Balzac, il maestro Frenhofer e il suo capolavoro sconosciuto
Il maestro Frenhofer, protagonista di ‘Il capolavoro sconosciuto’ di Balzac, non smette di lanciare interrogativi. Soprattutto se si ribalta la tradizionale interpretazione del racconto.
A quasi due secoli di distanza, Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac ed il suo protagonista, il pittore Frenhofer, non smettono di lanciare interrogativi. Ancora oggi, l’idea essenziale di opera d’arte, il rapporto tra intenzione poetica ed esiti estetici, e soprattutto la relazione tra artista e pubblico trovano nel racconto sempre nuovi spunti. Soprattutto se si ribalta la tradizionale interprezatione sul raggiungimento (impossibile) del capolavoro assoluto.
[Qui i link ai nostri molti scritti dedicati al rapporto tra letteratura e arte visiva e alla nostra lista di art novels. Ndr.]
L’incipit ci porta a Parigi, in rue des Grands-Augustinis, nei primi del ‘600, dove due pittori incontrano uno dei più grandi maestri dell’epoca, un personaggio di fantasia dal nome Frenhofer. Questi pontifica sulla perfezione della pittura, regala ai due amici esempi pratici della sua maestria, si dilunga in argomenti teorici legati al rapporto tra verità e apparenza, e si offre come l’unico depositario di una tecnica capace di trasferire nei dipinti “il soffio della vita”. Il maestro confida ai due pittori anche un segreto: da dieci anni sta lavorando al ritratto di una donna, il ritratto di Catherine Lescault, un quadro che dovrà essere il più perfetto che mai si sia visto. Con quell’opera, sostiene Frenhofer, si vedrà finalmente come egli abbia saputo condurre la pittura in una dimensione cui nessuno prima d’allora era mai giunto: l’equivalenza di arte e vita.
[A proposito di questa equivalenza, tutt’ora fondamentale, si vedano le nostre interviste due artisti come Lucy Stein e Louis Fratino. Ndr.]
A tre mesi da quell’incontro, Frenhofer comunica che il suo quadro è terminato. Ma quando lo mostra ai due amici, ciò che essi vedono è deludente. Nulla di quanto anticipato dal maestro è visibile. I due spettatori si trovano dinanzi al triste spettacolo di “colori ammassati confusamente, delimitati da una moltitudine di linee bizzarre, che formano una muraglia di pittura”. Solo avvicinandosi e guardando meglio, i due scorgeranno “in un angolo della tela la punta d’un piede nudo che fuoriusciva da quel caos di colori, toni, sfumature indecise, una sorta di nebbia senza forma; ma un piede delizioso, un piede vivo!”. C’era davvero una donna meravigliosamente dipinta sotto quella coltre di colori, dunque, ma l’incessante lavoro Frenhofer, con la continua ridipintura, in cerca della perfezione assoluta, aveva proiettato l’artista in un vortice solipsistico, fino a fargli perdere ogni rapporto con la realtà. Messo di fronte all’evidenza dei fatti, Frenhofer cadrà nella più profonda disperazione, che lo porterà alla distruzione di tutte le sue opere, e poi alla morte.
Fin qui la trama della novella, con il suo messaggio portante: il rapporto tra rappresentazione e realtà. Il capolavoro è “sconosciuto” perché è irrealizzabile, dunque inconoscibile e dunque incomunicabile. È questo l’aspetto cruciale del racconto, ed è in questo senso che la critica lo ha tradizionalmente commentato, mettendolo in relazione al tema complementare dello scontro tra l’intenzione dell’artista e il risultato dell’opera. Ma al di là di questa prima interpretazione, ci si potrebbe spingere oltre e domandarsi: chi aveva ragione? I due amici, testimoni oggettivi di una cruda realtà che il maestro era incapace di vedere, come autorizza a credere una prima lettura? Oppure, invece, in un ribaltamento della prospettiva, aveva ragione Frenhofer, convinto di aver dipinto il capolavoro assoluto, e poi erroneamente persuaso del contrario dai due amici? È nel tentativo di rispondere a queste domande che il racconto di Balzac trova una nuova attualità.
Il racconto produce infatti un cortocircuito nel quale non si capisce più se sia il senso (l’opera di pensiero) che ha cancellato il segno (cioè la figura) o se invece sia stato il segno (la continua ridipintura) che ha fatto smarrire il senso [Agamben]. In entrambi i casi, il capolavoro resta sconosciuto, tanto per i due amici quanto per il suo artefice. Ma è proprio nella relazione tra questi personaggi che le categorie in gioco si arricchiscono di una nuova componente. Al confronto-scontro tra l’intenzione dell’artista e il risultato sulla tela si aggiunge una nuova categoria: il giudizio del pubblico. Meglio di altri, ha affrontato questo aspetto il filosofo Giorgio Agamben:
“Che cosa è accaduto a Frenhofer? Fino a quando nessun occhio estraneo ha contemplato il suo capolavoro, egli non ha dubitato per un solo istante della sua riuscita; ma è bastato che per un attimo abbia guardato la tela con gli occhi dei due spettatori perché sia costretto a far sua l’opinione di Porbus e di Poussin: “Nulla! Nulla! E aver lavorato dieci anni”. Frenhofer si è sdoppiato. Egli è passato dal punto di vista dell’artista a quello dello spettatore (…). In questo passaggio, l’integrità della sua opera si è dissolta. Non è, infatti, soltanto Frenhofer che si è sdoppiato, bensì anche la sua opera: come in certe combinazioni di figure geometriche che, osservate a lungo, acquistano una disposizione differente, dalla quale non si può tornare alla precedente se non chiudendo gli occhi, così essa presenta alternativamente due facce, che non è possibile ricomporre in unità: la faccia rivolta verso l’artista è la realtà vivente in cui egli legge la sua promessa di felicità; ma l’altra faccia, quella rivolta verso lo spettatore, è un insieme di elementi senza vita che può soltanto specchiarsi nell’immagine che ne rimanda il giudizio estetico”.
Conclude il filosofo:
“L’estetica non sarebbe allora la determinazione dell’opera d’arte a partire dall’apprendimento sensibile dello spettatore; ma, in essa, è presente fin dall’inizio una considerazione dell’opera d’arte come “opus” di un particolare e irriducibile “operari”, l’operari artistico”. (…).
Il racconto di Balzac annunciava dunque non soltanto i temi che avrebbero dominato tutto il Secolo Breve, fino alla “presa di coscienza dell’impossibilità dell’esattezza” [Bachmann], ma prefigurava addirittura una riflessione su quel “mutamento nello statuto essenziale dell’opera d’arte” [Agamben] che ci ha offerto l’arte moderna e contemporanea: quella trasformazione, cioè, che ha stabilito nuovi equilibri estetici tra artista e spettatore.
Da Mabuse a Cézanne
Il capolavoro sconosciuto è ambientato nei primi del Seicento, visto che Frenhofer si dichiara allievo diretto di Mabuse, cioè il pittore fiammingo Jan Gossaert (1478-1532); mentre i due amici, testimoni del suo fallimento, hanno i nomi di due pittori realmente esistiti: Poussin (Nicolas Poussin, 1594 – 1665) e Pourbus (Frans Pourbus il Giovane, 1569 – 1622). Siamo in un’epoca che ha ancora vivo e valido il riferimento ad artisti come Raffaello e Tiziano, citati da Frenhofer come modelli assoluti, e che Balzac – pur in pochi brani – sa mirabilmente contestualizzare nei termini di un discorso critico. Tuttavia, la breve novella di Balzac si è rivelata ricca di significati anche in epoche dove le categorie di bellezza, verosimiglianza e mimesis andavano scomparendo, e dove s’avanzavano, facendosi anzi più centrali, le questioni sul rapporto tra opera e pensiero, anche in relazione al discorso sui limiti tecnici della pittura.
Henry James, nel suo racconto La Madonna del futuro (1873) ha proposto una versione ancora più estrema del racconto Balzachiano, mettendo in scena il tema della rinuncia come unico esito possibile della ricerca del capolavoro perfetto: soltanto nella mente dell’artista può vivere l’idea assoluta, destinata a perdersi nel momento in cui prende la forma di un’opera d’arte. Anche diversi artisti sono stati assai suggestionati dal racconto di Balzac. Paul Cézanne, per esempio, ne fu letteralmente folgorato, come ricorda il pittore Émile Bernard nei suoi Souvenirs.
Un’edizione con Picasso
Il capolavoro sconosciuto, Le chef-d’oeuvre inconnu, è stato pubblicato da Balzac una prima volta nel 1831; sei anni dopo è stato ripubblicato in una versione accresciuta; e poi in una nuova edizione definitiva nel 1847 (sebbene la dedica messa in epigrafe dall’autore porti la data del 1845). È solo 81 anni dopo la morte di Balzac che il racconto ha visto la luce in un’unica preziosa edizione a tiratura limitata (350 copie) con una serie di tavole di Picasso (ecco un link alla copia della collezione del MoMA di New York. Il libro è disponibile anche nel negozio della galleria Gagosian).
L’iniziativa si deve al celeberrimo mercante d’arte Ambroise Vollard (autore della fortuna, lo ricordiamo, di artisti come Cézanne, Rouault, Gauguin, van Gogh). Mettendo insieme Balzac e Picasso, il mercante-editore riuscì nell’impresa di pubblicare un libro dove letteratura e arte convivono liberamente, senza rimandi didascalici tra racconto e immagini. L’edizione del 1931 corredata dalle tavole dell’artista spagnolo prevede 12 acquaforti originali, 20 disegni e 67 xilografie. Alcune tavole, risolte soltanto per punti e linee, sono messe a mo’ di introduzione. Altre incisioni sono intervallate nel testo, senza che però abbiano con questo alcun collegamento diretto. Le 12 acqueforti originali, messe fuori testo, erano invece state fatte appositamente per l’edizione Vollard e si possono sposare con il racconto di Balzac almeno per la tematica affine del “pittore e la modella”.
Vollard corteggiava Picasso per questa operazione editoriale già dal 1926, anche se non è chiaro se Piacasso avesse letto l’opera. A Vollard va dunque il merito di un’operazione che ha radunato in un solo volume due autori incomparabili eppure entrambi ossessionati dal tema “creatore-creatura”. Balzac aveva trattato l’argomento almeno in altre due novelle: Gambara e Massimilla Doni, con temi analoghi seppure declinati alla riflessione sulla musica anziché sulla pittura. Picasso, a sua volta, aveva fatto del rapporto “creatore-creatura” uno dei motivi ricorrenti delle sue incisioni almeno dal 1914, e comunque per tutti gli anni 20, appunto attraverso soggetto de “il pittore e la modella”. Va ricordato che Le chef-d’oeuvre inconnu di Balzac-Picasso non è un’operazione isolata nella carriera di Vollard: il gallerista avrebbe realizzato diversi altri progetti simili, coinvolgendo scrittori e poeti come François Villon, Mirbeau, Verlaine e artisti come Marc Chagall – per dirne soltanto alcuni – in una stagione straordinariamente felice dell’editoria d’arte.
Una curiosità: quando nel 1961 fu chiesto a Picasso di raccontare la gestazione dell’edizione Vollard, egli minimizzò, e quasi con sprezzo disse che il progetto era nato semplicemente di un’idea estemporanea, suggerita per caso da un amico del gallerista. Quando però nel 1936 l’artista era stato in cerca di uno studio a Parigi, tra i tanti luoghi possibili ne aveva affittato uno in rue des Grands-Augustinis, proprio dove è ambientato racconto di Balzac (e vi restò fino al 1955), segno che il ricordo di Frenhofer non doveva averlo lasciato del tutto indifferente. L’anno dopo, in quello studio, Picasso avrebbe dipinto in soli 10 giorni Guernica. Sarebbe nato lì, nel luogo del capolavoro sconosciuto, il suo capolavoro più conosciuto.
Bibliografia
Honoré de Balzac – Pablo Picasso, Il capolavoro sconosciuto, a cura di Luigi Bonante, 2012, Aragno, Torino.
Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, 2013, Quodlibet, Macerata.
Ingeborg Bachmann. Letteratura come utopia- Lezioni di Francoforte, 1993, Adelphi, Milano.
Ambroise Vollard, Memorie di un mercante di quadri, Johan & Levi, 2012, Monza (MB).
April 28, 2020