Virtù della copia: Mantegna e Bellini a confronto alla Querini Stampalia
Venezia anticipa la mostra sul rapporto tra Mantegna e Bellini che la National Gallery di Londra aprirà in autunno esponendo l’una accanto all’altra le rispettive versioni della Presentazione al tempio.
Che cosa spinge il giovane e già esperto pittore Giovanni Bellini a copiare la composizione del cognato Andrea Mantegna vari anni dopo che questi l’aveva dipinta, forse addirittura vent’anni dopo?
L’opera in questione è una Presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme, argomento già frequentato dagli artisti dell’epoca e certamente trattato, in questo caso, con l’intenzione di creare un’opera destinata alla devozione privata. Nella versione dipinta da Mantegna, attualmente esposta presso la Fondazione Querini Stampalia di Venezia (con allestimento di Mario Botta) e proveniente dalla Gemäldegalerie di Berlino, l’opera è stata eseguita su una sottile tela di lino inchiodata da fronte su tavola. La parte dipinta misura cm. 69×86. Una giovane Madonna porge al Sacerdote il Bambino in fasce. Sullo sfondo e al centro sta Giuseppe, pensoso e anziano, mentre agli estremi della scena Mantegna dipinge un uomo e una donna, più giovani di Giuseppe, che presumibilmente sono l’autoritratto di Mantegna e il ritratto di sua moglie Nicolosia, sorella di Giovanni Bellini, figlia del grande pittore veneziano Jacopo Bellini, padre di Giovanni. Mantegna l’aveva sposata nel 1454.
La copia dipinta da Giovanni Bellini, che appartiene alla Fondazione Querini Stampalia, è stata eseguita su tavola ed è un poco più grande (misura circa cm. 81×105). La maggior superficie ha permesso a Bellini di inserire due ulteriori figure agli estremi, un uomo e una donna. Alla cornice marmorea dipinta simulando un marmo mischio rosa-verde e a marmo rosato, Bellini preferisce un parapetto di breccia verde antica; la sontuosa decorazione a broccato del manto scuro della Madonna di Mantegna viene semplificata e dipinta di un biavo azzurro; altri colori mutano, accordandosi sui toni del rosso.
Le variazioni iconografiche sono poche, e quindi significative. Il ‘copista’ aggiorna il gusto; o, meglio, rilegge l’originale adattandolo alla propria idea di pittura, pure ispirata all’ideale classico recuperato dall’umanesimo, ma meno interessata alla resa scultorea. È più attento invece a catturare la luce e l’atmosfera, stemperando certe petrosità dei visi che rimandano a Donatello e delle pieghe di Mantegna con modulazioni luminose senza spigoli, e più calde. Bellini cerca inoltre un dialogo con l’osservatore, soprattutto nella figura introdotta a destra. Alcuni hanno ipotizzato che anch’essa sia un autoritratto, con il volto tagliente come quello del sodale più arretrato che guarda in tutt’altra direzione, e comunque non verso la scena sacra, creando un senso di inquietudine.
Potrebbe essere diversa anche la funzione dell’opera, di cui purtroppo non conosciamo i committenti. Sappiamo solo che tra i primi proprietari della versione di Mantegna ci fu Pietro Bembo, cardinale e illustre intellettuale. È possibile che il dipinto non fosse legato a una precisa committenza, ma sia stato pensato dal pittore per se stesso o per la propria famiglia, come dono nuziale, ad esempio.
Anche la tecnica d’esecuzione è differente. Mantegna dipinge a tempera su tela: che sia a uovo o a colla, come si disquisisce in catalogo, pare poco importante. Bellini dipinge a olio, forse olio e uovo, su tavola di pioppo. Mutano così la lucentezza del film pittorico e il rapporto con la luce. In questo modo Bellini perde quel gusto antiquario ed elaborato che il pittore padovano amava conferire con la tipica fitta trama di pennellate sottili sopra la tela; ma il dipinto in questo modo acquisisce fluidità.
Mentre le analisi fatte a suo tempo da Giovanni Villa e da chi scrive su queste opere e su numerose altre opere di Bellini e Mantegna mostrarono alcuni ripensamenti nell’opera di quest’ultimo, la tavola dipinta da Bellini ricalca quasi fedelmente le figure centrali del cognato. Si ritiene che Mantegna dipinga la sua opera intorno al 1455, apportando direttamente sulla tela un paio di modifiche importanti, che sono state poi chiarite dai nuovi e più ampi esami svolti in quest’occasione dalla Gemäldegalerie di Berlino. Le modifiche interessano la Madonna, che era in origine collocata più a sinistra e più discosta dal Figlio. Mantegna avvicina poi le due figure, forse per sottolineare l’apprensione di una madre che si trova a dover lasciare la sua fragile creatura nelle mani di un altro uomo, quel sacerdote che con cura allunga le braccia per prendere il neonato ma continua a osservare la donna con uno sguardo austero, quasi accigliato. Un’espressione che infatti Bellini ammorbidisce nella sua versione. Nella primissima idea né le figure ai margini né Giuseppe erano previsti: Mantegna pensava a un più essenziale dialogo a tre tra Nuova e Vecchia testimonianza.
Bellini non lavora sul cartone del cognato, ma ottiene una copia dal dipinto finito, che ricalca in scala 1:1, probabilmente mediante carta oleata semitrasparente. Quindi riporta il tracciato sulla preparazione a gesso della propria tavola. Lo riprende a pennellino, con un inchiostro nero, per poi cancellarne le tracce residue, che infatti non si leggono ai raggi infrarossi. Le riflettografie IR svolte nel 2003 hanno reso evidente la presenza di un segno di contorno di duplice intensità e larghezza che riprende con poche variazioni le pieghe di Mantegna, come ben si vede sotto il volto di Giuseppe. Le indagini mostrano anche un disegno a tratteggio in chiaroscuro, incredibilmente accurato e raffinato, eseguito per costruire volume e ombreggiatura delle figure, ossia gestire luce e ombra interamente prima di metter mano al colore. Per più di due decenni questo è stato un modus operandi tipico di Bellini, che in questo caso ben si adatta a un’opera collocabile tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, ossia tra il polittico dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia e la pala di Pesaro.
Cosa avrà spinto Bellini a riprendere, come del resto fece per altre opere di Mantegna, il dipinto del cognato? Non lo sappiamo, ma lo possiamo intuire. Probabilmente cercava un confronto a distanza, forse anche mosso dalla necessità di fare il punto sul proprio percorso, che negli anni giovanili pure aveva guardato alla fucina padovana. Era un affondo nelle proprie radici e un muovere avanti, verso un’iconografia più essenziale, su fondo scuro, in un formato che poi diventerà uno dei prediletti del veneziano e che più gli permise di indagare l’intensità dei volti, il dialogo degli sguardi e dei gesti. Era una meditazione.
Questa stessa essenzialità ci fa amare oggi la copia eseguita da Bellini forse anche più dell’originale.
Come scrive con intelligenza Caroline Campbell in catalogo: “ora che l’originalità è il requisito che conta di più nel giudicare il valore di un artista, è particolarmente difficile cogliere il legame intrinseco tra imitazione e innovazione”. È il tema del canone, che è stato dell’icona, dell’arte orientale, e che nel Novecento ha investito l’astrattismo, il minimalismo, la pop-art, e la musica jazz. La piccola mostra-confronto della Fondazione Querini Stampalia va vista, perché spinge a riflettere su un nodo decisivo non tanto della storia dell’arte, quanto del fare arte.
June 22, 2021