Sophie Varin legge Thomas Pynchon
Per questo At The Show With The Artist, Sophie Varin ci parla de “L’incanto del lotto 49” di Thomas Pynchon in relazione alle sue miniature contemporanee.
Nell’Europa medievale le miniature erano illustrazioni che decoravano libri e codici per lo più di natura religiosa. Spesso rappresentavano scene di vita quotidiana e gente comune. Questi piccoli spazi dipinti oggi potrebbero essere visti come tracce della personalità dei copisti. Potrebbero dirci ciò che pensavano mentre copiavano le scritture canoniche. Nel caso in cui esistesse una prospettiva individuale nella mente del copista, ovvero la possibilità di una lettura artistica contemporanea, le miniature l’avrebbero illuminata, un po’ come una finestra illuminerebbe una stanza buia. I piccoli dipinti di Sophie Varin – le sue miniature – sono riflessi simili, che pure illuminano qualcosa che altrimenti nessuno si darebbe cura di osservare.
Cresciuta a Parigi ed educata a Rotterdam, Sophie Varin indaga la natura umana con sguardi penetranti, portando poi alla luce, con discrezione, aspetti che senza di lei rimarrebbero sconosciuti; diremmo che Sophie Varin alleggerisce con misura quel genere di riguardo che sta in superficie. Come lei stessa afferma, il suo scopo artistico è dare espressione formale all’adattabilità umana a un certo contesto sociale. Ed è partendo da quest’idea che abbiamo parlato con Sophie Varin di un noto romanzo, un romanzo ricco di miniature metaforiche – qui e qui i link alle nostre pagine dedicate alla letteratura che parla di arti visive.
L’incanto del lotto 49
L’incanto del lotto 49, dato alla stampa da Thomas Pynchon nel 1965, parla appunto di adattabilità umana. Lo fa attraverso storie poliziesche, intrighi, e quelli che lo scrittore chiama ‘indizi perfetti’. Sono sguardi rapidi, ma efficaci, su realtà differenti, mai del tutto chiare. Il romanzo ci lascia con la sensazione che potrebbe esserci qualcosa che dobbiamo sapere, e che la realtà oltre noi stessi è più grande di quanto si creda. Le opere di Sophie Varin, così come il romanzo poliziesco che lei stessa ha scritto (qui il link del premio letterario per il quale il libro è stato selezionato), hanno generato in noi avere sensazioni simili.
Dopo aver suggerito di leggere L’incanto del lotto 49 Sophie Varin è tornata su questo passaggio:
Allo stato attuale Oedipa sapeva riconoscere segnali di quel tipo, come si dice riesca agli epilettici: un odore, un colore, la pura nota penetrante di grazia che preannuncia la crisi. Più tardi è unicamente questo segnale che ricordano, una scoria, un’annunciazione laica, e mai ciò che si svela nel corso della crisi. Oedipa si chiese se, alla fine di tutto ciò (purché finisse), non sarebbe a sua volta rimasta con niente più che un memoriale di indizi, dichiarazioni, allusioni, ma senza mai la verità centrale, che ogni volta per un verso o per l’altro sarebbe stata troppo luminosa per persistere nel suo ricordo; che doveva sempre divampare in un lampo, distruggendo irreversibilmente il suo stesso messaggio, lasciando un bianco di sovraesposizione al ritorno del mondo normale. Nello spazio di un sorso di vino di tarassaco, pensò che non avrebbe mai saputo quante volte poteva averla già visitata un raptus simile, né come rendersi conto se l’avesse visitata di nuovo.
Sophie Varin dice di aver trovato questo passaggio interessante per il modo in cui la materia di cui si parla viene manipolata, e per lo scarto percettivo a cui arriva il romanzo. Gli ‘indizi perfetti’ dividono la storia principale in più storie secondarie. Secondo Sophie Varin si tratta di un’epifania mancata, qualcosa che riguarda il trovarsi a un certo punto, o in un dato momento. Per lei “potrebbe esserci qualcosa nel tentativo di guardare con la coda dell’occhio e per questo non essere in grado di cogliere l’insieme. Potrebbe trattarsi della frustrazione che si annida nel nostro essere costantemente raggiungibili e accessibili”.
Un attimo di frustrazione
La protagonista del romanzo non si interroga mai riguardo alla propria effettiva comprensione di cosa le sta intorno. Non è affetta da quello che la psicologia comportamentale chiama ‘hindsight bias’, ovvero la nostra tendenza a considerare gli eventi passati più semplici da capire di quanto non siano effettivamente stati. Per Sophie Varin “ciò che accade dopo la frustrazione è una ricostruzione mentale che spesso implica una deviazione fantastica; e probabilmente è proprio questo il momento più interessante. Qui la narrazione diventa, in qualche modo, collaborativa. Si tratta di una collaborazione tra ciò che è accaduto, ovvero tra chi lo ricorda, e chi, invece, riporterà l’evento reinterpretandolo. A questo punto la verità diventa completamente circostanziale. Tutto è vero, ma certe parti beneficiano di più attenzione rispetto ad altre. Come quando capita di non vedere cose che si hanno sotto gli occhi fino a quando qualcuno non te le fa notare”.
La cooperazione tra i fatti accaduti e il protagonista riflette, nel nostro caso, quella che c’è tra le scene dipinte da Sophie Varin e lo sguardo di chi le osserva. Come nota l’artista, “c’è un senso di comune fallimento; per l’osservatore, e per il personaggio dipinto”. Diremo che si tratta di alleggerire con riguardo quello stesso riguardo che sta, per esempio, nell’aprire lentamente una porta per poi trovarsi sorpresi o imbarazzati di fronte a quel che c’è oltre la soglia – cosa stanno facendo, in realtà, quei personaggi? Allo stesso modo loro ti guarderanno come un intruso, con visi che esprimono disagio, o addirittura risentimento.
Ambiguità
Esistono significative ambiguità nella pittura di Sophie Varin, ambiguità che riguardano il rapporto tra pubblico e privato, tra agio e disagio, tra esterno e interno. Una soffice superficie di candido cotone reca sanguinosi soggetti; un cupo interno è reso pubblico attraverso la pittura, mentre il calore domestico svanisce. Per Oedipa de L’incanto del lotto 49 è anche l’ambiguità di imbattersi in miniature non cercate, che come improbabili cigni neri si moltiplicano davanti a suoi occhi per poi svanire nel mistero; rivelerebbero un complotto, che proprio in quel posto dovrebbe aver luogo.
Il romanzo di Sophie Varin, intitolato The Best Intentions of J.P Gutti a un certo punto sfocia in un passaggio straordinario, che parla di ambiguità e schemi irrisolti: “J.P sta di nuovo guardando verso il tavolo di finto marmo, e schiaccia con il pollice il pezzo di plastica staccato che si trova sull’angolo. I suoi occhi guardano al marmo stampato, ma senza vederlo. Sta immaginando qualcos’altro, qualcosa che non è una stampa, ma nemmeno un remissivo pezzo di plastica”. Leggiamo che il marmo è finto. Esiste e non esiste al tempo stesso. Fa sorgere certi pensieri nella mente del protagonista, e allo stesso tempo confonde il lettore.
Come sguardi verso un altrove, nella mente di un copista medievale morto da secoli, negli oscuri eventi che segnano le vite dei personaggi di Pynchon, negli schemi ambigui, le miniature di Sophie Varin sono opere davvero misteriose, come porte dipinte che graffiano la superficie di quel riguardo di cui abbiamo parlato, e di cui forse stiamo ancora parlando.
November 17, 2022