Srijon Chowdhury, un oscuro ottimismo
Per Srijon Chowdhury la pittura è un luogo di consapevolezza, dove la luce vince le tenebre e i simboli sono un modo per guardare verso il futuro.
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Abbiamo visto per la prima volte i dipinti di Srijon Chowdhury dal vivo qualche settimana fa, nella galleria di Antoine Levi a Parigi e abbiamo avuto la conferma che gli schermi di computer e smartphone non sono fonti attendibili, non possono sostituire l’esperienza diretta. Il manto pittorico che riveste i quadri di Srijon Chowdhury non è compatto, né lucido. Al contrario, tende a rerefarsi e vibra di mille finissime increspature che in certi casi donano alla superficie riflessi simili a quelli della seta, oppure imprigionano la luce rendendo l’impasto cromatico straordinariamente denso. I colori sono serici, piuttosto che saturi. Di fronte alle opere ti rendi subito conto che Chowdhury è tecnicamente raffinato quanto lo è nella costruzione delle soggetto, ma in un modo molto diverso da quello che i pixel lascerebbero intendere.
Autobiografia indiretta.
Facciamo qualche passo indietro. Srijon Chowdhury è entrato in contatto con l’arte sin da piccolo, a Dahka, dove è rimasto fino a 11 anni – poi la famiglia si è trasferita nel Minnesota, paese natale della madre, Colleen Crompton. Il padre, che come Srijon è invece nato in Bangladesh, ha per alcuni anni avuto una galleria d’arte contemporanea, intitolata La Gallerie, che ha trattato sopratutto artisti locali. Akku Chowdhury ha anche collezionato. Sopratutto reperti architettonici e scultura tradizionale del suo paese. Ma, sopratutto, è stato tra i fondatori del Liberation War Museum di Dhaka, che ha aperto i battenti nel 1996 per conservare la memoria delle lotte che il Bangladesh ha dovuto sostenere per emanciparsi dal regime imposto dall’Inghilterra, e poi per liberarsi dall’egemonia pakistana, superata solo con la breve ma sanguinosa guerra di liberazione del 1971. Mr. Chowdhury ha diretto il museo dal 1996 al 2002 incardinandone l’attività su principi primi come il valore della libertà e la condanna di ogni crimine commesso in nome della religione, dell’etnia, o della sovranità. In quella guerra sanguinosa, vinta dai partigiani bengalesi solo grazie l’intervento dell’esercito indiano, Akku Chowdhury ha combattuto, prima che il figlio nascesse. Le tenebre che a volte compaiono nei quadri di Srijon Chowdhury, e quel primitivo senso di minaccia che si può talvolta avvertire nelle ombre di profondissimo blu, vengono probabilmente da qui. E da qui viene anche l’amore per la vita: «essere al mondo – ricorda Chowdhury a un certo del nostro incontro – è di per sé una cosa straordinaria».
Dal Bangladesh agli States.
L’artista, che oggi ha trentadue anni e vive a Portland (Oregon), non ha preso seriamente la pittura almeno fino al momento in cui è andato al College, negli Stati Uniti. «Ho iniziato a capire che sarei stato un artista in quel periodo. Mi sono concentrato sulla pittura perché mi interessava la sua capacità di essere diretta; più diretta, ai miei occhi, di scultura o fotografia » dice.
C’è un vecchio pollaio nel terreno della casa dove Chowdhury oggi vive con la sua famiglia (la compagna e tre bambini). Qui, nel pollaio, si organizzano mostre d’arte, non senza una sana dose di ironia. « Per me questo è soprattutto un modo per mantenermi in contatto con il mondo fuori da Portland, visto che qui la scena artistica è piuttosto limitata. È un modo per portare dove vivo l’arte che voglio vedere e con la qualche mi interessa avere un rapporto ». L’artista descrive Portland come una città incantevole, ricca di verde e di natura rigogliosa. « Negli ultimi due anni ho lavorato part-time in un giardino botanico, che sta a cinque minuti di strada da casa mia. C’è abbondanza di bellezza naturale, e una tranquilla lentezza. Tutto è vicino. È un po’ come vivere su un’isola ».
Questa sorta di ‘insularità’, come Chowdhury la definisce, da origine a scene istintivamente banali, popolate da oggetti semplici, dove non capita gran che. « È Portland a darmi questo spazio di pensiero, che credo riverberi nei dipinti ». L’ambiente, poi, si proietta nel linguaggio pittorico, superando così i confini sociali, geografici e temporali. Lavorare all’interno di una tradizione – la pittura in questo caso – vuol anche dire non aver paura di essere compresi. « Guardare è semplice, e io mi guardo intorno. Ultimamente mi interessa la pittura manierista italiana, ma anche al simbolismo francese di Odilon Redon e Gustave Moreau. Guardo a Grant Wood e alla pittura americana degli anni Trenta. Guardo anche a Otto Dix, che lavora in maniera molto simile a Grant Wood ».
La tecnica.
Per quanto sofisticato possa apparire il risultato, il processo pittorico attraverso cui Chowdhury arriva all’immagine è piuttosto semplice. Non c’è disegno preparatorio sulla tela, sulla quale l’artista preferisce intervenire direttamente con il colore – ecco l’immediatezza di cui parlava all’inizio. Invece, prima dipingere Chowdhury fa degli schizzi, ai quali affianca immagini fotografiche che lui stesso scatta, libri, il proprio computer, o lo smartphone. Tutto sta intorno al cavalletto, mentre il dipinto prende forma. A volte tutto avviene in una sola seduta. Ma sempre più spesso, sopratutto dallo scorso anno, Chowdhury cerca di lavorare su strati differenti, è quindi i tempi di composizione diventano molto lunghi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’artista dice di aver iniziato solo di recente a sentirsi a proprio agio nei piccoli formati (mentre prima dipingeva soprattutto tele di grandi dimensioni).
Simboli che guardano al futuro.
Certa pittura è fatta per rappresentare idee, fatti, o persone già esistenti. Altro è dipingere volendo essere un punto di partenza per il pensiero. I simboli, a questo riguardo, posso essere strumenti molto efficaci, non già per rappresentare tematiche, ma per pensare al futuro. « Cerco di pensare la mia pittura in termini simbolisti, riguardo ai cambiamenti climatici, per esempio, o alle calamità che da questi potrebbero derivare. Credo che il senso di ansia che questi pensieri generano sia qualcosa a cui la mia pittura tende ». Già, come sarà il futuro? La risposta, secondo Chowdhury, va cercata nella quotidianità di certi oggetti, o nei dipinti della serie ‘Mondo in fiamme’. Il futuro vive nell’immaginazione dell’ordinario, « ma lo spazio per la speranza sembra diventi più piccolo ogni giorno che passa ». Nei quadri di Chowdhury spesso questa speranza è affidata alla luce, che emerge dalle tenebre, definendo le superfici, rivelando le forme, accarezzando i personaggi. Ma la luce per l’artista è anche bellezza, ovvero qualcosa che, ci dice, egli cerca di mettere in ogni dipinto. « Cerco la bellezza oggettiva. Anche nel buio, e nella paura, può esserci bellezza, e la speranza che da essa viene. C’è bellezza ovunque, e in ogni momento, e questo ti ricorda quanto sia bello essere vivi ». Le immagini di Chowdhury sono dunque pensate per sedurre il nostro sguardo, ipnotizzandoci (si pensi alle sue candele spente), con forme, e soprattutto colori. E a questo punto va forse precisato che non ci sono precise ragioni autobiografiche dietro alle tenebre, se non quelle ‘indirette’ che abbiamo menzionato all’inizio. « Fin ora ho avuto una vita piuttosto felice » confessa l’artista. E certamente sta parlando di quella forma di felicità che solo l’intelligenza è capace di produrre.
June 22, 2021