Walter Swennen, da WIELS alla Triennale (in libertà)
Ultimi giorni per visitare la personale di Walter Swennen alla Triennale di Milano. Riuscirà la mostra a trasformare un genio locale ormai ultra settantenne in un maestro della contemporaneità?
- Walter Swennen, Too many words, 2017.Oil on canvas,19 3/4 x 23 3/4 inches (50 x 60 cm). Copyright Walter Swennen. Courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York and Brussels.
- Walter Swennen, The Black House, 2017. Oil on canvas, 47 1/4 x 39 1/2 x 3/4 inches (120 x 99.8 x 1.8 cm). Copyright Walter Swennen. Courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York and Brussels.
Quasi sconosciuto in Italia, il pittore belga Walter Swennen è in mostra alla Triennale di Milano fino al 26 agosto. Così come è accaduto nel caso dei suoi compatrioti Gruyter & Thys, che rappresenteranno il Belgio alla prossima Biennale di Venezia e che lo scorso anno sono stati esposti per la prima volta in Itala dall’istituzione milanese, anche questa volta la Triennale si è interessata a qualcuno già molto noto in Belgio.
Il responsabile di questo trend è Edoardo Bonaspetti, che ha curato la mostra di Swennen e che era direttore artistico per l’arte contemporanea della Triennale durante quella di Gruyter & Thys. Qualche giorno fa abbiamo raggiunto Bonaspetti riguardo a Swennen, e a come la sua arte possa essere percepita in Italia. E la prima cosa che abbiamo saputo è che Bonaspetti ha conosciuto l’artista grazie alla retrospettiva che il centro WIELS di Brussels gli ha dedicato nel 2013, ovvero la mostra che ha trasformato Swennen in un beniamino, in Belgio, di critici, pubblico e mercato.
Bonaspetti ci ha inoltre detto che nonostante la pittura sia normalmente un medium di facile accesso per il pubblico, e sia questo anche il medium preferito da Swennen, il fatto che l’artista fosse del tutto nuovo al pubblico italiano è stato per lui fonte di preoccupazione. Ma non senza un po’ di sorpresa, questa preoccupazione è svanita nel momento in cui ci si è accorti che la risposta del pubblico milanese e dei collezionisti stava andando ben oltre le aspettative.
Nonostante ancora poco sia stato scritto riguardo ai modi in cui le opere di Swennen si riferiscono alla filosofia europea, alla tradizione della poesia concreta, o a quella dell’arte concettuale, crediamo che il successo dei suoi dipinti sia piuttosto da ascrivere a quando anarchici e incuranti di teoria o tradizione essi possano apparire. A questo proposito, le opere di Swennen ci paiono oggetti esteticamente piacevoli, tali proprio a causa del loro totale disinteresse verso una narrativa che possa racchiuderli, o gonfiarli di significato. Se molta arte di oggi ha una propria agenda (più o meno fitta) – per esempio, in termini di impegno sociale, intellettuale, o storico – i dipinti di Sweenen ci colpiscono proprio per la totale assenza di un programma razionale. E in qualche modo il lato più attraente della mostra deriva proprio dall’approccio quasi-punk di questo giovane artista ormai ultra settantenne.
Il disinteresse di Sweenen per i formati fissi o i dipinti in serie è un esempio dell’atteggiamento di cui diciamo. In una recente intervista concessa in occasione della sua prima personale da Xavier Hufkens a Bruxelles, l’artista sembra motivare il suo rifiuto delle costrizioni formali attraverso una reazione ‘all’influenza perversa che la fotografia ha avuto sulla pittura’, che per lui è appunto responsabile delle formule fisse e della pittura in serie. Ma se a questo punto uno potrebbe essere incline a vedere Swennen come un pittore che semplicemente si gode la propria libertà, nella medesima intervista egli si mostra riluttante a parlar di libertà, e piuttosto dice che ci sono sempre forme di costrizione dipendenti dal materiale, o dalle decisioni che l’artista prende durante l’esecuzione dell’opera. Ovviamente, nulla possiamo dire riguardo all’esperienza soggettiva dell’artista nel suo studio. Tuttavia, come spettatori, possiamo almeno ribadire che è proprio la libertà ciò che di più godibile c’è nei suoi dipinti, e non possiamo che convenire con Damien De Lepeleire quando dice che ogni dipinto di Swennen è un’avventura in sé.
Osservando, di Swennen, la pratica disordinata, abbiamo anche cominciato a interrogarci riguardo al compito non facile di ‘curare’ una sua mostra. E abbiamo posto l’interrogativo a Bonaspetti, la cui risposta ha insistito su come un allestimento possa contribuire al sentimento di ogni singolo dipinto: ‘la mostra cerca di riflettere questa ricchezza di relazioni, composizioni, decomposizioni, e apparente incoerenza delle opere’.
Tornado, più in generale, alla pittura di Swennen, Bonaspetti dice: ‘Oltre l’apparente semplicità di alcuni dipinti, un’attenta osservazione rivela i loro riferimenti alla storia dell’arte e la loro grande capacità espressiva’. Secondo Bonaspetti ‘le opere di Swennen sono arditamente libere e parlano della dimensione dell’inconscio e del nonsense’. Questa lettura più concettuale e teoretica è certo interessante e meriterebbe più spazio di quello che che può offrire questo articolo. Tuttavia, ci sentiamo di raccomandare ‘La pittura farà da sé’ (questo il titolo) non tanto per il suo possibile contributo a un certo discorso intellettuale, o a una precisa tradizione storica. Ma piuttosto nella speranza che il lettore che ancora non l’avesse visitata possa partecipare al suo senso di libertà.
Come lo psicologo Daniel Kahnemann ha dimostrato, le nostre menti tendono a cercare, e quindi a trovare, spiegazioni razionali anche dove non c’è nulla di razionale. In questo senso abbiamo preso la mostra di Swennen come un invito a liberarci da questa inclinazione cognitiva, evitando perciò di esagerare il senso filosofico o intellettuale del suo lavoro; si è rivelata essere una salutare esperienza estetica. Dopotutto è vero che, come pure dice l’artista nel suo libro dal titolo Ne quid nimis, ‘il mondo non ha senso’.
Come appendice a questo articolo includiamo le parole che Swennen ci a mandato in risposta ad alcune nostre domande riguardo al suo lavoro. Gli abbiamo chiesto della differenza tra disegno e pittura, e di come la percezione di un’opera cambia nel momento in cui se ne parla. Il tono poetico delle sue risposte non lascia spazio ad alcun adattamento, o traduzione. Preferiamo quindi riportare il testo per intero nella sua versione originale.
Le tableau est un ring de boxe héraclitéenne, fréquenté par des couples d’éternels champions, la couleur et le dessin, la ligne et la tache, le bord et la limite, la peinture et l’image… L’image étant toujours convertible en discours, elle est du domaine où règne le langage. La peinture ne dit rien, elle est de l’inexprimable. “Langage de la peinture” est une licence poético-littéraire: seules les images parlent.
Sur le ring ces grands boxeurs vont au contact, créant une zone de turbulences et d’instabilités extrêmes. C’est le contact qui oriente le match. C’est un procès où toutes choses, pensées, gestes, matières, bouts de phrases, bouts d’images sont inextricablement liées à d’autres choses elles-mêmes en constante modification, avec effets de retour, ruptures, reprises; c’est une aventure chaotique et hasardée, où le langage se trouve lui-même déchiqueté en choses du procès. C’est un travail souvent long, interrompu et repris, qui occupe la totalité du présent, ce qui fait qu’il n’est pas racontable. Mais c’est cela qui fait que le tableau est ce qu’il est. La peinture est un arrangement avec le chaos, sur quoi le langage, qui sépare et ordonne (et donc juge) désespère d’avoir prise.
Donc je dis que j’ai l’impression de mentir. Je ne dis pas que je raconte des mensonges, ce serait idiot. Je dis simplement que la peinture, quand on en parle, on en est sorti. En faire le récit est une fabrication mentale qui ne peut trouver appui que sur ce qui dans le tableau n’est pas de l’inexprimable, dans l’oubli du procès. Je dis donc que j’ai l’impression de mentir, que la vérité toujours échappe.
Mais nous sommes tous des êtres parlants, ce qui fait de nous à priori des interprètes compulsifs, faisant symbole de tout. Et moi aussi je parle.
June 22, 2021