Beatrice de Gelder: in arte le neuroscienze possono riscrivere le regole del gioco
Collezionista e neuroscienziata, Beatrice de Gelder fa il punto della situazione sulla neuro-estetica e spiega perché gli scienziati non abbiano ancora trovato la giusta domanda a cui rispondere.
- On the left, Beatrice de Gelder.
Abbiamo incontrato Beatrice de Gelder per la prima volta a Bruxelles alla fine del 2017, in occasione di un evento tenutosi presso la galleria Harlan Levey Projects incentrato su arte e scienza. Invitata a moderare il dibattito, de Gelder, che è direttrice del Brain and Emotion Laboratory presso l’Università di Maastricht, ha condotto la conversazione tra l’artista Marcin Dudek e lo psicologo sociale John Rijsman, che ha fornito una panoramica scientifica delle teorie sul controllo della folla e sulle dinamiche di gruppo, temi in qualche modo fondamentali nel progetto artistico di Dudek. Un altro capitolo di questo evento si è tenuto a Londra, con lo psicologo sociale Mark Levine, poche settimane dopo. All’inizio di febbraio ci siamo seduti con de Gelder in un affollato caffè di Bruxelles per discutere del suo interesse per l’arte, del suo lavoro nelle neuroscienze e dell’interessante legame che esiste tra le due.
Com’è nato il tuo interesse per l’arte?
Spesso si legge che le persone incontrano qualcuno, o vedono un’opera d’arte, o ascoltano un pezzo di musica, o un concerto o un’opera teatrale, e questo è il momento in cui nasce il loro interesse per l’arte. Nel mio caso non riesco a ricordare nulla di specifico, non potrei costruire una narrativa personale su me stessa e sull’arte; semplicemente non sarebbe fedele alla realtà. In qualche modo l’arte è sempre stata presente nella mia vita, anche senza parlarne.
Quando e come hai iniziato a collezionare opere d’arte?
Non mi considero davvero una collezionista. Collezionare è un verbo terribile che evoca solo il possesso di oggetti, che è un po ‘come possedere della polvere.
In una recente intervista su CFA, lo scrittore Orhan Pamuk ha dichiarato che per lui i collezionisti d’arte sono seguaci di una logica. Sono ossessionati da una certa caratteristica delle cose e accumulano esattamente le cose che hanno questa caratteristica.
Interessante, sembra una definizione tratta da un libro di psicologia clinica. Contiene l’idea di voler apparire, nel collezionare, come assolutamente razionali. Per quanto mi riguarda, qualunque cosa sia che mi fa comprare delle opere d’arte non è niente di così razionale, a meno che non si consideri la passione come razionale; e lo è. Non sono alla ricerca di una logica che colleghi una serie di decisioni sugli oggetti, eppure capisco come le persone vogliano costruire una narrativa personale sulla loro collezione, qualcosa che gli permetta di dire “sono la persona che fa questo”. Gli esseri umani vogliono considerare se stessi come esseri razionali nel loro comportamento, il che è allettante perché dà conforto e sicurezza in un mondo altrimenti caotico. Se collezionare cose segue una logica imposta diventa accumulo, e non raccolta; e l’accumulo è una patologia.
Quindi non c’è un criterio che definisce la tua collezione?
Un osservatore esterno che ne è alla ricerca forse potrebbe essere in grado di trovare questo criterio; ma certamente non ho un principio a priori per decidere se acquistare o meno un’opera d’arte.
Forse possiamo provare a trovare questo principio partendo da esempi di opere che ha comprato.
Quando ho iniziato a comprare arte lavoravo ancora come filosofa all’Università di Leida, e non potevo permettermi gran che. Eppure a casa ho avuto sempre delle opere spettacolari che alcuni amici di Anversa mi lasciavano in deposito, e che alla fine ho comprato. Come certi lavori su carta di Sol Lewitt, alcuni dei quali sono stati persino gettati per sbaglio dalla donna delle pulizie. Ho acquisito anche altri lavori di Sol Lewitt, ma anche di Kosuth, Twombly e certe opere giovani di Jan Fabre, oltre a opere di Broodthaers e Art & Language. Non ho tenuto tutto; ad esempio, un pezzo di grandi dimensioni di Broodthaers è ora al MoMA di New York. Di qualche altra opera ho ormai solo le foto. Da questi esempi immagino che si possa dire che tendo a collezionare arte concettuale – che è un termine improprio -, ma io non la vedo così.
Come hai scoperto l’arte concettuale?
All’inizio degli anni ’70 ho gestito una galleria d’arte “non officiale” ad Anversa. Il mondo dell’arte allora era molto diverso dal mondo dell’arte di oggi; c’era una passione cruda e non aveva questo aspetto di speculazione finanziaria che si vede ora. Si può dire che ero semplicemente amica con gli artisti sulla scena, e questi avevano bisogno di essere supportati in qualche modo.
Come sei coinvolta nel mondo dell’arte oltre a collezionare?
Gestisco un’iniziativa artistica e scientifica con il gallerista Harlan Levey, chiamata Fundamental Research. Organizziamo conferenze, mostre e residenze nel mio laboratorio e in un nuovo spazio qui a Bruxelles (www.gluon.com).
Ti colpisce il virtuosismo manuale nell’arte contemporanea?
È una questione molto difficile, e potrei rispondere con un radicale “sì” e un radicale “no”. Non credo che se dai del virtuoso ad un artista contemporaneo tu gli stia facendo un complimento. Ma ciò non significa che l’aspetto manuale e tecnico non possa essere positivo, è solo che questo aspetto non è particolarmente indicativo. E’ piuttosto lo sforzo emotivo e intellettuale di un artista che contribuisce alla qualità dell’arte. Per usare una parola difficile e un po’ vaga, è il “significato” dell’opera d’arte che la rende interessante o meno. In questo senso, l’opera d’arte deve parlarmi con significato, anche se non deve urlare o non deve avere un significato troppo chiaro come quello che si trova nelle opere di Magritte. In quel caso, l’arte diventa semplicemente cattiva filosofia.
Sei la direttrice del Brain and Emotion Laboratory presso l’Università di Maastricht, potresti parlarci un po ‘della tua ricerca in quel contesto?
Sono passata dalla filosofia alle neuroscienze quasi venti anni fa, perché volevo fare ricerca sperimentale e indipendente da una particolare agenda filosofica. Inizialmente ho lavorato sull’integrazione della visione e della percezione uditiva, scoprendo alcuni aspetti importanti su come percepiamo stimoli diversi come un’unità, e sulla percezione delle espressioni facciali. Circa dieci anni fa ho iniziato ad interessarmi alla comunicazione non verbale e non facciale. Tutto ad un tratto mi sono chiesta come comunichiamo con il resto del corpo. All’inizio questo era solo un progetto secondario, ma si è rivelato un campo di scoperta completamente nuovo. Così negli ultimi dieci anni ho lavorato su come percepiamo le espressioni del corpo, sia con la vista che con il tatto, e come comunichiamo attraverso queste espressioni non verbali e non facciali che sono spesso al di fuori della coscienza e del controllo. Al Brain and Emotion Laboratory investighiamo questo campo di ricerca usando principalmente metodi di imaging cerebrale, integrando la ricerca con pazienti con danni cerebrali o demenza, schizofrenia, autismo. In questi ultimi anni la nostra ricerca sull’espressione corporale ha acquisito una dimensione completamente nuova con gli sviluppi nella realtà virtuale, avatar embodiment e robotica.
Ti interessi anche di neuroestetica, la branca della neuroscienza che si occupa della percezione dell’arte?
Sì, ho organizzato alcuni incontri in occasione di TEFAF e della Biennale di Venezia attorno al tema generale del corpo nell’arte e nella scienza. Devo dire che la situazione della neuroestetica è complicata e l’intera idea di neuroestetica è stata molto criticata – e probabilmente molto fraintesa -, fin dall’inizio, quando Semir Zeki ha indicato le basi della percezione della bellezza nel cervello. La prima critica è stata contro l’idea che certe parti del cervello fossero responsabili per certe funzioni artistiche, un’idea completamente condivisa dalla prima neuroestetica ma ora rigettata. In secondo luogo, molti – specialmente filosofi ma anche storici dell’arte – hanno sostenuto e sostengono tutt’ora che la neuro-estetica rappresenti un approccio riduttivo e per questo problematico all’arte. E ‘un peccato che la neuro-estetica abbia avuto una nomea così negativa così presto, viste le scoperte molto interessanti che sono state fatte. Ad esempio, Vittorio Gallese e David Freedberg hanno condotto importanti ricerche sulle nostre reazioni corporee alle opere d’arte, dall’analisi delle sculture classiche alle tele tagliate di Fontana. L’arte si occupa di concetti sensoriali e di emozioni, che sono aspetti corporei. Con il mio gruppo di ricerca ho recentemente presentato un documento che esamina i movimenti di danza, riunendo un’analisi computazionale delle caratteristiche degli stessi e dei giudizi soggettivi da parte degli spettatori. Questo non significa che credo esista una teoria neuroscientifica globale dell’arte.
Inoltre, la neuro-estetica si occupa principalmente delle proprietà formali di un’opera d’arte. Ad esempio, certe idee e concetti che abbiamo riguardo un dipinto cambiano la nostra esperienza di quel dipinto, anche se le proprietà formali di quel dipinto non cambiano. In questo caso, se la neuro-estetica si concentra solamente sulle proprietà formali di un’opera d’arte, rischia di lasciare fuori considerazioni importanti sull’esperienza di quell’opera d’arte.
Si, sono d’accordo. Ad esempio, i primi studi di Zeki hanno esaminato il modo in cui il cervello risponde a diversi dipinti considerati più o meno belli. Questi risultati non dicono granché sull’esperienza del dipinto. Quello che manca alla neuroestetica di oggi è formulare le domande giuste. In generale, penso che la neuroestetica o la neuroscienza dell’arte siano importanti perché l’arte è importante nelle nostre vite. L’esperienza estetica non è molto diversa, per esempio, dall’esperienza della fame, e la neuroscienza deve affrontare questi aspetti basilari della vita. A volte mi chiedo se non sia venuto il momento di sedersi intorno a un tavolo e definire un programma di ricerca per la neuroscienza dell’arte. L’arte ha un’importanza molto più ampia di quanto si pensi, perché il campo tocca il concetto di creatività, innovazione, tecnologia e perfino l’aspetto morale della vita.
Pensa che se la neuroscienza dell’arte avanzasse così tanto da scoprire le regole che collegano gli aspetti formali di un’opera alla stimolazione cerebrale legata alla bellezza gli artisti potrebbero iniziare a sfruttare queste regole per realizzare opere che sono percepite come più belle? Nel specifico, immagino uno scenario che assomiglia all’economia comportamentale, dove i nostri problemi cognitivi vengono scoperti e successivamente sfruttati dai policy-maker per spingere le persone a prendere certe decisioni.
No, non credo. Si pensi al cinema e al regista che conosce tutte le regole per girare un film formalmente corretto. Non penso che un film che segua tutte queste regole sarebbe particolarmente apprezzato o piacevole. Rispettare delle regole formali non porta necessariamente a qualcosa di interessante, e questo vale anche per la ricerca scientifica. Inoltre, il confronto con l’economia comportamentale può essere fuorviante perché i policy-maker sfruttano i problemi cognitivi al fine di innescare una reazione comportamentale predefinita.
Tornando al tuo interesse per l’arte come collezionista, c’è qualche connessione tra questo e il tuo lavoro nelle neuroscienze?
Penso che una connessione ovvia sia che, come collezionista d’arte, analizzo le mie preferenze dopo che queste mi portano a scegliere un’opera piuttosto di un’altra. Vedo ciò che mi è piaciuto e che ho acquistato per vedere se c’è qualcosa che spiega quelle scelte, comprese quelle con cui, dopo un periodo di tempo, non mi trovo più d’accordo. Questo processo è ciò che guida anche il mio lavoro scientifico, dove non so in anticipo quali sono i risultati che sto cercando, e dove il significato arriva dopo i dati degli esperimenti. Inoltre, sia nell’arte che nella scienza è importante rimanere curiosi, perché il contrario della curiosità è la noia. Bisogna sempre tenere gli occhi aperti per qualcosa che sai essere lì, ma che non si vede ancora chiaramente; e per qualcosa che non sai esattamente cosa sia finché non l’hai trovato. La curiosità crea dipendenza. E’ come un fuoco che deve essere alimentato costantemente. Gli scienziati e le persone appassionate di arte non possono fare a meno di chiedersi “se c’è qualcosa dietro quella porta chiusa”. Per quelli come me, che sono scienziati e appassionati di arte, la curiosità in un campo non si estingue rimanendo curiosi nell’altro campo. Inevitabilmente tanta curiosità porta a frustrazione, che ha i suoi lati positivi e negativi.
Pensa che gli scienziati dovrebbero interessarsi di più all’arte, e se sì, perché?
E’ importante che gli scienziati vivano con una certa dose di incertezza, mantenendo una mente aperta. E’ importante che vivano con l’”inaspettato” che l’arte fornisce. Ciò che mi affascina dell’arte è l’ambiguità, che è anche il cuore della ricerca scientifica. In questo senso, gli scienziati dovrebbero sentirsi vicini agli artisti, in quanto sia arte che scienza sono caratterizzati dalla frustrazione di non soddisfare la propria curiosità. Tuttavia, ci sono importanti differenze tra arte e scienza. Gli scienziati hanno alcuni criteri oggettivi che indicano quando i risultati devono essere accettati o respinti. Gli artisti non hanno gli stessi criteri oggettivi per verificare il loro lavoro, e la pratica dell’artista è più difficile di quella dello scienziato in questo senso.
June 22, 2021