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Con JR l’etica dei muri entra in galleria (un’intervista)

Paul Laster

An artist who made it without the help of big art galleries and fairs exhibits at Perrotin in New York. What was out is now in. Will its morality resist to the art market?

Partito ancora adolescente dalle strade di Parigi, nel corso degli ultimi due decenni JR ha raggiunto fama internazionale, lasciando opere pubbliche in giro per mezzo mondo. Ma è solo dopo aver vinto il TED Prize che JR ha iniziato a esporre anche in musei e gallerie. Da quel momento la sua fama di artista socialmente impegnato è cresciuta esponenzialmente. Il suo lavoro ha raggiunto la copertina del New York Times e i celebri (negli States) CBS’ 60 Minutes. L’abbiamo incontrato a New York, in occasione della sua mostra da Perrotin, e abbiamo parlato di confini, immigrazione e di come i social media gli abbiano permesso di portare l’attenzione di milioni di persone verso le cause che più gli stanno a cuore.

Ti consideri un artista autodidatta?

Sì, senza dubbio. Ho scattato le mie prime foto a diciassette anni. Non sapevo nulla del mondo delle gallerie e dei musei. Ma allora non avrei detto di essere un artista e non sapevo nemmeno che essere un artista fosse un lavoro. Ciò nonostante, visto che volevo imparare, mi è venuto naturale diventarlo. Faccio parte di una generazione che ha visto la fotografia trasformarsi da gioco costoso in pratica alla portata di tutti. Credo che se fossi nato 10 anni prima non mi ci sarei mai dedicato. Ne sono convinto perché sono anche parte di una generazione che è stata in grado di condividere da sé il lavoro, senza l’aiuto dei social media – è per questo motivo, dopotutto, che abbiamo portato il lavoro sulle strade. Non avrei mai pensato di pubblicare un libro o bussare alla porta di un gallerista per esporre. Perché avrei dovuto farlo se potevo esporre direttamente sulla strada? È stata questa la mia galleria.

Hai inventato il concetto di ‘Sidewalk Gallery’, o l’hai adattato al lavoro?

Non ci ho pensato finché non l’ho fatto. Scrivere Sidewalk Gallery sul muro era un modo per far sapere alle persone di cosa si trattasse. I graffiti erano visti come atto di vandalismo, quindi volevo essere sicuro che le persone capissero che invece si trattava di una mostra vera e propria.

È qualcosa che continui a fare?

Sì, ma in modo diverso. Il ragazzino che compare ai bordi delle mie immagini è di fatto una specie di Sidewalk Gallery, ma con diverso adattamento. Inizialmente creavo la galleria su edifici in corso di ristrutturazione. Dato che esponevo piccole immagini avevo bisogno di incorniciarle perché fossero visibili. Oggi in ogni posto in cui mi trovo mi adatto all’architettura. La mia prospettiva nel tempo è completamente cambiata. Ora non serve che io scriva nulla vicino al lavoro. Le persone lo capiscono comunque. La strada è democratica. Ma, devo dire, mi suona strano parlare di street art. Non la si chiamava così quando la facevano Basquiat o Haring. Oggi questa definizione è diventata comune. Ma, a pensarci, non chiamiamo l’arte che si espone in galleria ‘arte da galleria’, giusto? È arte e basta.

Nel 2011 hai vinto il prestigioso TED Prize. Cos’è cambiato dopo?

Non è cambiato molto, se non che i TED Talks hanno permesso alla mia visione di raggiungere più persone. Mi hanno permesso di stabilire una connessione. Mi sento di incoraggiare ogni artista, o persona, che intenda condividere la sua esperienza in questo modo. Per quanto mi riguarda, grazie a TED ho avuto l’opportunità di capire come ogni mio progetto fosse in realtà connesso agli altri e come questo non fosse altro che il mio percorso verso la comprensione di cosa voglia dire, per me, essere un artista, condividere immagini, confrontarmi con contesti differenti. I milioni di persone che hanno visto il mio TED Talk ora mi dicono ‘conosco il tuo lavoro!’. E sanno cosa significa. Prima mi dicevano ‘certo, fai fotografia in bianco e nero’. Ma senza saper nulla di cosa ci stava intorno.

Con TED Prize hai creato il progetto Inside Out. Di cosa si tratta e come sta evolvendo?

Quando vinci il TED Prize devi creare un progetto. Il mio è stato Inside Out, e ci ho investito tutti i soldi messi a disposizione da TED. L’idea di fondo è che chiunque voglia esprimersi può mandarmi un suo ritratto così che io possa stamparlo, gratuitamente, e rispedirglielo in dimensione gigante, in qualunque parte del mondo si trovi. A quel punto la persona può condividere la sua immagine con le persone della comunità in cui vive, per esprimere qualsiasi cosa si senta di difendere. Nel 2011, quando ho iniziato, era il tempo della primavera araba. Ho ricevuto centinaia di ritratti dalla Tunisia, e ho mandato le immagini ingigantite. Le persone rimpiazzavano le immagini ufficiali dei dittatori con le proprie. Nello stesso momento c’era una scuola a Brooklyn che, nel proprio cortile, esponeva immagini di bambini di tutto il mondo, per mostrare come tutti questi bambini avessero visi bellissimi. La stessa tecnica è stata usata in diversi contesti in molte parti del mondo. Fino ad oggi il mio studio ha mandato più di 380.000 poster in 130 paesi. Il progetto continua con la stessa tecnica, le stesse regole – per esempio, non si possono aggiungere messaggi all’immagine. Esprime cose diverse a seconda del luogo. In Afghanistan e in Corea del Nord un ritratto esprime valori molto diversi.

Come hai sviluppato sensibilità per i temi sociali?

In realtà non credo di aver sviluppato nulla. Piuttosto, questo tipo di sensibilità è stata sempre dentro me; e forse anche perché non credo di aver mai avuto una personalità politica. Quello che mostro nelle strade è politico in sé. Ma per la mia generazione essere politici significa soprattutto stare da una certa parte: a destra o a sinistra; perciò sono stato spesso mal interpretato. Come ho detto, il fatto stesso di voler stare sui muri in strada è politico. Ma il contesto può rendere il gesto ancor più politico di quanto già non sia. All’inizio lavoravo nei sobborghi di Parigi, e quando hanno cominciato a scoppiare le rivolte ho cominciato a capire che l’immagine di un amico che tiene in mano una video camera come fosse un’arma può assumere significati diversi. In quel momento i media stavano ritraendo le rivolte per la televisione, e ne capii l’ambiguità. In quel contesto credo di aver capito il mio ruolo di artista. Dovevo avere una posizione, e la presi.

Credi che l’arte che si fa in strada sia socialmente più impegnata di quella che si vede nelle gallerie?

Non lo penso perché, come ho detto, non credo ci sia differenza. È tutta arte. L’arte riflette su di noi, e tra di noi. Qualcuno decide di riflettere cose più personali, altri decidono di esprimere concetti astratti, che magari possono rivelare qualcosa dentro di sé, ma non dentro l’altro. Quel che faccio è visuale. È fotografia, che può raggiungere molte persone; ma non per questo credo che la fotografia sia un medium più politico d altri.

Cosa mostri da Perrotin, in quella che fino a ora è la tua più importante mostra a New York?

Ho voluto concentrarmi sull’idea di confine. In particolare, faccio riferimento a un progetto che ho sviluppato qualche mese fa al confine tra Stati Uniti e Messico. Attraverso queste storie parlo di come le persone desiderino ovunque le stesse cose. Lo faccio attraverso prove viventi e prove visive. Non sono solo parole. Sono anche azioni, come credo sia sempre accaduto nel mio lavoro. È un fatto che discutiamo di una cosa quando la vediamo accadere. Questo genera più domande che risposte. E capita, per esempio, ci si cominci a chiedere come una certa cosa sia mai potuta avvenire.

I modelli che trai dai tuoi lavori ricordano quelli di Christo. È vero che, come Christo, anche tu finanzi in prima persona i tuoi progetti?

Il mio lavoro è effimero, questo è un modo per renderlo più permanente. Christo è in effetti l’unico artista al quale riesco a pensare come modello. Sono stato con lui in occasione di The Floating Piers, l’installazione che ha eseguito sul Lago d’Iseo, in Italia. È stato straordinario. Mi ha portato a pensare più in grande, perché è possibile farlo. In questo momento, quando la maggior parte delle mostre sono finanziate dai brand e molti artisti di fatto lavorano con le corporations, mi da speranza guardare a qualcuno come Christo, che ancora riesce a mantenersi indipendente e coerente con sé stesso. Nemmeno io ho mai abbandonato la mia linea e non intendo farlo in futuro.

Eppure anche tu hai all’attivo alcune collaborazioni importanti, come quelle con Arcade Fire o Pharrell Williams, è corretto?

Collaboro con gli artisti, certo. Lo faccio da sempre.

Molti ‘street artists’ o ‘graffiti artists’ hanno iniziato eseguendo una propria firma, o segno distintivo. Nel tuo caso questo segno sono gli occhi?

Non ho mai pensato gli occhi in questi termini anche perché la mia firma è JR. Ma credo che poi gli occhi siano andati da soli in quella direzione. Ovvio, non sono stato io a inventare la fotografia in bianco e nero o il primo ad applicare immagini fotografiche ai muri. Ma avendo continuato a mettere occhi ovunque poi le persone hanno cominciato a riconoscermi per questo elemento, anche senza che io usassi una firma vera e propria. Nei paesi dove non sono conosciuto, infatti, le persone che vedono le mie immagini non ricollegano l’opera a un preciso autore. Si limitano a prendere le cose per quello che sono.

Come i grandi occhi che hai attaccato al tetto dell’edificio che si vede dal Whitney Museum?

Esattamente. Quelli sono gli occhi di qualcuno che negli Stati Uniti non ce l’ha fatta. È una delle rare foto che abbiamo fatto, ma che non abbiamo rispedito all’autore. Al contrario, abbiamo portato i suoi occhi a New York.

Cosa cerchi in un luogo?

Cerco le persone. Vado nei posti senza particolari aspettative e parlo con le persone, cercando di capire il contesto. Poi penso a qualcosa che potrei fare con loro. Ho fatto così, per esempio, nel caso del film Faces Places. Siamo andati in una cittadina, siamo rimasti qualche giorno, abbiamo trovato un muro, abbiamo parlato con le persone per capire cosa volevamo condividere con loro, e abbiamo lavorato così da riflettere la loro storia. Ho fatto la stessa cosa, ma su scala maggiore , in altri posti, in città più grandi. Ma nel caso di Faces Places Agnes Varda, con la quale ho collaborato, voleva portarmi in piccole cittadine, e così è stato.

Tuttavia, devi essere sempre in grado trovare il posto migliore, ovvero quello con le caratteristiche più adatte, è corretto?

Certo. Alcuni lavori, per esempio, sono pensati perché si possano vedere anche a grande distanza. Ma non è sempre così. Ad Ellis Island l’opera è di fatto invisibile. In seguito alle richieste delle persone le autorità locali per un certo periodo hanno deciso di aprire più spesso l’isola al pubblico. Oggi solo un numero limitato di persone possono accedere al lavoro. Ma una volta che lo vedi non te ne scordi più.

Come usi i social media? Puoi considerarli un’estensione del tuo lavoro?

Postavo una foto al giorno sul mio sito web già prima che i social si diffondessero. Ma quando sono arrivati ero un po’ in ritardo, devo ammettere. Poi ho recuperato alla svelta. Ho iniziato usandoli per condividere il luogo del mio intervento e per mostrare il processo. Come nel caso dell’installazione del bimbo Kikito, al confine tra USA e Messico. In questo caso avevo bisogno di condividere il luogo in modo che le persone potessero raggiungerlo. Senza i social, in questo caso, sarebbe stato molto difficile condividere rapidamente l’informazione.

Ci dici di Kikito? Cosa ti ha spinto a intervenire sul confine tra USA e Messico?

L’anno scorso ho eseguito un lavoro a Rio de Janeiro con una tecnica che ho scoperto nella Corea del Nord, dove sono bravissimi con i ponteggi. Li ho visti e ho pensato che non avrei più dovuto dipendere dai muri. Quindi, quando la televisione ha cominciato a parlare ogni giorno del confine tra Stati Uniti e Messico, ho pensato che avrei potuto fare qualcosa usando un ponteggio, nonostante non fosse possibile intervenire direttamente sul muro. Così abbiamo individuato un luogo dalla parte messicana, e una strada per raggiungerlo. Il punto era ovviamente visibile anche dagli Stati Uniti. Poi sono andato a bussare alle porte delle case lì intorno, e una signora, con mia sorpresa, mi ha detto che mi seguiva su Facebook. Per tutto il tempo che abbiamo parlato c’era un piccolo bimbo che mi guardava. La casa era vicino al confine, e ho cominciato a pensare a quel bambino che guadava al confine ogni giorno. Mi sono chiesto cosa quel confine potesse significare per lui. Qualche tempo dopo sono tornato per fotografare il bimbo. Abbiamo chiesto a sua madre il permesso di usare il suo ritratto. Poi abbiamo affittato un bulldozer per spianare il terreno – c’è voluto un mese – e abbiamo costruito un ponteggio tre volte più alto del muro. Nessuno ha detto nulla, così abbiamo applicato l’immagine di Kikito. L’immagine del lavoro che ho postato su Instagram è diventata immediatamente virale.

Perché hai scelto di metterci anche il picnic? Qual è la ragione dei due occhi che connettono i due lati del confine?

Come per ogni mostra d’arte che si rispetti serviva un finissage. Allora siamo tornati sul sito e abbiamo costruito un tavolo per la parte messicana con l’intenzione di costruirne uno anche per il lato statunitense. Ma la polizia di confine USA ci ha negato il permesso dicendo che ci avrebbero arrestati tutti e avrebbero deportato chiunque non fosse legalmente negli Stati Uniti. Allora abbiamo fatto delle tovaglie con due occhi giganti, una per parte, e le abbiamo stese sul confine dando cibo e bevande dal territorio messicano attraverso il muro. C’era anche una band, i cui elementi suonavano per metà in Messico e per l’altra metà negli USA. Dopo un paio d’ore è passata una guardia, che sorprendentemente ha accettato di condividere con me una tazza di thè, senza por fine alla festa.

Di chi sono gli occhi sulle tovaglie?

Erano gli occhi di una ‘sognatrice’ (ovvero la figlia di un immigrante che ha beneficiato del Deferred Action for Childhood Arrivals, ndt) L’avevamo fotografata pochi giorni prima del picnic, al quale ha partecipato con la madre, anche se erano in pericolo di essere messi in prigione e deportati.

La monografia su di te pubblicata da Phaidon nel 2015 si intitola Can Art Change the World? Quale risposta dai a questa domanda?

Credo che possiamo cambiare la percezione che abbiamo del mondo. Ma nel momento in cui cambi il modo in cui vedi le cose, allora anche il mondo può cambiare. Cambiamo le idee che abbiamo mettendole in discussione. Facendo domande, forziamo i confini.

June 22, 2021