Renata Boero secondo Paolo Fossati (anno 1977)
Proponiamo una contestualizzazione di un testo del 1977 dello storico dell’arte italiano Paolo Fossati a proposito dei dipinti di Renata Boero.
Se si facesse un sondaggio per capire in quale decennio del Novecento la pittura sia entrata in crisi, la maggior parte degli interpellati probabilmente sceglierebbe gli anni Settanta. Una provocazione come questa, proposta dal critico statunitense John Yau, mostra come l’idea che abbiamo di quel periodo storico è probabilmente dovuta alla supremazia culturale di New York, centro della storia dell’arte dell’epoca a cui ci stiamo riferendo. I minimalisti, come i principali attori della scena concettuale, in quel periodo rifiutano del tutto il mezzo pittorico; e probabilmente in Europa la situazione non era così diversa. A sostegno di questa convinzione portiamo un estratto di un saggio scritto dallo storico dell’arte italiano Paolo Fossati nel 1977 a proposito dei dipinti di Renata Boero presentati quell’anno alla Galleria Martano di Torino.
Offriamo qui la prima traduzione inglese di questo saggio, comunque intriso di verve anti-pittorica, anche per aiutare a immaginare il clima del mondo dell’arte e della scrittura artistica nell’Italia di quel momento storico. Si tratta di un testo profondamente filosofico, in cui Paolo Fossati utilizza il lavoro di Renata Boero come un caso di studio per verificare la sua posizione all’interno di una specifica linea teorica. Le sfumature hegeliane sono presenti nel modo in cui egli allude a una concezione progressiva della storia, in cui il passato non è che il punto di partenza del presente, che diventa esso stesso la condizione necessaria per il futuro. È come se la pittura gli permettesse di ipotizzare che la storia possa ripetersi, ma con un ulteriore universo che si crea ogni volta, dove “nuove nozioni storiche e antropologiche” rientrano nel museo come simbolo del luogo in cui la storia risiede. Inoltre, Paolo Fossati presta grande attenzione allo spirito hegeliano del tempo, disegnando uno scenario di frasi e idee coeve, che non riguardano tanto la pittura in sé, quanto il concetto di pittura.
Degna di nota è anche la rinuncia da parte di Paolo Fossati a una scrittura meramente descrittiva dell’opera di Renata Boero, quando invece il descrivere è largamente presente nella prosa artistica degli anni Cinquanta e Sessanta (si vedano, per esempio, le prime recensioni di Donald Judd). La mancanza di riferimenti all’aspetto dell’opera è sintomo dell’attenzione che gli anni Settanta riservano al ruolo politico-rivoluzionario che l’arte dovrebbe svolgere nella società, in contrapposizione alla sua natura, scartata a priori, di mero oggetto di piacere estetico. A questo proposito, dell’opera di Renata Boero viene analizzato il processo compositivo, piuttosto che la forma, così ribadendo sia l’approccio pionieristico dell’artista – precursore delle tendenze processuali che la pittura avrebbe poi assunto -, sia il debito verso il concettualismo della scrittura artistica di Fossati stesso. Non sorprende che molte espressioni del testo mescolino tale atteggiamento teorico con l’attenzione alla fisicità del dipinto e alla sua realizzazione; ovvero, l’uso di parole come “tattile”, “fisico”, “concreto” e l’attenzione alla pura materialità dell’oggetto-opera (telaio, pigmenti, ecc.).
Questa traduzione inglese, che è stata revisionata da Olivia Taylor, segue la versione italiana nel modo in cui il testo trasmette i temi fin qui citati, cercando di rendere l’originale nel suo ritmo, a volte brusco, e nel suo tono colloquiale.
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«Oltre la soglia della pittura», oppure «aldilà del fare pittura»: sono due frasi lette e sentite innumerevoli volte in questi anni. Se ad esse aggiungiamo altre, come «ritorno alla pittura, dipingere la pittura», o «pittura pittura» avremo un bel mazzetto, largamente incompleto, di quello che non è più interpretabile come un frasario di luoghi comuni, ma come vero e proprio rituale. Prese tutte sul serio queste testimonianze riferiscono di una serie di ritorni culturali, di prosciugamenti della pittura, del mestiere del pittore e delle ragioni figurative in formule, in concetti, in ipotesi di varia letteratura. Mi chiedo con un poco di timore se nel gioco retorico non entri anche il lavoro della Boero. Si direbbe di sì, se badiamo a qualche suo commentatore: e la patente che alla Boero ne viene non è certamente di quelle da buttare via, coi tempi che corrono. E’ un riconoscimento di una presenza puntuale fra noi oggi e di un procedimento operativo che ha più ragioni per fornir materia (ed eccitazione) di riflessione. Dove invece appare materia di dissensi e parrebbe che queste tele si giustifichino altrimenti che con ritorni o con soglie è nel riflettere a che cosa vuol dire nel linguaggio odierno pittura. Prendiamo, quasi a caso, un capo del gomitolo: ogni pittura vuole poi dire che il dipingere non è lavoro innocente, che è, al minimo, un compromesso culturale, ed ogni pennellata ha già assorbito, continua ad assorbire, distribuisce e distribuirà segni e forme, se è lecito esprimersi così, di tutto un passato, di abitudini e modi che sono ormai penetrati fin nel pigmento colorato, nel pennello o pennellessa o spatola che sia, fin nella tela o lino o telaio che si voglia. E, ancora, sappiamo che tra conoscere e riconoscere non v’è gran mutamento, che ogni futuro ha più aria di revival che di novità, che l’oggi è il simbolo (lasciamo correre se mentale, alchemico, letterario o fallico) di nozze niente mistiche fra ieri e domani: quanti Rublev e Malevic, quanti Beato Angelico e Mondrian, quanti Parmigianino e Duchamp costellano le notti per nulla bianche degli artisti della «pittura come pittura!». Ci si chiede, a scanso di equivoci, se simili artisti abbiano ancora zone consce od inconsce, o se le une e le altre non siano una biblioteca, un museo, una qualche sala da concerto, ed è chiaro che la biblioteca è al più la collezione Sonzogno o la collana dei Bignami, i musei restan quelli in modesta tricromia dei fratelli Fabbri, e le sale da concerto qualche plico di 33 giri; ma che importa. (…) Tralasciamo altre considerazioni e veniamo a questa: il senso “pittorico” dell’operazione mi pare duplice. Da un lato partecipare nell’operazione a una vicenda estesa nel tempo e nello spazio non per deduzione mentale o per allegoria idealizzante ma per una partecipazione tattile, fruibile, concreta. I tempi dell’operazione partecipano di tempi culturali che abbiamo visti analoghi in altre “forme” antropologiche e dunque in altri spazi e in altri tempi con altre strutture e diverse partecipazioni e simbiosi. La seconda osservazione che mette conto fare è questa: la lettura dell’opera è rovesciata. Certo non è di tipo percettivo, non è purovisibilista, e fin qui poco male. Ma 3 non è neppure analitica o conoscitiva: è di partecipazione a una sorta di nostalgia della totalità, di nostalgia di gesti e di modi capaci non solo di evocare un mondo globalmente inteso (e saremmo in ambito appena di «ritorno alla pittura») ma di renderlo se non partecipato almeno in qualche modo tattile, vissuto. Se le cose stan così, la Boero è, se mai, prima della pittura, nella fase costitutiva del senso delle operazioni, al di qua di tela, pennelli e telai, con una smemoratezza della soglia culturale, letteraria, parlata a livello di museo che permette poi di rientrare nel museo con qualche nozione in più del suo senso e storico e antropologico.
March 5, 2020