Lisa Dalfino & Sacha Kanah, esseri viventi e non viventi
Introduzione all’opera di Lisa Dalfino e Sacha Kanah partendo dalla loro seconda mostra personale alla galleria Clima di Milano.
A chi volesse guardare con l’attenzione che merita il lavoro di Lisa Dalfino e Sacha Kanah sarebbe certamente d’aiuto sapere che le due placide agavi che ora stazionano all’interno della galleria Clima, a Milano, sono in realtà sorelle e provengono dalla collezione di piante grasse di un tale di Vicenza. Nell’estate del 1985 l’uomo aveva preso due polloni dalla pianta madre, cresciuta al sole del sud, e li aveva trapiantati nel giardino di casa sua. Negli anni le due piccole creature sono cresciute fino a raggiungere le dimensioni attuali, e si sono riprodotte. Ma poi quel tale si è ammalato, e i figli hanno avuto bisogno di sbarazzarsi dei due ‘mostri’ – come bonariamente le ha chiamate Sacha Kanah, che ci ha raccontato questa storia via Skype, visto che in questi giorni ne noi ne lui possiamo uscire di casa. Ecco come le due agavi sono finite ad abbracciarsi (si può immaginare due agavi litigare tra loro?) nella stanza principale di una galleria d’arte contemporanea, stanza che le pigre sorelle condividono con una colonia di 100 coccinelle (vive), con la foto dell’aura di una bambina, e con una bombola di CO2 – poi vedremo a cosa serve.
Questa storia rappresenta un lato ancora nascosto delle opere di Lisa Dalfino e Sacha Kanah, visto che la mostra, intitolata Vibrisse, non è stata dotata di alcun testo introduttivo. Ma è da qui che proviamo a partire. La metafora visiva che le due piante abbracciate interpretano ha una natura molto specifica e risponde a un discorso più ampio di quello che un semplice sguardo potrebbe suggerire. Il tema in questione, ci dice Sacha Kanah, è quello del rapporto tra le infrastrutture artificiali e gli esseri che intorno a queste, o dentro di queste, vivono. Le agavi sono infatti una scultura viva. Le coccinelle che ronzano nella stanza sono vive a loro volta, e come le agavi hanno bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. Per essere scattata, pure la foto dell’aura ha bisogno della presenza umana, persino più di una fotografia normale. Lo stesso vale per la scultura di anidride carbonica. Ecco a cosa serve la bombola: qualcuno deve ‘sparare’ l’anidride carbonica dentro l’involucro che darà forma al gas finché il ‘guscio’ della scultura non verrà rotto. Allora la scultura vivrà, per un breve istante, prima che il gas si perda nell’aria.
L’idea è che le nostre costruzioni sono ‘natura’ perché noi esseri umani siamo natura (revisione del concetto di ‘artificialità’) e come tale co-evolviamo; le altre specie compenetrano laddove abbassiamo la guardia. È un esercizio di resa, in contrasto alle strategie di paura con le quali siamo costretti a confrontarci nel quotidiano umano. Liberate dal loro argine queste agavi si confrontano con lo spazio, prendendone possesso molto lentamente, dirigendosi verso spiragli e fessure per entrare nei muri portanti (quelli di Clima sono ‘a sacco’, cioè con un’intercapedine riempita di terra, sabbia, pavimenti sbriciolati) e diventare struttura, laddove il legame diventa inestricabile, pena il collasso dell’architettura. Un rapporto ri-equiparato, termine di un ‘apartheid’, con le entità che ci circondano. A Hong Kong ci sono 10000 alberi cresciuti spontaneamente nei muri di contenimento della città: non possono tagliarli se no i muri crollano.
Ognuna di queste quattro metafore è intimamente coerente a un tema, che come abbiamo detto è quello della vita e del modo in cui questa ‘attraversa’ le strutture e le infrastrutture artificiali. Più che l’ovvio discorso sulla natura dell’oggetto, sullo sfondo c’è la grande questione dell’entanglement quantistico, e del modo in cui l’intreccio tra res extensa e res cogitans può farsi espressione artistica – il gas, l’aura, le forme di vegetali e animali, la narrativa stessa, con i suoi personaggi.
Nella stanza attigua c’è poi un filo d’oro del calibro di pochi micron che pende dal soffitto. L’opera è praticamente impercettibile. Si manifesta solo quando l’angolo di incidenza della luce fa brillare il metallo. Oppure puoi vedere l’opera se qualcuno che sa dove essa si trova te la indica. Si tratta di un’altra metafora, che però non riguarda la continuità tra materiale e immateriale, ma piuttosto la rivelazione che l’atto di creare un’opera d’arte nutre in sé. Rimane invece la costante dell’interazione umana, ovvero dello scambio necessario affinché l’opera possa compiersi. Il filo prevede uno scambio.
“Quello che la scienza ci offre è uno sguardo. Quello che la scienza fa, invece, è rendere monolitico un certo modo di pensare. Invece a noi interessano le deviazioni. Le cose che vediamo in questo momento sono il frutto di un lungo processo culturale. Ma le cose avrebbero potuto anche andare diversamente. Così noi proviamo a prendere altre direzioni, seguendo l’intelligenza della materia, e provando a guidarla senza mai toccarla.”
Per Lisa Dalfino e Sacha Kanah ‘guidare senza toccare’ significa scrivere, ovvero tessere attraverso il tappeto di idee sulle quali poi le opere si posano, come pianeti di un grande sistema di forze in equilibrio tra loro. Ovviamente il tappeto è invisibile. I due autori non scrivono infatti con l’obiettivo di produrre testi pubblicabili, ma per ‘comprendere attivamente’ il proprio lavoro. È infatti importante, dicono, che i l’opera possa essere espressa verbalmente con sufficiente chiarezza. Nella scrittura il lavoro trova verifica, e si affrontano le problematiche che dalla sua gestazione derivano. Già, ‘perché alla fine tutto deve quadrare’ dice Kanah, come in una partitura musicale, in una sceneggiatura, o in un grande progetto architettonico.
A questo punto è anche utile avere qualche dettaglio biografico. Sacha Kanah si è laureato in architettura, dopo aver fatto mille altre cose (tra cui l’autista, lo stampatore, l’apicoltore, il fotografo di moda), mentre Lisa Dalfino ha studiato all’Accademia di Brera, dove è stata allieva di Alberto Garutti.
Qui il link a un nostro scritto che chiarisce l’importanza di Alberto Garutti nella formazione degli artisti della loro generazione.
Sacha Kanah e Lisa Dalfino non sono una coppia nella vita. Si sono conosciuti a Brera, che anche Sacha ha frequentato per un certo periodo. Ma invece che Garutti, i maestri contemporanei ai quali il loro lavoro ci pare possa essere più utilmente avvicinato sono Olafur Eliasson e Tobias Rehberger (che pure sono ottimi insegnanti). Del primo condividono un certo gusto tecnicista nell’approccio alla chimica e ai materiali, ma soprattutto l’interesse per lo sguardo scientifico sulla natura e la tendenza a produrre opere, come direbbe Winckelmann, di nobile semplicità e quieta grandezza’ – anche quando sono in piccolo formato (si veda la scala acquisita nel 2018 dalla Fondazione Fiera Milano (ovvero da MiArt). Di Rehberger ricordano invece la logica destrutturante e la trasversalità nell’uso dei materiali ‘semilavorati’. Di entrambi condividono anche un potenziale ancora inespresso, ovvero quello che porta a proiettare il lavoro artistico nella dimensione dell’architettura.
March 25, 2020