Hanna-Maria Hammari: se la natura porta altrove
Attraverso materiali e tecniche tradizionali Hanna-Maria Hammari ci porta a riflettere sull’era del capitalismo della sorveglianza.
I motivi che ci portano a scrivere del lavoro di Hanna-Maria Hammari sono essenzialmente due. Il primo è di natura formale. Siamo stati colpiti dal modo in cui l’artista riesce a rendere tra loro coerenti materiali a prima vista incompatibili – e, come vedremo, non si tratta di semplici associazioni. Il secondo motivo è invece una questione di personalità. Più che oggetti da contemplare, certe opere di Hanna-Maria Hammari riescono a essere organismi vitali, capaci di adattarsi all’ambiente. C’è una sorta di ambizione al movimento che porta in sé qualcosa di orientale. Una leggenda cinese dice che quando qualcuno chiese al pittore Han Gan perché i suoi cavalli avessero sempre le briglia legate a qualcosa lui rispondeva che i suoi cavalli erano talmente vivi che altrimenti sarebbero scappati dal foglio…

Hanna-Maria Hammari è nata nel 1986 a Tornio, in Finlandia, e ha studiato scultura alla Städelschule di Francoforte. Hammari ha iniziato studiando fotografia. Da qui s’intende il suo interesse per la ‘cucina’, ovvero per la meccanica, o la chimica, che porta all’opera compiuta. La ceramica, per esempio, è arrivata alla Cooper Union di New York, dove pure Hanna-Maria Hammari ha trascorso un periodo formativo. Era il 2016. “La ceramica ti permettere di fare davvero quel che vuoi” dice l’artista oggi a questo riguardo, aprendo così una finestra sul suo modo di intendere il medium, che poi ha potuto approfondire una volta tornata ‘a casa’ grazie a una serie di fortunate coincidenze. Il punto si chiarisce nell’affermazione successiva: “Pensare a come fare certe cose richiede tanto tempo quando ce ne vuole a metterle in pratica” .
Cosa significa imparare un processo?
A una società che diventa giorno per giorno più immateriale e meccanizzata molti artisti rispondono affidandosi alle proprie mani, riscoprendo il loro valore; non già rivendicando il diritto all’artigianalità o al virtuosismo (piani sui quali con le macchine computerizzate non ha senso competere), ma sposando l’estetica dell’inesattezza che viene dal confronto con la materia. Questa cosa ha valore perché l’ha fatta un uomo. Ne testimonia il genio e il libro arbitrio. Si veda a questo riguardo il nostro scritto su Lorenza Longhi, che pure insite su questo tema fondamentale, anche se da una prospettiva diversa.


Ho iniziato studiando fotografia e video. Poi ho cambiato idea, e mi sono mossa verso cose più tangibili. Credo che il mio passaggio ai materiali analogici sia dipeso dall’interesse verso i processi produttivi. Mi piace lavorare in studio, e fare ricerca sui materiali. Questo sono le mie radici artistiche. Molte delle mie opere vengono da immagini che ho in mente, Da idee in genre piuttosto vaghe si precisano poi nel processo. Sono i materiali a dirmi dove andare e come continuare. Il significato del lavoro viene da questa interazione. La ceramica mi ha aiutato molto, in quanto processo che ha un inizio e una fine precisa. Grazie alla ceramica ho imparato come completare un lavoro.
l digitale, invece, ci circonda, ci penetra, estrae dalla nostra esperienza quotidiana informazioni che poi serviranno a generare altre informazioni che verranno probabilmente usate per scopi commerciali, prima che sanitari, sociali o cuturali. Qualcuno è addirittura convito che il nuovo capitalismo della sorveglianza finirà per annullare l’identità del singolo, l’unicità della sua esperienza (Shoshana Zuboff, The age of the surveillance capitalism, 2019).
Ecco che il bisogno di mettere le mani nel processo, la possibilità di determinare il risultato, così come quella di produrre autonomamente diversi esemplari dello stesso oggetto, diventano in sé tematiche e valori espressivi di cui l’opera è a sua volta portatrice. Anche con una stampate 3D, in teoria, puoi fare quel che vuoi. Ma per arrivarci devi ‘usare’ una macchina, che inevitabilmente ha dei limiti dovuti alla propria natura. Mentre per fare quello che vuoi con l’argilla devi saper padroneggiare un processo che, per quanto limitato, sarà sempre più libero, duttile, aperto e migliorabile di una macchina. Ed senz’altro questo un terreno dove l’arbitrio umano può ritrovarsi.

Del resto, queste tematiche stavano già tutte in uno dei primi lavori di Hanna-Maria Hammari. Vapor Snag, del 2017, è qualcosa che sta tra gli scivoli di Carsten Höller e un instant classic come The way things go, di Fischli&Weiss. Nella versione di Hammari un uovo rotola lungo un lungo scivolo, che dopo curve, avvitamenti e sali scendi lo fa per finire spiaccicato sul pavimento. Evidentemente si trattava di una studentessa talentuosa e consapevolmente ironica (ironia che per fortuna non si è persa). A terra le uova rotte finiscono per esser molte.

Hanna-Maria Hammari da Kraupa-Tuskany Zeidler e Deborah Schamoni
I lavori presentati nella collettiva da Kraupa Tuskany Ziedler sono di natura di versa. Qui la scintilla espressiva sta nella relazione tra ceramiche che potrebbero ricordare caschi, trappole per animali, o cinture di castità, e certi tentacoli, anch’essi di ceramica, ma rivestiti di lattex. I ‘rapporti’ cromatici e formali tra i due oggetti sono molto riusciti. L’uno finisce per essere il rovescio della medaglia dell’altro, ed è una medaglia che piroetta nello spazio (anche se gli oggetti rimangono fermi, sia chiaro). Ci sono plasticità e un sensuale senso dell’organico, colore e superficie, pieno e vuoto. La densità è una variabile su cui l’occhio è chiamato a riflettere.
Alla luce di quello che abbiamo detto, parleremmo di forme significanti – ancorché prive di una narrativa propria, o di un significato specifico (ma pensate alla metafora dell’uovo). E il discorso è simile, e possibilmente più aperto, per le sculture presentate da Debora Schamoni nella bi-personale con Vera Palme. Le opere di questa serie, esposta per la prima volta nella personale di Hanna-Maria Hammani da LC Queisser a Tbilisi, provano che la poetica di cui dicevamo è di fatto una vena aperta, che può crescere in molte direzione e declinarsi in molti modi. In particolare, questa è quella del legno. La testa delle opere è mobile, la si può posizionare a piacere. È l’ambizione al movimento di cui parlavamo. Un piccolo dettaglio, che però molto conta in termini di espressività. Che poi alla fine è l’unica cosa che conta davvero e che nessuna forma di intelligenza non umana può pensare di produrre autonomamente. Almeno per ora.

In linea con quanto abbiamo scritto fin ora è stato anche il lavoro presentato nel 2019 al Frankfurter Kunstverein. I volumi di ceramica smaltata si arrampicano tra le fronde di una foresta di catene colorate dalla ruggine e dalla mano dell’artista. C’è però un ulteriore elemento su cui vale la pena riflettere. Qui più che altrove si nota l’ambiguità tra figurazione e astrazione in cui Hanna-Maria Hammari preferisce lasciare l’opera. Sub sublime, questo il titolo dell’opera, guarda in effetti all’estetica del sublime e dunque porta alle forze della natura, o del naturale. Ma quella che crea Hanna-Maria Hammari non è una natura precisabile. Piuttosto, è pura visibilità che dalla natura parte per spingersi altrove. A questo punto le catene non sono catene e la ceramica non è ceramica. Ma cosa sian queste cose non possiamo dire.

February 12, 2020