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La storia dell’arte contemporanea albanese si scrive tra Milano e Varsavia

Stefano Pirovano

Ci sono due mostre in Europa che sebbene accadano in città distanti tra loro sembrano strettamente connesse, quasi fossero l’una la conseguenza dell’altra. Entrambe parlano dell’Albania e dei suoi migliori artisti di oggi.

Il Museo d’arte moderna (Muzeum Sztuki Nowoczesne) di Varsavia sta dedicando un’ampia mostra retrospettiva a Edi Hila, pittore nato a Scutari settantaquattro anni fa. Lo scorso anno Documanta 14 lo ha reso noto al pubblico internazionale. Adam Szymczyk, che pure è di origine polacca, l’aveva esposto all’Odeion di Atene, probabilmente il capitolo meglio riuscito della vituperata ultima edizione della quinquennale di Kassel. Nel frattempo, a Milano, nei giorni di MiArt, uno degli allievi più brillanti di Hila, Adrian Paci, ha curato per la Collezione Giuseppe Iannaccone una mostra collettiva di artisti oggi suoi allievi, presso la sua Art House School di Scutari. Questa linea ideale che unisce Varsavia e Milano descrive passato, presente e futuro dell’arte in Albania, un paese che con Enver Hoxha ha conosciuto uno dei regimi più chiusi e duri dell’ex cortina sovietica, ma che oggi sotto la guida di Edi Rama, primo ministro con un illustre passato artistico alle spalle, aspetta invece di entrare nell’Unione Europea.

Hila è stato uno dei miei insegnanti quando studiavo all’Accademia di Tirana‘ ricorda oggi Paci, che 1997 è immigrato in Italia con la moglie e le due figlie, ma che nel suo paese è ritornato non appena le condizioni lo hanno reso possibile. ‘Hila era un maestro discreto, solitario, a volte persino schivo. Capivi che il regime lo aveva traumatizzato‘. Negli anni Settanta, in ragione del dipinto intitolato La piantagione degli alberi (1972), oggi in mostra a Varsavia, Hila è stato forzato dal regime socialista prima a lavorare in un impianto per la produzione di polli, e poi nella struttura propagandistica dello Stato. Durante questo periodo Hila ha silenziosamente mantenuto il suo rapporto con l’arte disegnando in segreto, e solo per sé stesso. E’ tornato alla pittura solo negli anni Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, quando è stato chiamato a insegnare all’Accademia di Tirana, dove anche l’attuale premier albanese Edi Rama ha insegnato. ‘Erano entrambi miei professori – ci spiega Paci. Rama era positivo, incoraggiante, e ti dava dei modelli perché tu li seguissi. Hila era l’opposto, ma noi allievi nutrivamo per lui grandissima ammirazione. Per noi incarnava la lotta contro la chiusura culturale imposta dalla politica socialista, anche se la sua era una lotta tutta interiore, senza clamori‘.

In effetti, l’opera a causa della quale Hila è stato marginalizzato dal regime di Hoxha non era certo un inno alla ribellione. Nei suoi dipinti di ieri e di oggi c’è piuttosto uno sguardo introspettivo, intimo, incline all’utilizzo di simboli e metafore sottili da cogliere, spesso eleganti, a volte velate di un’amara ironia. Sceglie il soggetto con l’occhio di un fotografo di reportage, ma poi porta l’immagine nel regno della pittura estraendo dal reale il suo significato più alto.

Adrian Paci ha fondato la sua Art House nel 2015, con l’intento di portare a Scutari, nella casa dove è cresciuto, quel mondo dell’arte dal quale per anni l’Albania si è autoesclusa. Qui c’è anche una residenza per artisti (l’Art House School, appunto), dove Paci prova a trasmettere ai giovani talenti albanesi di oggi la sua esperienza di questi anni. Come si diceva, ora dieci di questi talenti sono in mostra alla Collezione Iannaccone.

Secondo Rischa Paterlini, direttrice della Collezione e co-curatrice della mostra, ‘la cosa che più colpisce di questi artisti è quanto siano riusciti a tenersi lontani dal mercato dell’arte e dalle sue logiche‘. Ed è questo un tratto fondamentale del dialogo a distanza tra Milano a Varsavia. Hila ha vissuto per anni nell’impossibilità pratica di avere un mercato, e lo stesso è stato per tutti gli artisti vissuti al di là del muro, fin che il muro c’è stato. Oggi non va trascurato il fatto che nei regimi socialisti e comunisti del secolo scorso non esisteva mercato. L’arte, se non finalizzata alla propaganda, era una pratica del tutto personale ed essenzialmente antitetica al professionismo che invece si è sviluppato nel mondo occidentale. Questo retaggio emerge come principale tratto distintivo delle opere esposte a Milano, proprio mentre MiArt, la fiera d’arte cittadina, ribadisce la ‘tirannia’ strutturale del modello fiera – certo, è stato un successo, ma poi tutti si accorgono che le fiere di oggi impongono limiti molto più stringenti delle accademie di un tempo.

Invece, ricorda Paci, ‘da Hila ho imparato a essere problematico, cioè a guardare sempre le cose da tutti i punti di vista possibili. Mi ha insegnato che il mondo non va mai preso così com’è. Al contrario, va comunque messo in discussione‘. Questo è quello che Paci ora cerca di trasmettere ai suoi allievi di oggi, la nuova generazione. Ed è forse anche quello che meglio permette di leggere tanto i dipinti di Hila (le intense architetture di Tirana specialmente), quanto i lavori di Silva Agostini (che di Hila è figlia), Bora Baboçi, Fatlum Doçi, Lek M Gjeloshi, Jetmir Idrizi, Iva Lulashi, Alket Frashëri, Remijon Pronja, Alketa Ramaj e Stefano Romano. ‘La loro memoria del regime si sta affievolendo – nota Paci -, oggi questi artisti guardano al futuro senza alcuna nostalgia. Io stesso non ho alcuna nostalgia del passato e dei crimini che il regime ha accettato di commettere per mantenersi in vita. D’altra parte, questo non vuol dire che io, come loro, non sia consapevole dei mali che colpiscono la società in cui stiamo vivendo. Nessuno rimpiange il passato, nemmeno i momenti in cui le intenzioni del socialismo erano buone. Ma è pur vero nessuno di noi oggi è entusiasta di dove il capitalismo ci ha portato‘. Come forse direbbe Hila, dubitare aiuta, sempre.

June 22, 2021