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Cinque autoritratti per l’era della sorveglianza

Antonio Carnevale

Cosa porta dagli algoritmi per il riconoscimento facciale a un museo d’arte antica? La speranza di trovare un antidoto al capitalismo dei big data.

Quali misteri si nascondono dietro un autoritratto? Ogni epoca ha i propri segreti. Oggi, per esempio, in un tempo nel quale gli autoritratti – massificati e digitali – si chiamano “Selfie”, s’addensano sempre più ombre sulla loro reale funzione. L’anno scorso, la giornalista di Wired Kate O’Neill aveva scatenato parecchie polemiche con un semplice tweet. Retweettato più di 10 mila volte in poche ore, il suo messaggio avanzava il sospetto che tutte le immagini di coloro che sui social accettano la 10 years challenge (posto una foto di me di 10 anni fa, e una di oggi) possano essere estratte e utilizzate per educare algoritmi al riconoscimento facciale: per “allenarli” dunque a ricomporre l’identità visiva di una persona anche a partire da vecchie foto.

Come Kate O’Neill, che sul rapporto tra tecnologia, immagini e libertà aveva espresso il suo pensiero nel libro Tech Humanist: How You Can Make Technology Better for Business and Better for Humans, anche la ricercatrice americana Shoshana Zuboff ha affrontato l’argomento nel saggio The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power. Parlando dei dati che soggetti terzi possono raccogliere attraverso il web, Zuboff arrivava a descrivere come lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale applicato alle immagini del volto delle persone (gli autoritratti che tutti noi volontariamente diamo in pasto ai Big Data) faccia comodo a qualunque governo decida di esercitare un controllo totale sulla persona, e come questo accada già oggi, puntualmente, in molti Paesi.

Le teorie di Kate O’Neill e Shoshana Zuboff, ancorché allarmanti per noi, sono soltanto l’ultimo capitolo di una lunga storia che intreccia le immagini con la percezione del sé e con il potere. Ma il tema dell’autoritratto cela misteri sottili anche al di là della tecnologia. Prendete uno dei tanti autoritratti della storia dell’arte, magari uno di quelli in cui l’artista si rappresenta nell’atto di dipingere. Che cosa vuole intendere con quel dipinto? Guarda verso di noi con l’intento di ritrarci oppure, invece, vuole giudicarci? E se l’artista guarda in uno specchio, lo fa per ritrarre se stesso oppure, invece, per giudicare se stesso?

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Milan Francesco Hayez, “Self-portrait at fifty-seven” (detail), 1848, Oil on Canvas, 124 x 94 cm, Pinacoteca di Brera, Milan – Courtesy Pinacoteca di Brera, Milan.

Queste sono solo alcune delle domande che lo storico dell’arte James Hall si è posto di fronte a i “quadri che ci guardano”. Per rispondere a quegli interrogativi, Hall ha impiegato anni di studi, confluiti in The Self-Portrait. A Cultural History, un meraviglioso saggio che spazia dall’antichità al presente, e che è senz’altro una lettura fondamentale per chiunque voglia avvicinarsi al tema.

[Riguardo al libro di James Hall e al tema dell’autoritratto, si veda anche questo scritto; ndr.]

Gli autoritratti, inoltre, pongono questioni che non sono soltanto filosofiche o psicologiche. Queste opere, infatti, possono rivelare informazioni su diversi processi della cultura artistica, meccanismi che spesso attraversano i secoli arricchendosi di nuove sfumature. Noi abbiamo puntato l’attenzione su questi ultimi aspetti dell’autoritratto. E abbiamo immaginato un percorso di scoperta attraverso alcune opere che possono renderci testimoni dello sviluppo di una pratica fortunatissima. Ecco dunque un viaggio nell’autoritratto tra alcune opere conservate nella Pinacoteca di Brera di Milano: un itinerario che inizia nel 500 e ci porta alle soglie del Futurismo.

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Sofonisba Anguissola, “Self-portrait”, 1560 -1561, Oil on Canvas, 36 x 29 cm, Pinacoteca di Brera, Milan – Courtesy Pinacoteca di Brera, Milan.

Partiamo dall’opera che vedete qui sopra. Nella Pinacoteca di Brera è conservata nella sala XIX, e durante una visita al museo potrebbe persino sfuggire all’attenzione del visitatore. La sala XIX è infatti dedicata ai ritratti, e tra quelli alle pareti ce ne sono alcuni davvero superbi. C’è il Ritratto del conte Antonio di Porcia e Brugnera di Tiziano. Ci sono il Ritratto di Febo da Brescia e il Ritratto di gentiluomo anziano con guanti di Lorenzo Lotto. C’è un ritratto del Tintoretto, ce n’è uno di Giovan Battista Moroni, e diversi altri. I personaggi in questi dipinti ci guardano dritti negli occhi. La loro forza magnetica è potentissima. E la nostra ragazzina con gli occhi un po’ a pesce potrebbe quasi sparire al confronto, anche per via delle piccole dimensioni della tela, che misura appena 36 x 29 centimetri. Eppure questo piccolo dipinto è uno documento fondamentale della ritrattistica cinquecentesca.

L’opera è datata al 1560 -1561 ed è presentata come Autoritratto di Sofonisba Anguissola (Cremona,1532 – Palermo 1625), ovvero una delle pochissime donne, artiste, del Rinascimento, ad aver avuto una strepitosa fortuna di mercato tra i suoi contemporanei, non solo nei confini nazionali. La piccola tela è una delle sue opere tarde, eseguita forse per la corte di Madrid, ed esprime tutto lo stile maturo di una pittrice attentissima alla cura del dettaglio calligrafico, come si vede dalla resa dell’acconciatura, dai ricami della camicia, dalla finitura del collo di pelliccia, dalle ombre liquide sulle perle e sui rubini nella capigliatura, e in generale dai riflessi di luce che incontrano ogni rara superficie riflettente, persino le pupille.

Secondo alcuni storici dell’arte non si tratterebbe di un autoritratto, bensì del ritratto di Minerva, una sorella di Sofonisba (per un confronto, si veda il ritratto di Minerva conservato al museo Poldi Pezzoli di Milano). Ma che sia lei oppure no, per noi la sostanza non cambia. Il dipinto è privo di simboli, non ci dice nulla sull’effigiata, può farci desumere tutt’al più il suo censo medio-alto. Ciò che è importate, in questo dipinto, è invece la testimonianza della qualità pittorica di Sofonisba. Protagonista del dipinto è non la persona ritratta, bensì l’abilità di chi l’ha realizzato. I ritratti delle sorelle, eseguiti da Sofonisba, infatti, erano realizzati come biglietti da visita per ingolosire nuovi committenti.

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Sofonisba Anguissola, “Self-portrait” (detail), 1560 -1561, Oil on Canvas, 36 x 29 cm, Pinacoteca di Brera, Milan – Courtesy Pinacoteca di Brera, Milan.

I volti realizzati dalla pittrice sono «tanto ben fatti che pare che spirino e siano vivissimi», aveva scritto il Vasari nelle Vite, dopo essere andato di persona a constatare l’abilità dell’artista, due anni prima di pubblicare la seconda edizione. Era il 1566, e Sofonisba, a 34 anni, era già una delle ritrattiste più note del suo tempo. Aveva cinque sorelle, che il padre Amilcare aveva tutte indirizzate allo studio della pittura. Tutte dipingevano e si ritraevano a vicenda. Sofonisba – la più brava – aveva studiato a bottega da uno dei grandi del suo tempo, Bernardino Campi.

[Qui il link al nostro scritto sulla chiesa di San Paolo Converso, a Milano, che contiene uno straordinario ciclo decorativo dipinto dai fratelli Campi. Già studio si registrazione di Mina, oggi la chiesa è sede della Fondazione Converso, dedicata all’arte contemporanea; ndr.]

E già nel 1559 era stata invitata alla corte di Filippo II di Spagna perché ritraesse la sposa del sovrano e le impartisse lezioni d’arte. Il padre di Sofonisba, suo manager, aveva creato insomma un florido mercato di autoritratti della figlia, diventata ormai un brand affidabile. Come scrisse il poeta Annibale Caro ad Amilcare Anguissola:

“Non desidero di meglio che il ritratto di Sofonisba, così che io possa mostrare contemporaneamente due meraviglie, l’opera e l’artista”.

Ma gli autoritratti della pittrice non rappresentano soltanto un bene ricercato dal mercato cinquecentesco: all’artista si deve quello che è considerato il primo ritratto autonomo, firmato e datato, della storia dell’arte italiana. È un’opera del 1554 ed è oggi conservata a Vienna. Nel quadro, la ragazza si raffigura forse più giovane di quanto non fosse all’epoca, e regge un libro tra le mani. Il dipinto non è molto dissimile da altri di Sofonisba (oggi ne restano 12 tra diversi musei e collezioni). Nello schema compositivo della pittrice entrano in scena oggetti diversi con i relativi simboli di cultura, elevazione spirituale o eleganza. Dopo una serie di questi autoritratti, più o meno simili nel tono, arriva però un colpo di scena.

bernardino e sofonisba
Sofonisba Anguissola, “Bernardino Campi portrays Sofonisba Anguissola”, 1559, Oil on canvas, 108 x 109 cm, Pinacoteca Nazionale di Siena.

È il 1559. Il dipinto s’intitola Bernardino Campi ritrae Sofonisba Anguissola (fu Giovanni Morelli il primo a identificare i due artisti nel quadro e a proporne l’attribuzione a Sofonisba, poi confermata da Berenson e oggi condivisa da tutti).

[Qui il link al nostro scritto su Giovanni Morelli, il conosciore ‘nero’. ndr.]

Il dipinto è oggi conservato a Siena. A prima vista potrebbe sembrare un ritratto di Bernardino Campi mentre è al lavoro. Invece non è un ritratto; è un autoritratto. Sofonisba è rappresentata sulla tela che il pittore sta completando, ma le sue dimensioni e la preziosità della sua figura sovrastano quelle dei Bernardino, fino a far passare il pittore in secondo piano. La giovane, virginale, modesta Sofonisba non è più la fanciulla che compare tra i dettagli quotidiani degli autoritratti precedenti. Sofonisba non è più nemmeno una semplice pittrice: Sofonisba è la pittura stessa. La ragazzina umile e talentuosa vuole presentarsi come un’allegoria della pittura. La piccola tela di Brera e quest’opera si parlano chiaramente. Nella prima, la pittura è protagonista. Nella seconda, protagonista è la Pittura.

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Palma the Younger (Jacopo Negretti), “Self-portrait”, 1580 – 1584, Oil on Canvas, Pinacoteca di Brera, Milan – Courtesy Pinacoteca di Brera, Milan.

L’autoritratto in cui l’artista si pone come allegoria della propria arte diventerà un motivo centrale anche negli anni e nei secoli successivi. Succede per esempio tra 1580 e 1584 con uno dei primi autoritratti di Palma il Giovane (Jacopo Negretti), dipinto conservato a Brera benché non esposto. Palma il Giovane (Venezia 1548-1628), che si era formato nell’ambito di artisti come Taddeo e Federico Zuccari, e poi aggiornato con le novità tizianesche e di Tintoretto, ebbe il suo primo vero momento di gloria nel 1579, quando fu chiamato alla decorazione della sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale a Venezia. Secondo gli storici dell’arte, il suo autoritratto di Brera è immediatamente successivo a quel momento, ed è evidentemente espressione della consapevolezza del ruolo di primo piano che Palma aveva conquistato nel panorama artistico della città, lo si vede bene dalla posa e dall’espressione quasi superba del pittore. Palma sarebbe diventato protagonista della vita artistica veneziana per diversi decenni, corteggiato dalla Chiesa postconciliare per le nuove pale da destinare alle chiese di Venezia e dallo Stato per i suoi dipinti ufficiali.

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Milan Francesco Hayez, “Self-portrait at fifty-seven”, 1848, Oil on Canvas, 124 x 94 cm, Pinacoteca di Brera, Milan – Courtesy Pinacoteca di Brera, Milan.

Proprio a Palma il Giovane si è ispirato Francesco Hayez per il suo Autoritratto a 57 anni, custodito a Brera e reduce da un recente restauro. Hayez, che si considerava l’erede della grande tradizione pittorica Veneziana, firma il dipinto così: (in corsivo a pennarello) “Fran. Hayez / Italiano della città di Venezia / dipinse 1848”. Se incomparabile è il taglio della composizione dei due dipinti, l’espressione del volto dell’artista denuncia invece la stessa sicurezza di sé che aveva anche Palma, come a dire “la pittura sono io”, trasformando però la spavalderia del predecessore in un sobrio e anzi austero rigore, e dando all’atmosfera un tono del tutto solenne, assai lontano da quello dei suoi due autoritratti precedenti: Autoritratto in un gruppo di amici, del 1824 circa, e Autoritratto con leone e tigre in gabbia, del 1830 circa, entrambi conservati al Museo Poldi Pezzoli di Milano. Hayez considerò quest’opera di Brera una tra le sue migliori, e la conservò nel suo studio fino alla morte, più o meno come fece Vermeer con il suo Arte della pittura (o Lo studio dell’artista), considerato il suo unico autoritratto (benché di spalle): un quadro che egli tenne sempre nel suo studio, che non fu mai venduto, e che – per una coincidenza della storia – è conservato nello stesso museo – il Kunsthistorisches Museum di Vienna-, nel quale è custodito il ritratto con libro di Sofonisba.

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Umberto Boccioni, “Self-portrait” (verso), before 1908, Oil on Canvas, 70 × 100 cm, Pinacoteca di Brera, Milan – Courtesy Pinacoteca di Brera, Milan.

Lo sguardo fiero, le opere vicine a sé (questa volta sul muro) e i pennelli in mano, sono gli elementi che ricorrono anche in un autoritratto di Umberto Boccioni. Databile sicuramente prima del 1908, questo dipinto, per impostazione, s’inserisce perfettamente nella linea che va da Sofonisba a Palma e ad Hayez. Ma all’intemperante pittore che presto sarebbe stato futurista, quelle atmosfere intimistiche, ancora da “chiaro di luna”, dovevano forse già risultare indigeste. Fu così che Boccioni coprì il dipinto con spesse passate di colore grigio, quasi a cancellarlo completamente. L’opera, riscoperta da diversi anni, è il retro di un dipinto esposto alla pinacoteca di Brera, che mostra un nuovo autoritratto, del tutto diverso, di Umberto Boccioni.

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Umberto Boccioni, “Self-portrait” (recto), 1908, Oil on Canvas, 70 × 100 cm, Pinacoteca di Brera, Milan – Courtesy Pinacoteca di Brera, Milan.

L’ambientazione, questa volta, non è all’interno dello studio, bensì all’esterno, appena fuori dalla casa in cui viveva, in via Adige 23 a Milano. Probabilmente è a questo dipinto che si riferisce nei suoi Taccuini Futuristi, quando il 13 maggio 1908 annota: “Ho finito un autoritratto che mi lascia completamente indifferente. Sono stanco e non ho alcuna idea. Nessuno mi scrive, con lei [la mamma, n.d.r.] passo delle buone ore. Morale relativamente alto”. Il 1908 è evidentemente un momento di elaborazione di nuove formule, per l’artista. L’autoritratto lascia vedere molto bene la periferia della città sullo sfondo, tema che sarebbe diventato assai significativo per la poetica di Boccioni. L’anno dopo, l’artista avrebbe dipinto Il mattino, dove protagonista è proprio la periferia della città. E l’anno dopo ancora sarebbe nato La città che sale, il cui soggetto è ispirato proprio alla vista che si vedeva dall’abitazione-atelier dell’autoritratto di Brera. Uno dei diversi bozzetti di quel quadro fondamentale, a pittura e tempra su carta, è poche sale più in là, nello stesso museo di Brera. Anche Hayez, con l’Autoritratto con leone e tigre in gabbia, aveva portato i soggetto dell’autoritratto all’esterno. L’ambientazione fuori dallo studio non era una novità. Per esempio, c’è un opera di Maarten van Heemskerck, del 1553, che è un doppio autoritratto concettuale, che mostra l’artista nell’atto di dipingere in un’ambientazione esterna, e mostra il pittore due volte, sia all’esterno sia all’interno del dipinto (qui il link alla nostra analisi critica di quell’opera). Ciò che è nuovo, in Boccioni, è l’aver incluso in un unico dipinto sia un ritratto di sé sia l’oggetto della sua ricerca. Una dichiarazione poetica che sarebbe presto esplosa, letteralmente, nel Futurismo.

Bibliografia

AA.VV., Il Ritratto italiano, Bergamo, 1927

S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984

F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo ragionato, Milano 1994

Umberto Boccioni, Taccuini Futuristi

J. Hall, The Sefl-Portrait. A Cultural History, London, 2014

May 20, 2020