Tre scritti su Jannis Marwitz
La pittura di Jannis Marwitz vista da tre differenti punti di vista, che tre diversi autori hanno preso. E tra questi c’è l’artista, che parla di sé.
Può accadere che scrivendo di un artista si finisca per raccogliere testi anche molto diversi tra loro. Persino i cataloghi e le monografie, nel nobile intento di proiettare l’universo poetico da cui le opere provengono, a volte includono scritti che poco o nulla hanno a che fare con la critica d’arte. È il caso, per esempio, del catalogo dell’ultima mostra di James Lee Byars al MuHKA di Anversa, che contiene interviste, testi storici, recensioni. Ed è con questo approccio che abbiamo affrontato il gruppo di opere di Jannis Marwitz che Damien & The Love Guru ha di recente esposto a Bruxelles. Con l’intenzione di offrire una prospettiva fertile e possibilmente alternativa, abbiamo perciò qui raccolto il lavoro di sei mani. Due hanno provveduto a contestualizzare storicamente le opere di Marwitz; altre due – le nostre – hanno preso la via del saggio breve; le due rimanenti sono state quelle dell’artista. Inevitabile che i differenti modi di intendere il rapporto tra testo e opera d’arte finiscano per confrontarsi tra loro, ma questo è un effetto collaterale che avevamo previsto, e in qualche modo cercato.
Primo.
Il primo testo si intitola ‘La rinascita di Venere’. È stato scritto dallo storico dell’arte Koen Bulckens, che ha messo in luce riferimenti importanti per il lavoro di Marwitz, sul piano iconografico e su quello tecnico.
La rinascita di Venere.
Quando il dio Urano fu castrato dal figlio il suo sangue zampillò nei mari della terra. Anche se tragico e violento, il fatto aprì la via alla bellezza. Il seme di Urano si mescolò alla spuma del mare e dall’unione dei due elementi nacque Venere. La leggenda che narra la nascita della dea dell’amore ha inspirato scritti e di immagini, ovvero una tradizione di poesie e dipinti che ha attraversato i secoli.
Venere rinasce nel lavoro di Jannis Marwitz, che tuttavia da una diversa versione dei fatti. La dea riposa in una tazza di té, svegliandosi quando una mistura liquida viene versata su di lei. Forme e figure, in molti dipinti di Marwis, derivano dalla tradizione italiana. Dagli altorilievi classici alle tele rinascimentali. La sua tecnica pittorica, tuttavia, viene dall’Europa del Nord. Marwitz scrupolosamente applica sottili strati semitrasparenti di colore, generando volumi alla maniera di Jan Van Eyck e Hans Memling. Il risultato è allo stesso tempo familiare e straniante, un po’ come sarebbe il ricordo di un evento che, in realtà, non è mai accaduto.
Marwitz è la sintesi di una varietà di tradizioni Europee. L’autore investiga nelle biblioteche alla ricerca delle ricette per creare i colori. Studia i canoni dell’arte e della letteratura europea alla ricerca di storie e soggetti. Ciò nonostante, il suo interesse per il passato, e con esso il rispetto che nutre per il sapere artigiano, mai sorpassano il suo bisogno di innovare. Marwitz prende parti di storia dell’arte, e le taglia, per innestarle nel suo mondo, e così dar vita a qualcosa di nuovo. La sua impresa ricorda molto quella del figlio di Urano.
Secondo.
Il testo che segue, secondo nell’ordine, è di chi scrive. Si tratta di un saggio breve dedicato alla relazione tra artigianato e arte. Il lavoro di Marwitz rappresenta infatti un brillante esempio di pratica artistica contemporanea basata su capacità manuali.
Il celebre trattato di Cennino Cennini contiene un interessante passaggio a proposito del rapporto tra pittura e abilità tecnica. Cennini dice infatti che la pittura deriva dalla scienza, e dipende dalle operazioni che la mano è in grado di compiere. In questo alveo, arte, immaginazione e mestiere sono necessarie per scoprire i segreti nascosti sotto l’oscurità degli oggetti naturali, e per presentare alla vista quel che non sembrava esistere prima. Qui si trova, secondo Cennini, il valore della pittura. Per lui la capacità tecnica è condizione necessaria al dipingere – e, più in generale, alla creazione artistica.
Sette secoli dopo, nulla può suonare più antiquato rispetto al ‘contemporaneo’, un territorio in cui opere straordinarie posso prender vita anche nella totale mancanza di abilità tecnica; e, al contrario, opere frutto di straordinaria abilità manuale capita che siano artisticamente del tutto irrilevanti. Nel XX secolo le avanguardie hanno rifiutato le capacità manuali considerandole rappresentazione delle istanze conservatrici, per non dire retrograde. Oggi il termine ‘virtuoso’ tende ad avere un accezione negativa, invece che positiva, come invece a lungo è stato. In questo contesto ideologico la scelta di creare arte sulla scorta di precise abilità tecniche, specie quando queste abilità non sono prese in prestito da qualcuno che non è l’artista che firma l’opera, deve avere un ragioni specifiche. I dipinti di Jannis Marwitz forniscono un buon esempio per privare a indagare tali ragioni.
Come, con una dose di ironia, Seth Price scrive nel suo romanzo Fuck Seth Price, agli artisti con un debole per l’artigianato ‘piace fare cose, e le vogliono esplicitamente fare con le loro mani’. La felicità che deriva dall’esperienza di creare un’opera d’arte con il proprio corpo – è questo ciò a cui Price si riferisce – potrebbe essere in sé una ragione sufficiente, per un artista, per prendere questa via. Questa stessa ragione potrebbe aver spinto Marwitz. Ma, da parte nostra, accogliere tale ragione ci spingerebbe nei territori dell’analisi psicologia, il che rischierebbe di risultare incoerente al contesto di questo scritto.
D’altra parte, ci sono artisti che usano le loro abilità tecniche per ragioni che poco hanno a che fare con l’edonismo. Prendiamo, per esempio, le corrente iperrealista (o fotorealista) che ha attraversato l’ultimo quarto del secolo scorso. La pittura virtuosa è stata una risposta all’onda minimalista e concettuale. In certa misura i pittori iperrealisti, o fotorealisti, hanno concettualizzato l’uso del medium pittorico tanto quanto gli artisti concettuali hanno, invece, speculato sulla propria presa di distanza da esso. Per quanto i dipinti di Marwitz non cerchino la mimesi con il reale, il suo approccio alla tecnica pittorica sembra tanto consapevole quanto quello adottato dagli artisti che all’inizio della fine del secolo scorso l’hanno cercata, almeno nei termini che abbiamo detto.
Per meglio spiegare quel che stiamo cercando di dire, si prenda il dipinto intitolato The Birth of Venus (domestic) del 2018, ovvero la rivisitazione di un tema classico, il mito di Aphrodite (Venere per i romani). Anche secondo la rappresentazione di Marwitz la dea nasce dall’acqua; ma per lui l’utero acquatico sta in una tazza di té, invece che in una conchiglia. Alla dea mancano anche gli attributi classici, e ad ‘attivare’ la figura divina è il gesto di una persona qualsiasi, invece che il tocco di un altro dio. Allo stesso modo, lo sfondo non è idilliaco, ma marcatamente domestico.
Tornando alla questione da cui siamo partiti, la tecnica con cui il quadro in questione è stato dipinto sembra tesa a sottolineare il revisionismo che esso interpreta. In altre parole, l’impiego di tecniche e capacità tradizionali per ‘ridipingere’ un soggetto classico offre un canale diretto al dialogo tra forma e contenuto. E tanto basta a giustificare il ritorno alla tradizione manuale, escludendo che questo ritorno possa esser in qualche modo tacciato d’esser di parte conservatrice.
Infine, all’arte contemporanea spesso si chiede coerenza rispetto a qualcosa, ovvero, si chiede all’artista di motivare le proprie scelte – a lui, o ai teorici che si occupano del suo lavoro. Ogni volta che ci si allontana da questa particolare forma di coerenza l’arte scivola nelle strettoie del design o, peggio, precipita nel burrone del decorativo. Se per il medioevo, e per Cennini, non poteva esistere arte che non fosse frutto dell’abilità manuale, oggi questa abilità non è che uno tra i molti strumenti nella cassetta degli attrezzi ‘concettuali’ che l’artista ha a disposizione.
Terzo.
Il terzo testo è opera di Jannis Marwitz stesso, e forse non sorprenderà che il tono del suo scritto non sia scientifico, o accademico, ma piuttosto ribadisca che quando gli artisti scrivono del loro lavoro è bene assumano un molto ruolo diverso da quello dei teorici.
Oltre i campi, vicino a un piccolo stagno, un paio d’alberi stanno gettando ombre, flessi dal vento di metà settembre. L’estate sta offrendo un paio di bottoni all’autunno. L’autunno, indeciso se sia il caso o meno di accettare l’offerta, sta già contando le statue d’animali d’oro che ha ereditato, e che potrebbe scambiare. La sua indecisione è opportuna, visto che c’è qualcosa che non ha notato… I bottoni non sono della stessa taglia!
Bottone Venere. Il bottone può esser visto come una certa quantità di beni, o di denario, o come quelle monete da 1, 2 o 5 centesimi, che nessuno raccoglie dalla strada. Ma considerarlo per questo motivo una fontana (solo perché c’è una conchiglia sullo sfondo), è la via sbagliata. Tutta l’acqua uscirebbe dalla conchiglia superiore.
Due dipinti della nascita di Venere. Non appena procediamo, la conchiglia non è più una conchiglia, ma una tazza di porcellana appoggiata su qualcosa di simile a un tavolo. L’uno è l’interno, l’altro il domestico, ma al di là di piccoli cambiamenti essi appaiono identici.
Questo è un ritratto incoronato da una semplice ghirlanda di foglie di rucola.
E un rosso studio di panneggi e teste, una della quali sta suonando un flauto.
Der Hurrikane
Jim Mahoney:
Perchè costruire grattacieli com le montagne dell’Himlaia,
se non le puoi rovesciare –
così che ci sia una risatina.
Ciò che è piatto – deve esser curvato!
E quello che flette verso il cielo –
deve essere gettato nella polvere!Non ci servono Uragani –
Non ci servono Tifoni!
E così lo scompiglio che questi possono portare –
Questo, possiamo fare… Questo, possiamo fare…
Questo, possiamo farlo da soli!Leokadja Begbick:
L’Uragano è brutto.
Anche peggio è il Tifone.
Ma il peggio di tutti – è l’uomo!
June 22, 2021