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Lutz & Guggisberg, l’artista con quattro mani e otto giardini

Stefano Pirovano

La serie di foto e sculture presentate da Lutz & Guggisberg alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia sfida l’idea di bellezza provando a trasformare la decadenza in un sorriso.

Premessa. Ci sono casi in cui il confine esatto di un’opera d’arte non è semplice da definire. Ovvero, l’oggetto opera tende a essere frammento di un ‘discorso’ più ampio e articolato che esiste per intero, magari, solo nel formato dell’installazione, oppure è parte di un corpus di più opere composte in un lasso di tempo che può anche durare quanto l’intero arco produttivo dell’artista. Pensiamo, per esempio, alle installazioni di Laure Prouvost, oppure a quelle di Ghoska Macuga. Di entrambe esistono opere singole, dai confini precisi, come i grandi arazzi. Ma anche le loro opere più autonome finiscono per essere ‘frammenti’ di universo formale e informativo decisamente più ampio e inquieto. Anzi, in entrambi i casi la dualità tra forma e informazione è piuttosto una continuità. E poi, a differenza degli estratti che del proprio immaginario ha ricavato, per esempio, uno come Matthew Barney, le opere di Prouvost e Macuga sono chiaramente trame di uno stesso ‘tessuto’ poetico che di volta in volta vibra indentificandosi in forme diverse. E lo stesso potremmo dire di autori contemporanei lontanissimi per formazione e sensibilità come Jonathan Monk e Rokni Haerizadeh – quest’ultimo ora in mostra alle OGR di Torino -, o persino della bravissima Phoebe Washburn, della quale però purtroppo da un po’ non si hanno più segnali. Diverso è per i loro colleghi pittori, casta per la quale ogni opera tende a essere un universo a sé stante, anche quando l’unità stilistica o tematica è scrupolosamente, perfino ossessivamente perseguita. Da Francis Bacon, a Luc Tuymans, per arrivare fino a talenti contemporanei come Dana Schutz o Nicolas Party, passando attraverso Eric Fischl o Francesco Clemente, o giganti dell’astrazione contemporanea come Christopher Wool, Albert Oehlen, o Wade Guyton. Pensate a tutti questi insieme, se potete. Converrete che l’opera in quel mare poetico emerge come isola, prima di diventare frammento.

Questa lunga premessa dovrebbe certo essere meglio argomentata, e poi scrupolosamente verificata su una mappa a scala ridottissima. Ma è da qui che vorremmo comunque partire per riflettere sul duo formato da Andres Lutz e Anders Guggisberg, e sui ‘giardini’ presentati alla fine di aprile alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, in quella che è la loro prima mostra personale in un’istituzione italiana. Già, perché i trenta ‘giardini’ (di cui 23 in mostra a Reggio Emilia), come le quattro nuove sculture prodotte in loco, ci pare rispondano alla logica del frammento di cui dicevamo sopra, e probabilmente si esprimono meglio all’interno del vasto tessuto narrativo prodotto dai due artisti nel corso di una carriera ormai più che ventennale.

Quindi, seguendo la nostra premessa, importa un po’ meno sapere che le immagini dei giardini sui quali il duo è intervenuto con la pittura sono state scattate alla periferia di Zurigo. Come Andres Lutz ci ha detto nella conversazione che abbiamo avuto via internet con lui qualche tempo fa, questi potrebbero essere giardini dei sobborghi Parigini, o di una qualsiasi altra città del mondo, inclusa, perché no, Reggio Emilia. ‘Rappresentano lo stato in cui si trova la civilizzazione, e raccontano del fiume di oggetti prodotti, trasportati, consumati e poi buttati via dalla nostra società’ (Lutz). I giardini rappresentano, e dunque fanno le veci di qualcosa, come le icone sugli schermi. Ma se così fosse, ovvero se fosse questo il confine di cui parlavamo all’inizio, poco o nulla potrebbe andare oltre. Rimarrebbe forse il commento sulla forma, o sul suo grado effettivo di espressività, oppure di efficacia. E infatti: ‘ogni artista rappresenta una parte del mondo’ risponde Lutz quando gli chiediamo se effettivamente fosse loro intenzione ‘rappresentare’ qualcosa. Lutz vuol dire che tutti rappresentano e quindi questo non può essere un tratto ‘identitario’ dell’opera, nemmeno se oggetto della rappresentazione diventa la ‘quotidianità della civilizzazione’ (Lutz) e l’oceano di informazioni a essa riconducibili. Poi, è un fatto, non tutti gli artisti aspirano a rappresentare qualcosa. Per esempio, l’Arte Concreta, e poi la stessa Arte Povera (almeno nelle intenzioni dei loro manifesti, più simili nei concetti di fondo di quanto generalmente si crede) hanno cercato di superare le strettoie della metafora, del simbolo, e di tutto ciò che riconduce a un preciso significato. Ma è proprio questo lo svincolo più insidioso. Se guardiamo l’opera come un’isola, allora avvisteremo un’isola, un’isola nel mare delle informazioni trasportate dalla rete, visto che è questo il medium attraverso cui le opere vengono soprattutto ‘viste’ in questa era mediatica.

Il caso qui è diverso. I giardini sono parte di una vibrazione più ampia. Lutz e Guggisberg hanno iniziato a lavorare insieme nel lontano 1996. Si sono conosciuti nei bar di Zurigo, per caso; prima una mostra, poi una seconda, e così via ‘passo dopo passo, la nostra collaborazione è diventata qualcosa di più specifico. Ma non abbiamo mai scritto contratti tra di noi, o firmato carte che regolassero il nostro rapporto. Ci unisce una specie di fede’ (Lutz). Guggisberg è anche musicista, Lutz è interessato alla recitazione. Hanno inclinazioni e abilità creative distinte, che poi confluiscono in un unico invaso. ‘È impossibile riassumere la nostra pratica quotidiana in poche parole, così come sarebbe impossibile descrivere 22 anni di collaborazione in pochi secondi. Ma posso dire che c’è un’ambivalenza tra la quotidianità del lavoro, cioè quella che inizia nello studio la mattina, con gli strumenti che hai sul tavolo, in maniera diretta o metaforica, e il discorso che invece porti avanti dal giorno precedente, e da quello prima ancora. Questa seconda parte del lavoro è più difficile da raccontare’ (Lutz). Anche perché i due Anders lavorano, appunto, in duo, mischiando, verificando, interrogando, sensazioni e sensibilità umane separate e indipendenti. ‘In un duo, per esempio, non si è mai soli’ (Lutz). Al contrario, tutto viene continuamente negoziato, e rinegoziato. E in genere il risultato è qualcosa che va molto oltre le singole individualità – un altro confine viene meno. Mentre, per esempio, nel caso della collaborazione tra Wade Guyton e Kelly Walker il risultato è il lavoro di un terzo artista (Guyton, 2010), dato che comunque i due artisti coltivano pratiche artistiche separate, Lutz afferma di avere l’impressione che Lutz Guggisberg sia un solo artista! Dopo anni di collaborazione continua le ‘mani’ all’opera non sono più distinguibili – a meno che non ci sia la precisa volontà di separarle, per esempio interpretando una performance. E questo fatto si riflette nel modo in cui il duo parla al pubblico, ovvero come se l’artista fosse unico. ‘Lavorare insieme è diventato per noi un atto naturale, anche se poi abbiamo vite indipendenti. Non sarebbe differente se fossimo architetti, o designer, settori in cui le coppie professionali sono più frequenti’ (Guggisberg).

Ecco come i giardini, e le sculture, producono strati di senso che non dipendono dalla metafora e dalla forma. L’ironia che caratterizza l’intera opera del duo svizzero ‘scorre’ nel tempo, come un fluidificante. Quello sguardo candidamente critico verso i tanti errori della società in cui viviamo è quindi uno sguardo profondo, e allargato. I giardini, che sono luoghi di piacere, di meditazione, di svago, e che in certi casi segnalano anche il tasso di salubrità di un certo micro sistema politico, o economico, sono in qualche modo corrotti. Diventano luoghi spiacevoli. ‘I giardini che abbiamo fotografato sono in effetti corrotti. Ma il nostro obiettivo era scoprirne le qualità estetiche. Volevamo parlare di creazione e distruzione, del loro ciclo costante. I giardini sono distrutti, ma i fiori non cessano di spuntare, ed è questo forse il messaggio etico del lavoro’ (Lutz). Le sculture in mostra alla Collezione Maramotti non sono state spedite dalla Svizzera, ma prodotte sul posto, con materiali locali, che non hanno dovuto viaggiare. Qui è da leggere uno spirito ecologico ben preciso. ‘Preferiamo sempre usare materiali locali invece che spedire le opere. Qualche anno fa abbiamo seguito un progetto a Los Angeles. In due pomeriggi abbiamo raccolto tutto quello che ci serviva, nello stesso quartiere. Così è successo qualche tempo dopo a Buenos Aires. Ma in questo caso ci ha sorpreso constatare come nella tormentata capitale argentina trovare materiali di scarto fosse di gran lunga più difficile che nella ricca California. Lì c’è crisi, la gente usa, riusa, ricicla tutto quel che trova. Abbiamo comprato materiale dai cosiddetti cartoneros, gente che per vivere raccoglie la carta usata. Poi però abbiamo reso la carta a fine mostra’ (Guggisberg). Tutto chiaro.

June 22, 2021