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Isabella d’Este, un’intervista

Stefano Pirovano

Come tutti i grandi collezionisti, anche Isabella d’Este si è dedicata soprattutto agli artisti a lei contemporanei, senza perciò trascurare l’antichità e i suoi maestri.

Isabella d’Este è stata la più importante collezionista d’arte italiana della sua epoca, e l’unica, tra le donne, ad aver avuto a disposizione risorse adeguate, in termini sia economici sia culturali. Isabella d’Este disegnava da sé i propri abiti, componeva profumi, danzava, suonava il liuto. Ma era anche stata avviata allo studio del greco, del latino, dell’astronomia, materie di solito riservate ai dotti. Da qui sviluppò una straordinaria sensibilità per l’arte antica, che tuttavia non le impedì di amare e supportare l’arte a lei contemporanea. Così definì la propria personalità, una personalità che grazie alle arti – e all’enorme corpus di lettere di corrispondenza che Isabella d’Este ha lasciato – è rimasta nei secoli straordinariamente vivida. Ecco perché, per scrivere di lei, abbiamo preferito provare a immaginare la sua voce.

Gli storici considerano Isabella d’Este la collezionista più importante del Rinascimento, unica in un mondo dominato da figure maschili. Da dove nasce la sua passione per l’arte?

Isabella d’Este: La mia famiglia, a Ferrara, è sempre stata vicina a musicisti e architetti, come Johannes Martini o Biagio Rossetti, che molto ha lavorato per mio padre Ercole, e che per mio zio Sigismondo ha progettato il Palazzo dei Diamanti. Ma credo sia stata mia madre Eleonora d’Aragona ad aver giocato un ruolo fondamentale. È stata lei a scegliere i miei precettori. Tra questi ci sono stati Jacopo Gallino e Battista Guarini, uno dei molti figli dell’umanista Guarino Veronese, tra i pochi, a quel tempo, a conoscere il greco. Se oltre alla musica, all’eloquenza e alla danza ho potuto conoscere e approfondire la cultura greca e quella latina lo devo a lei, e a loro. Credo quindi che la sorte mi abbia offerto opportunità straordinarie. Si è trattato solo di saperle coglierle.

Ferrara

Palazzo dei Diamanti, entrata principale, Ferrara, 2019. Ph. Stefano Pirovano.

Sul piano politico, poche donne hanno avuto un ruolo pari al suo.

Isabella d’Este: Mio marito è stato un condottiero, e a Mantova ci stava poco. Ho dovuto governare in sua vece quando, nell’autunno del 1509, è stato catturato dal Malanchino [Girolamo Pompei, ndr.] e poi condotto nelle carceri veneziane. Ho avuto la responsabilità di scelte importanti per il nostro Stato. E quando Francesco è stato ucciso dalla sifilide, ho regnato in vece di mio figlio, ancora troppo piccolo per reggere le sorti di Mantova in uno scenario così tormentato come quello in cui abbiamo vissuto. Venezia, Milano, Firenze, Roma. Lo scacchiere delle forze in campo lasciava ben pochi margini di errore.

Ha collezionato per sé stessa o per la corte di Mantova?

Isabella d’Este: Sono stata una figura pubblica, e non posso negare di aver cercato, a mio modo, di affermarmi. Quando mi sono traferita a Mantova, i Gonzaga erano già committenti di un artista eccezionale come Andrea Mantegna, che allora stava lavorando alla serie dei 9, anzi 10, trionfi di Cesare, dipinti per celebrare le gesta di mio marito. Sentivo quindi una grande responsabilità. Mi disegnavo gli abiti, mi piaceva creare profumi ed essenze. Insomma, sentivo di dover dare il mio contributo (qui il link al nostro scritto sulla fondamentale mostra dedicata dalla National Gallery di Londra al rapporto tra Andrea Mantegna e Giovanni Bellini). Lo studiolo e la grotta, a cui tante energie ho dedicato, potrebbero essere viste come un modo per pormi all’altezza degli uomini. Lo stesso vale per i molti ritratti che ho commissionato. Ma non credo di aver agito solo per compiacere il mio ego. Per un lungo periodo Isabella d’Este ha rappresentato la corte di Mantova. La capacità di attrarre talenti come Perugino, Raffaello o Leonardo da Vinci dipendeva anche dalla mia reputazione come mecenate. Mi trovavo in un mondo in cui spesso il potere economico e quello mediatico erano nelle mani di uomini senza troppi scrupoli. E ricordo ancora quando Francesco disse “Abbiamo vergogna di avere per nostra sorte una moglie che vuol sempre fare di suo cervello… ”. Ovvio, l’ho preso come un complimento.

Ha chiesto un ritratto anche a Leonardo.

Isabella d’Este: Esatto. Ma non sono riuscita ad averlo. L’artista ne ha fatto un disegno, ma poi ha passato il cartone a un suo allievo, che probabilmente non è riuscito a eseguire un dipinto all’altezza delle aspettative del maestro.

Ci racconta, dunque, il suo studiolo?

Isabella d’Este: Mi aveva sempre affascinato lo Studiolo del castello di Belfiore, voluto da mio zio Lionello d’Este, e sapevo dello studiolo del Duca di Urbino. Così, appena mi sono trasferita a Mantova, ho pensato di creare qualcosa di simile. Avevo bisogno di un luogo raccolto, dove scrivere e studiare. Tessevo intorno a me un dialogo tra la classicità, che tanto amavo, e artisti del mio tempo come Andrea Mantegna, Perugino, Lorenzo Costa, o Giovanni Bellini. Le loro opere dovevano rappresentare il mio mondo ideale, il migliore possibile. A Mantegna ho chiesto di dipingere il Parnaso e Minerva che caccia i vizi dal giardino delle virtù; a Perugino ho affidato il conflitto tra Amore e Castità; a Costa ho chiesto di dipingermi nel mondo di Armonia. Sotto allo studiolo c’era un secondo ambiente con volta a botte in cui tenevo i pochi reperti antichi che ero faticosamente riuscita a raccogliere.

Andrea Mantegna, The Parnassus, 1496-1497. Detail.

From the studiolo of Isabelle d'Este

Andrea Mantegna, Parnaso, 1496-1497. Courtesy of Louvre Museum, Paris.

E Giovanni Bellini?

Isabella d’Este: Alla fine Bellini ha declinato il mio invito dicendo che avevo richieste troppo specifiche. Forse questo era il limite del mio programma, ma è pur vero che chiedendo di lavorare su formati simili, con la stessa direzione della luce, e con figure della stessa altezza, ottenevo qualcosa di unico e irripetibile. Questa stessa ricerca di omogeneità è anche stata causa della mia non completa soddisfazione riguardo all’opera di Perugino, che avrei preferito a olio invece che a tempera.

Riguardo alle teste di alabastro rubate dal Palazzo Bentivoglio di Bologna, e da lei comunque acquistate, cosa risponde a chi considera troppo spregiudicato il suo comportamento?

Isabella d’Este: Dico che, come avrebbe poi notato Bruce Chatwin cinque secoli dopo, purtroppo guerre e calamità naturali sono per i collezionisti le migliori opportunità. Se non avessi comprato io quelle teste l’avrebbe certo fatto qualcun altro, magari una corte avversa, e magari non così interessata agli antichi. Lo stesso vale per il busto di Faustina che ho comprato da Mantegna, nonostante la sua strenua resistenza. Dopotutto, mi son detta, meglio a Mantova che altrove. (Qui il link alla nostra analisi di Utz, di Bruce Chatwin, il fondamentale romanzo cui si fa riferimento).

Nemmeno ha restituito a Urbino il cupido di Michelangelo quando i Montefeltro hanno riconquistato il ducato.

Isabella d’Este: Esatto. L’avevo avuto da Cesare Borgia, che aveva spodestato i Montefeltro. Non c’era ragione di restituirlo. Oltretutto possedevo già una statua di simile soggetto, attribuita a Prassitele. Il dialogo tra le due versioni era la quintessenza della mia visione, che mi sembra di capire è anche la vostra, giusto?

Corretto. Ha rimpianti?

Isabella d’Este: Sì, uno. Aver preferito Perugino a Botticelli.

Ritratto di Isabella d'Este

Leonardo da Vinci, Ritratto di Isabella d’Este, 1499-1500. Paris, Musée du Louvre, dép. des Arts graphiques, MI 753 © RMN.

June 22, 2021