Come la Pop Art ha ucciso la critica, che poi si è fatta racconto
Breve storia di come la Pop Art ha cambiato gli art writer, trasformando i critici in costruttori di senso, per opere che prescindono dal giudizio.
C’era un tempo in cui gli art writer davano i voti. Li chiamavamo critici d’arte. Un voto massimo dato da una certa autorità poteva spianare a un artista la strada del successo. Un brutto voto, consegnarlo al fallimento. A certo punto però nella cassetta degli attrezzi dell’art writer i racconti hanno preso il posto dei voti. Come e per quale motivo questo sia accaduto sono domande a cui dovrebbero preoccuparsi di rispondere esperti e storici dell’arte di oggi. Qui cerchiamo di assumere entrambi i ruoli, utilizzando un pacchetto di documenti sulla Pop Art in cui abbiamo avuto la fortuna di imbatterci, per provare a ripensare, radicalmente, la professione dello scrittore d’arte. Parleremo anche dei narratori nati dalle ceneri del modernismo – i critici che danno i voti sono ancora vivi! -, e di quanto questi debbano agli artisti.
Radi l’intellettuale
Negli anni Cinquanta del secolo scorso, a New York, il critico d’arte – intellettuale e autoritario – era un re. La preminenza di intere correnti artistiche, in particolare dell’Espressionismo astratto, dipendeva dal gradimento di individui dotati di enormi capacità intellettuali. Con loro regnava la competenza. Che si trattasse di un pestaggio (verbale) o di un elogio, il loro dovere era giudicare. Per gli art writer dell’epoca sospendere la propria fede non era un’opzione; tanto che i critici dei critici scrissero interi libri sull’argomento – si veda, per esempio, The Painted Word di Tom Wolfe, scritto 15 anni dopo il periodo in questione; secondo Wolf l’arte era addirittura diventata illustrazione delle teorie del critico, più che un’espressione propria dell’artista. In questo contesto, la relazione critico-artista-pubblico era molto tesa. Scrive Lisa Phillips:
Diversi critici sono emersi facendosi interpreti verbosi e potenti della nuova avanguardia americana [e] per la prima volta scrittori con credenziali letterarie pubblicavano saggi per un pubblico illuminato sull’arte americana più all’avanguardia. I loro pronunciamenti divennero sempre più assertivi, escludenti e dogmatici.
Tanto per fare un esempio, il critico per eccellenza, Clement Greenberg, diceva: “quando non ti piace qualcosa, le parole vengono più facilmente”. Mentre Donald Judd, critico e artista, scriveva commenti di questo tipo: “Questi dipinti sono momentaneamente piacevoli, ma poi diventano sconcertanti e irritanti”. Era il 1960, le opere oggetto della stroncatura erano quelle di Charles Alston.
Poi l’era del critico-re è finita. L’intellighenzia del mondo dell’arte che si esprimeva negli scrittori non poteva avere cittadinanza negli Stati Uniti liberali, dove, diversamente da quel che accade oggi, gli atteggiamenti autoritari e paternalistici erano incompatibili con la promessa di libertà che faceva da sfondo al sogno americano. Non c’era spazio per la scolarizzazione costante, e l’approccio ‘dal basso’ doveva prevalere anche nel campo della fruizione artistica. La Pop Art ha guidato questo cambiamento. La classificazione si ferma, comincia la narrazione.
Padrini arrabbiati
Prima di passare al modo in cui grazie alla Pop Art il critico si è trasformato in narratore va detto che gli atteggiamenti degli art writer in Europa non erano diversi da quelli di cui abbiamo parlato finora. Le voci autoritarie che albergavano nelle pagine culturali dei giornali erano attive da ancor più tempo dei loro colleghi americani, e forse sono state per questi un modello di riferimento. Tuttavia, la critica europea aveva assunto precise posizioni politiche che andavano al di sopra della critica artistica stessa. Per esempio, rendendosi conto di come Parigi avesse dovuto cedere il passo a New York nella corsa all’egemonia sul mondo dell’arte, i critici francesi reagirono con rabbia. A volte la loro scrittura finiva per tralasciare le asserzioni estetiche o teoriche sull’arte, facendosi invece commento politico, che poteva addirittura assumere i toni della sfuriata oltraggiosa.
Dopo l’incoronazione europea dell’arte americana come nuova avanguardia, avvenuta alla Biennale di Venezia del 1964 (alla quale le opere americane arrivarono a bordo di un volo miliare atterrato ad Aviano), un critico francese non meglio identificato, dalle colonne dell’France Observateur fece appello alla totale mancanza in questa di quello spirito rivoluzionario che invece aveva caratterizzato le avanguardie europee precedenti alla Seconda Guerra Mondiale. Il misterioso critico scriveva anche che l’arrivo dell’arte americana era una campagna di marketing sostenuta dagli ingenti capitali delle gallerie e dei collezionisti di New York. Nonostante i toni fossero accesi, molta critica ancora oscillava tra giudizio estetico e politica, cosa che non avveniva più, per esempio, negli attacchi strettamente politici e razzisti del critico d’arte francese Pierre Cabanne. Come ricorda Liam Considine:
Il titolo della recensione di Pierre Cabanne della Biennale di Venezia del 1964 trasmette la viscerale reazione della critica francese: “A Venezia l’America proclama la fine della scuola di Parigi e lancia la Pop Art per colonizzare l’Europa” […] Cabanne scatenò l’ansia francese per gli impatti dell’americanizzazione, scendendo purtroppo in una scioccante tirata xenofobica e razzista che spostava l’ansia decoloniale sulla Pop Art: “Gli americani ci hanno trattato come poveri negri arretrati, buoni solo per la colonizzazione. Il primo commando è arrivato: si chiama “Pop art”.
A chi importa?
Tra l’altro, ciò che è ancora colpisce della Pop Art è come sia riuscita a soverchiare la critica. Non solo ha innervosito i francesi, che hanno perso il loro trono geopolitico, ma ha anche fatto arrabbiare l’establishment della scrittura artistica americana. Scrive Lisa Phillips:
Gli artisti pop sono stati messi sotto i riflettori e sono stati immediatamente abbracciati da commercianti, collezionisti, istituzioni e media. Le riviste patinate coprivano questo nuovo fenomeno, i collezionisti nouveau riche lo reclamavano a gran voce, e alle persone che non sapevano molto d’arte il pop piaceva perché rappresentava qualcosa di familiare, qualcosa che conoscevano. Ma un gruppo che non è salito sul carro dei vincitori è stato quello dei critici d’arte. Il pop era un affronto a tutti coloro che avevano sostenuto i valori umanistici dell’Espressionismo astratto. […] I critici vedevano il pop come decadente, immorale, anti-umanista e persino nichilista.
Il successo commerciale e di pubblico della Pop Art, nonostante la critica le fosse avversa, ha portato alla fine dei voti. L’irrilevanza della scrittura artistica come la gente l’aveva conosciuta era ormai imminente. Gli artisti avevano capito che la fama, il riconoscimento e il denaro potevano essere ottenuti indipendentemente da quello che una recensione sgarbata avrebbe potuto dire di loro e del loro lavoro. Oltretutto, grazie ai miglioramenti tecnologici, le immagini delle opere d’arte circolavano più facilmente di prima, rendendo piuttosto inutili le descrizioni scritte a parole nelle recensioni. All’improvviso gli art writer si sono trovati spogliati del loro potere e del loro ruolo. Dovevano reinventarsi.
Ognuno è un artista, soprattutto gli artisti
Il successo della Pop Art è probabilmente anche merito dell’alfabetizzazione ‘mediatica’ degli artisti. Tuttavia, come esemplificato da Andy Warhol, la solida conoscenza dei codici della comunicazione di massa non era una condizione sufficiente. La capacità di produrre contenuti spiazzanti restava fondamentale. Bisognava trovare il difficile equilibrio tra la convenzione e il suo opposto; e alcuni di questi ‘ricercatori’ erano particolarmente acuti. Una lezione era chiara per l’art writer: il tempo delle competenze accademiche era finito, almeno al di fuori del mondo accademico. Gli argomenti razionali e l’inquadratura storica dovevano essere abbandonati a favore di un approccio, nel contesto liberale, che si era dimostrato molto più funzionale, ovvero quello che avevano avuto artisti stessi. La scrittura sull’arte doveva diventare scrittura artistica. Gli art writer hanno dovuto abbandonare la scienza per la fantascienza; dai voti alla narrazione.
Come abbiamo detti, questo cambiamento nella scrittura artistica è una speculazione all’interno della storia dell’arte. I documenti che abbiamo presentato provengono dal passato. Tuttavia, ci sembra che gli approcci creativi e narrativi propri di quella scrittura artistica, che ha avuto origine negli anni Sessanta, siano ancora oggi utili, almeno per le pubblicazioni non accademiche. Creare o ampliare un racconto su un’opera d’arte può ancora essere il compito più importante per gli art writer. Ci sono teorie filosofiche che giustificano questa convinzione. Da un lato, si possono chiamare in causa Arthur Danto e il suo modo intendere l’arte termini di “aboutness”, ovvero come un oggetto la cui stessa natura è quella di consentire narrazioni non necessariamente sperimentabili nell’oggetto stesso; dall’altro, si può verificare la posizione più recente delle filosofie speculative, secondo cui l’arte dovrebbe funzionare come un linguaggio metaforico per cogliere una realtà ‘fugace’ e – come abbiamo detto in un nostro precedente scritto – così dovrebbe fare la scrittura d’arte, per cogliere l’arte stessa.
Epilogo con domanda
A questo punto dovremmo chiederci se la scomparsa dello scrittore d’arte come classificatore abbia migliorato o meno il mondo dell’arte. I testi con giudizi di valore espliciti, un linguaggio accademico fermo, opinioni politiche schiette e descrizioni dirette sono migliori per l’argomento rispetto alle loro controparti creative e narrative? Questa è una domanda difficile per il critico del critico, per l’art writer che parala dell’art writing. Dedicheremo uno scritto a questo aspetto. Nel frattempo, possiamo comunque cercare di fare un’ultima osservazione, che riguarda più in generale l’importanza per l’arte del testo scritto. L’arte contemporanea non è musica, non è un film hollywoodiano, non è pittura di paesaggio. Le qualità formali dell’opera d’arte contemporanea non sono in sé sufficienti alla sua esistenza. Fin dalle avanguardie storiche, l’arte dipende dalle istituzioni che la legittimano, e il linguaggio è la prima tra queste.
L’estinzione della critica modernista h dato origine alle specie dei curatori, che ha spopolato negli ultimi due decenni. Soprattutto all’inizio della loro era, i curatori sono stati i nuovi custodi della scrittura artistica, e più tardi di quel giudizio di valore che, in arte, era momentaneamente scomparso. Ma c’è una fregatura. Laddove i critici esprimevano il loro parere negativo per iscritto, talvolta paradossalmente finendo per fare la fortuna di un arista (bene o male, purché se ne parli), i curatori contemporanei esprimono la loro antipatia attraverso il silenzio. Il lavori non graditi si fanno scomparire non mostrandoli, e non parlandone. La non-scrittura è ora lo strumento attraverso cui si esegue la condanna. Ma cosa avviene se questo atteggiamento finisce per essere assunto anche dall’art writer, che oggi lavora con la narrazione invece che con il giudizio?
Bibliografia
Considine, Liam. American Pop Art in France: Politics of the Transatlantic Image. 2019. Routledge
Judd, Donald. Complete Writings 1959-1975. Judd Foundation
Phillips, Lisa. The American Century. 1999. Whitney Museum of American Art
Wolfe, Tom. The Painted Word. 1975. Farrar, Straus & Giroux
May 14, 2020