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Mona Osman, verso la pittura infinita

Stefano Pirovano

Mona Osman presenta alla Collezione Maramotti una nuova serie di dipinti, che parlano di angoscia esistenziale e libertà provando a superare l’idea di opera come unità a sé stante.

Mona Osman lavora dal garage di casa, a Bristol. Quando lo spazio non basta, tele e colori entrano in casa, in una camera appositamente attrezzata. Capita spesso, visto che l’artista preferisce dipingere in grande formato. È importante sapere dove un artista lavora? In questo caso sì. In questa fase, che chiameremmo d’inizio carriera, la pittura di Osman è un viaggio sopratutto interiore. Garage e casa sono luoghi dell’identità, assenti nell’opera, ma inevitabilmente presenti nel suo racconto. Un po’ come il fienile dove dipingeva Jackson Pollock dopo aver lasciato New York per Springs, o il tugurio con toilette in condivisione dove avevano luogo le lunghe sedute di posa che furono necessarie a Lucian Freud per dipingere i ritratti dei duchi del Devonshire (qui il link all’intervista che il Duca del Devonshire ci ha recentemente concesso). Ma mentre i dipinti di Freud sono di dimensioni relativamente contenute, Mona Osman ha il problema di farli passare dalle porte, che a casa sono troppo piccole. Così le tele devono essere smontate e reintelaite a ogni spostamento significativo, come documenta l’eloquente pagina Instagram dell’artista. “Spostare le tele richiede molto tempo – confessa Osman fuor di metafora – Spero presto di poter disporre di uno spazio più adatto”.

Mona Osman

Mona Osman, Page of the artist’s book Rhizome and the Dizziness of Freedom, 2019. © the artist
Ph. Carlo Vannini.

Poi continua: “Da bambina ero ansiosa. Durante la scuola primaria mi ammalavo in continuazione, probabilmente si trattava di un problema psicologico. Studiavo a casa, per poi dare gli esami. Ma ero piuttosto isolata. Così ho iniziato a disegnare. I disegni erano i miei amici immaginari. Credo mi sia stato di grande aiuto. Era il modo che avevo di esprimermi e di comunicare”. Da quel momento il lavoro di Mona Osman si è sviluppato organicamente, in apparente continuità con le esigenze di allora, e con i passaggi che hanno segnato la sua formazione.

Mona Osman

Mona Osman, Sodom and Gomorrah, 2019, oil and mixed media on canvas
210 x 225 cm © the artist.Courtesy C&C Gallery, London.

Dalla sfera personale a quella universale.

Mona Osman è nata a Budapest nel 1992. “Ricordo ancora la mia insegnate d’arte, Johanna Kovacs. Mi ha sempre supportato, Non credo che senza il suo aiuto avrei continuato a dipingere o avrei mai intrapreso una carriera artistica”. Mona Osman ha poi vissuto a Nizza, tra i 12 e 15 anni, età in cui è tornata a Budapest, dove è rimasta fino ai 17. Da qui a Londra, per studiare alla Goldsmith University e al Royal College of Arts. In questa fase gli insegnanti che più hanno influenzato e supportato la sua crescita sono stati Luke Dowd e Dawn Mellor alla Goldsmiths, e David Rayson alla RA. A quest’ultimo si deve il primo interesse dell’artista per la semiotica e la struttura del linguaggio. “Ho sempre trovato difficile parlare del mio lavoro da un punto di vista personale. Ho quindi cercato piattaforme da cui poter esprimere idee e pensieri con il dovuto distacco. Così ho iniziato a interessarmi di filosofia e psicologia. È stato un modo per poter parlare con più persone”. Questo è uno dei punti cardinali del suo lavoro. “Tutti proviamo angoscia esistenziale – continua Osman – perché dunque ridurre il problema alla mia esperienza o al mio sentire personale?” Ecco come il vissuto di un individuo può, grazie a un filtro di carattere culturale, trasformarsi in un messaggio universale.

Dal punto di vista formale le opere di Osman hanno caratteristiche che aderiscono perfettamente alle premesse ‘esistenziali’ da cui partono. L’immagine è ricca di colori contrastanti e di dettagli formali, ma è anche piatta e profondamente statica. Per quanto la struttura possa risultare complessa da decifrare, l’uso della prospettiva è praticamente assente. Le figure sono ieratiche come nei mosaici medievali, o possono ricordare le maschere tradizionali africane. Sono entità, più che personalità, che raramente interagiscono tra loro. Piuttosto, tendono a dissolversi nello spazio pittorico. Non c’è sfondo. La figura antropomorfa e quello che le sta intorno hanno la medesima importanza. In questo modo si crea una sorta di continuità non solo tra figura e sfondo, ma anche tra opera e opera. “Mi capita di non riuscire a mettere nell’immagine tutto quello che vorrei,  allora continuo il discorso su un’altra tela” ci spiega Osman, che infatti preferisce lavorare per serie di dipinti. Le sue opere tendono quindi a non essere unità a sé stanti. Sono simili ai taccuini su cui Mona Osman scrive e disegna. La vita non fa salti. In questo senso il lavoro dell’artista è organico. “Negli ultimi otto anni i miei dipinti sono cresciuti l’uno sull’altro, in diverse stagioni, all’interno delle quali si trovano le serie. Così idee circolano tra le opere”.

Mona Osman tra Freud e Kierkegaard.

L’interesse di Mona Osman per le tematiche di carattere religioso offre qui ulteriori spunti di riflessione. L’artista dichiara di non essere praticante, ma è cresciuta nel confronto tra l’ebraismo (da parte di madre, pure non praticante), e la religione musulmana, praticata invece dal padre. “Delle confessioni religiose mi interessano gli aspetti spirituali, che in qualche modo cerco di attualizzare e mettere a confronto”. Di questo interesse è figlio il titolo della mostra di Mona Osman alla Collezione di Maramotti di Reggio Emilia: “Rhizome and the Dizziness of Freedom”, dove evidentemente il termine rizoma è usato in senso metaforico e si riferisce a quelle entità (psicologiche) di cui dicevamo, mentre la libertà è un tratto fondamentale dell’esperienza con il quale l’essere umano è costantemente chiamato a misurarsi. A questo proposito, Mona Osman cita Bridget Riley (ma potrebbe essere Ettore Spalletti) quando l’artista americana parla del colore: “Non c’è nulla come il blu scuro e il blu chiaro. Il blu chiaro esiste solo in relazione al blu scuro, e il blu scuro esiste solo in relazione a quello chiaro”. In questo momento l’interesse di Mona Osman verte dunque sugli spazi di relazione tra cosa e cosa, persona e persona, sé e io. Negli spazi di relazione e di definizione. Qui si innesta anche il riferimento a Kierkegaard, per il quale l’ansia (esistenziale) è, appunto, vertigine di libertà.

Mona Osman

Mona Osman, Self Crucifixion, 2019, oil and mixed media on canvas, 155 x 120 cm © the artist: Courtesy C&C Gallery, London.

Mona Osman

Mona Osman, Eaten by Facticity, 2019, oil and mixed media on canvas, 120 x 155 cm © the artist. Courtesy C&C Gallery, London.

January 1, 2020