zehil, 2018.
- Detail from Robert Zehil Gallery’s booth at Design Miami/Basel 2018.
Robert Zehil è nato in Libano ed è emigrato in Inghilterra quando aveva vent’anni. Ne aveva 37, invece, quando ha aperto la sua prima galleria d’arte, a Los Angeles, in società con Victor Arwas, a quel tempo già gallerista ed esperto di Art Nouveau di fama internazionale. Era il 1982. Oggi Zehil ha una galleria nel Principato di Monaco e una collezione di Art Nouveau di oltre 2500 pezzi, la più importante al mondo in mani private. ‘Parlare di Art Nouveau vuol dire parlare di un intero universo’ ci ha detto qualche tempo fa a Milano, quando l’abbiamo incontrato. ‘Letteratura, simbolismo, teatro, tessuti… Art Nouveau vuol dire amore per la natura, per la donna, per il sogno. È qualcosa capace di proiettarti in un’altra dimensione’. La riscoperta dell’Art Nouveau è stato inizialmente un fenomeno europeo. Gianni Agnelli, per esempio, è stato un grande collezionista, e come lui Pierre Cardin, Karl Lagerfeld, i Beatles, o Elton John, il quale, per altro, è stato un affezionato cliente del signor Zehil. Poi il revival si è spostato negli Stati Uniti, a New York, dove tra i collezionisti più in vista c’era una come Barbara Streisand. Da lì il fenomeno si è spostato in Giappone, seguendo l’onda del boom economico. I giapponesi sono stati forti compratori di vetri, ma non di ceramiche, perché consideravano migliori le loro. E nemmeno compravano mobili, troppo grandi per le loro case. A un certo punto però lì è arrivata la crisi finanziaria, nel 1991, e anche il mercato dell’Art Nouveau è crollato. ‘Prima c’erano gallerie ovunque ti giravi’ ricorda Zehil. ‘Poi da un giorno all’altro sono sparite tutte, perfino a Parigi’. Oggi le gallerie di riferimento sono due. Una è quella di Zehil, nel Principato di Monaco. L’altra è Macklowe Gallery di New York, che tratta soprattutto lampade Tiffany e gioielli. Tuttavia, piuttosto che come inequivocabile segno del tempo, o di un deciso cambio del gusto, preferiamo leggere questo fenomeno come un’opportunità piuttosto rara, sopratutto se la si guarda in prospettiva storica. Anche perché la Cina per ora non sa molto di questo ricchissimo tesoro culturale di cui, secondo Zehil, è stata in qualche modo ispiratrice.
Come ha iniziato a collezionare Art Nouveau?
È capitato per caso. Le antichità non mi interessavano. I miei genitori erano collezionisti timidi. Forse è esagerato chiamarli collezionisti. Quando viaggiavano compravano oggetti da mettersi in casa, e questo era tutto. Di certo non avevo alcun interesse nelle opere d’arte quando ho iniziato la mia prima attività imprenditoriale.
Che lavoro faceva?
A ventun anni esportavo tessuti e abiti da Londra in Medio Oriente, da dove provengo. Conosco l’arabo, non ci è voluto molto per avere successo. Dopo pochi anni la mia azienda aveva già una sede a Milano e un ufficio a Parigi. Ero molto impegnato e non avevo certo tempo per occuparmi d’arte. Nel 1975 è scoppiata la guerra civile in Libano. Portai la mia famiglia fuori dal paese. Mia madre, mio padre, e le mie due sorelle. Mio padre venne a lavorare per me, perché non poteva accettare che suo figlio gli passasse soldi per vivere.
Quindi, come ha incontrato l’arte?
Mio madre al contrario di mio padre non lavorava per me. Un giorno stava passeggiando per Londra e capitò da Sotheby’s in Bond Street. Quando tornò a casa mi disse: ‘vieni come me, andiamo a fare un giro da Sotheby’s. Stai guadagnando molto, ma vedi dove vivi? La tua casa è terribile. Non hai mobili, né quadri. Hai carta da parati economica alle pareti. Lì per lì le risposi di lasciami in pace perché ero occupato, ma qualche tempo dopo andai con lei da Sotheby’s. C’era un asta di pittura. I quadri in offerta erano stati messi sui cavalletti, e splendevano sotto le luci. Comprai il catalogo e presi posto in sala. Tutte le volte che mia madre esprimeva gradimento per un dipinto io alzavo la mano. Conservo ancora la prima opera che ho comprato. Anni dopo quell’asta l’ho regalata a lei, che l’ ha tenuta nel suo appartamento fino allo scorso dicembre, quando è morta. Allora ho ripreso l’opera. È stata l’unica cosa che ho tenuto per me del suo appartamento.
Ma non è questo ad aver fatto di lei un mercante, non è così?
No, infatti. Qualche anno dopo, era il 1979, comprai un appartamento di cinque stanze a Londra. Avevo bisogno di arredarlo ma non sapevo da dove partire. Ricordo che ero a Parigi, e stavo visitando il Louvre des Antiquaires, che aveva appena aperto – ora è chiuso, e questo basta a dare l’idea di dove il mercato sia finito quarant’anni dopo. Entrai in un piccolo negozio dove avevo visto qualcosa che mi piaceva. La proprietaria mi chiese da dove venivo. Gli dissi che abitavo a Londra. ‘Sa che il pezzo che le piace è pubblicato in un libro di Vixtor Arwas?’. ‘No – risposi -, ma la ringrazio di avermelo fatto notare’.
Quindi?
Una volta tornato a Londra pensai che volevo conoscere quell’ uomo, e decisi di andare a fargli visita. Aveva una galleria dalle parti di Bond Street. Era un uomo imponente, egiziano di origine. Diventammo amici. Arwas era uno specialista di Art Nouveau e Art Deco. Aveva scritto molti libri a questo riguardo. Io avevo ancora la mia azienda, guadagnavo molto, e inizia a comprare opere, in galleria e in asta. Ero scapolo, e sempre più interessato alla materia. Un giorno andai da Arwas e gli dissi: ‘Voglio cambiare mestiere. Voglio diventare un mercante d’arte. Ci mettiamo in società?’. Mi rispose che per lui si poteva fare, se volevo. ‘Quando iniziamo?’ gli chiesi. ‘Prima dobbiamo trovare una posizione migliore’. ‘Ma sei già vicino a Bond Street’ risposi. ‘Ci vuole qualcosa di meglio. Dobbiamo essere più vicini a Sotheby’s e Christie’s’.
Avete trovato un nuovo negozio?
Uscii dalla sua galleria, girai a destra, e mi trovai su Bond Street. Mi fermai, con Sotheby’s alle mie spalle, e appresi da un cartello appeso alla porta d’ingresso che il negozio davanti a me cercava un affittuario. Tornai di corsa da Arwas e gli dissi ‘Ho trovato il posto, andiamo!’. Si trattava di una vecchia farmacia, che conservava ancora gli arredi originali. Ma sfortunatamente il proprietario ci disse di essere già in parola con Ralph Lauren, che il giorno dopo confermò la sua intenzione di prenderlo in affitto. Il negozio dello stilista è ancora là, quasi quarant’anni dopo.
Avete trovato altro?
No, ed ero molto contrariato. Pensai di lasciar perdere. Ma Arwas se ne venne fuori con una nuova idea. ‘Perché non apriamo in un’altra città? Possiamo andare dove ci pare, tranne che a New York. Ho degli amici là, e non voglio interferire nei loro affari’. Propose di andare a Los Angeles, disse che il mercato era molto buono laggiù. Così andai a Los Angeles e trovai un negozio in Rodeo Drive, a Beverly Hills. Telefonai ad Arwas e gli dissi di raggiungermi. Per il negozio firmai un leasing decennale. Sapevo che a un certo punto avrei voluto tornare in Europa.
Avete avuto successo?
I primi due anni sono stati molto difficili. Non avevo esperienza, chiamavo Arwas ogni giorno. Ho imparato molto, ripetevo come un pappagallo le sue idee. Ma avevamo un accordo. Per i primi sei mesi spettava a me pagare i conti della galleria. Dopo un anno e mezzo andai da lui e dissi: ‘Victor, qui le cose stanno diventando costose, e non stiamo guadagnando nulla’. Sciogliemmo la società, pur rimanendo buoni amici. E lo siamo stati fino alla sua morte. Ma non volevo rinunciare alla galleria, e così mantenni la posizione.
Aveva ancora la sua azienda a Londra?
No. A quel tempo avevo già lasciato le chiavi ai dipendenti. Il mio socio in Italia tenne la sede di Milano, mentre mio fratello si prese l’ufficio di Parigi. La galleria era la mia unica fonte di guadagno. Il gioco si era fatto pericoloso. Ma non mi diedi per vinto.
Come ne è venuto a capo?
Il mercato giapponese aveva iniziato a tirare. Ho avuto la fortuna di incontrare il principale mercante del paese, la galleria Belle des Belles. Sono stato nella posizione di comprare intere collezioni, per il mercato giapponese. Lavoravo sia con i collezionisti privati che con clienti istituzionali. Prima di allora nessuno aveva fatto una cosa del genere nel settore dell’Art Nouveau.
Quali crede siano state le sue doti principali?
Ero un buon giocatore, e sapevo calcolare i rischi.
Cosa intende dire?
Prima di aprire a Monte Carlo, per esempio, ho visitato Daum per proporre loro di scrivere un libro sull’azienda. Hanno accettato e mi hanno permesso di accedere al loro archivio. Così mi sono dotato di una macchina fotografica, per i pezzi, e di una fotocopiatrice, per i documenti. Avevano un magazzino pieno di materiale, ed io potevo studiarlo. Un giorno mi capitò di pranzare con il proprietario e a un certo punto decisi di provare: ‘Posso farle una domanda?’ dissi. ‘Se intende comprare qualche pezzo non siamo interessati. Ma se intende acquisire l’intero archivio o una consistente parte di questo allora possiamo discuterne’. Era esattamente quello che volevo sentirmi dire. Il corpus era già stato valutato da un esperto. ‘Se la sua offerta sarà pari o superiore alla valutazione che abbiamo l’archivio è suo’. Quella volta comprai 800 pezzi in un sol colpo.
È stata la sua acquisizione più importante?
Nel 2000 un mercante Parigi mi chiamò al telefono: ‘Saresti interessato a comprare un’importante collezione di ceramiche Dalpayrat?’. Andai in Svizzera, probabilmente si trattava della collezione di ceramiche Dalpayrat più grande al mondo. Di nuovo, la comprai per intero e ancora oggi ne conservo qualche pezzo. Qualche anno dopo, grazie a un broker, ho comprato una collezione di 350 pate de verre di Argy Rousseau, conservata nel porto franco di Ginevra. I mercanti in genere non comprano più di un paio di pezzi all’anno, quando sono in grado di trovarli. Quella volta ne ho comprati 350 in una mattina. Ma contrariamente a quanto uno potrebbe pensare non credo sia questione di soldi. Piuttosto, al momento buono bisogna esser capaci di dire ‘Ok, lo compro’.
Qual è stato il suo ultimo acquisto?
Un paio di anni fa una mia cliente è andata in pensione. Aveva una casa piena di opere, e l’aveva lasciata alla figlia, che era decisa a liberarsi di tutti quegli oggetti. Senza esitare ho ricomprato cose che avevo venduto trent’anni prima. Servono coraggio, competenza e… fegato.
Ma se non cadi non impari, è così?
Ci sono due modi per imparare questo mestiere. Puoi leggere libri, visitare i musei, viaggiare in giro per il mondo. Oppure puoi firmare assegni. Mi capita di comprare pezzi in asta, o da colleghi, e poi di sentirmi dire: ‘Perché mai ha pagato tutti quei soldi per quel pezzo?’. La mia risposta è sempre la stessa: ‘Ora che lo possiedo inizierò a pensare una risposta per questa domanda’. Se compri la cosa giusta, non puoi sbagliare.
Ha mai incontrato Benedict Silverman?
Sì, certo. È stato un collezionista grandioso. Ricordo di averlo chiamato al telefono un giorno. ‘Signor Silverman?’. ‘Sì. ‘Parla Robert Zehil, sono un mercante d’arte’. ‘Cosa posso fare per lei?’. ‘Sarebbe interessato a vendere la sua collezione di vasi Gallè?’. ‘Oh. Venga da me, possiamo parlarne’. Così volai a New York per incontrarlo. Era un uomo ricco, piacevole, con un bellissimo appartamento, arredato con gusto. Aveva 12 vasi Gallè di qualità museale. ‘Quanto vuole?’. ‘Quattro milioni di franchi svizzeri’. ‘Posso chiederle perché franchi svizzeri e non dollari?’. ‘Perché voglio depositare il denaro in Svizzera’. ‘Ha già un conto bancario là?’. ‘No’. ‘Mi permette di fare una chiamata?’. Eravamo nella sua cucina, era il 1987, ricordo che il telefono stava appeso al muro. Feci la mia chiamata e riagganciai. ‘Questo è il suo nuovo numero di conto. Avrà il denaro in 48 ore’. ‘Dice sul serio?’. ‘Sì, certo’. A quel punto chiamai i miei clienti in Giappone, che in men che non si dica volarono a New York per ritirare le opere. Io ebbi una commissione del 5%.
C’è un consiglio che darebbe a qualcuno che volesse iniziare a collezionare arte?
Lillian Nassau è stata la prima a vendere Art Nouveau a New York. Ha iniziato negli anni 50 con lampade Tiffany che commerciava per poche centinaia di dollari. Una volta mi disse che ci sono due modi per collezionare. Il primo è partire dal basso, e poi migliorare la collezione strada facendo. Il secondo è quello di partire subito dai pezzi più importanti. Se si hanno risorse a disposizione è inutile perdere tempo. Lillian diceva anche che tutto quello che sapeva l’aveva imparato dai suoi clienti. Ma oggi, purtroppo, non potrei dire lo stesso.
Perché?
All’inizio era una scoperta continua. Pezzi importanti comparivano sul mercato ogni giorno. Ora è rimasto poco.
Come descriverebbe il mercato dell’Art Nouveau oggi?
Il problema principale è che l’Art Nouveau non è più nouveau. Ha più di cento anni ormai, è diventata antiquariato, mentre negli anni Sessanta era qualcosa di nuovo e molto seducente. Ancora negli anni Ottanta era motivo di orgoglio avere una sala da pranzo di Majorelle, o qualche vaso Gallé. Barbara Streisand, i Beatles, o Elton John collezionavano questo genere di oggetti. Ora la moda è passata. Ci sono ancora collezionisti professionali in giro, e sono persone non influenzate dalle mode. A loro interessa l’Art Nouveau e la qualità del pezzo.
Che piani ha per il futuro?
Esporremo in Russia il prossimo mese, a Le Salon Art & Jewels: Art and Jewels From the World, e sto lavorando a una mostra in un museo in Cina, dove l’Art Nouveau è ancora poco conosciuta. Sarebbe un grande traguardo per me riuscire a penetrare il mercato cinese. Dopotutto credo che l’Art Nouveau abbia molto in comune con l’arte orientale del passato. La Cina è stata senz’altro un’importante fonte di ispirazione per l’Art Nouveau.
June 22, 2021