Velázquez e l’importanza del titolo, anche per un capolavoro
Las Meninas è il capolavoro più noto di Velázquez. Ma ce n’è un altro, che ci fa scoprire come una parola possa aprire o chiudere il nostro sguardo
Lo conoscono tutti. Las Meninas è il capolavoro più noto di Diego Velázquez. Ma esiste un altro capolavoro del pittore spagnolo, più o meno degli stessi anni, che può farci capire come il potere della parola sia decisivo per il nostro sguardo sulle immagini. Ai dipinti servono le parole. Senza di quelle non potremmo cogliere tutto ciò che le immagini contengono. Rimarremmo in superficie.
Sono davvero pochi gli studiosi che hanno affrontato il rapporto tra le opere d’arte e i loro titoli; tra questi ci sono Michel Butor, Giovanni Pozzi e Giuseppe di Napoli; il loro lavoro, come quello pionieristico di Gérard Genet e Jacques Derrida, è tanto insolito quanto prezioso. Anche perché raramente nelle monografie degli artisti si trovano precisazioni sulla storia dei titoli delle loro opere.
La ragione di questa disattenzione risiede nel fatto che per i dipinti d’arte antica i titoli, in genere, non sono stati dati dagli artisti, ma dai committenti o dagli storici dell’arte. Il titolo è spesso considerato dagli specialisti come un accessorio, utile all’identificazione e alla classificazione di un quadro, ma non imprescindibile riguardo al suo significato.
Invece, il titolo di un dipinto può farci stravolgere la sua interpretazione e aprire affascinanti scenari di scoperta. Come nel caso di Las hilanderas (Le filatrici), uno dei capolavori di Diego Velázquez.
Ciò che vediamo nel dipinto è esattamente ciò che il suo titolo ci indica: un gruppo di “filatrci” al lavoro. Il quadro, del 1657, è oggi esposto al museo del Prado. Era stato commissionato a Velázquez per celebrare la fabbrica di arazzi Santa Isabella di Madrid. Il pittore aveva risposto all’incarico fissando sulla tela una scena cui aveva realmente assistito.
Nel dipingere Le filatrici, Velázquez si concentra sulla realtà per rappresentare una scena di genere che ha la forza di “un’istantanea dipinta al naturale”, come è stata in passato definita l’opera. Dunque, stando a ciò che indica il titolo, ciò che noi vediamo è un frammento della storia spagnola del Seicento, ovvero uno spaccato del lavoro nelle fabbriche di arazzi e di tappeti; vediamo com’erano vestite le operaie, in quali condizioni lavoravano, scorgiamo persino un gatto accoccolato tra le addette alla filatura e l’arcolaio. Volendo, possiamo immaginare i rapporti affettivi tra le donne in primo piano, espressi dalle loro pose e dai loro sguardi. Tutto questo è già molto. Eppure si tratta solo di una parte.
Questa prima lettura, la rappresentazione di un’ordinaria scena di lavoro, è l’interpretazione che gli storici dell’arte hanno dato finché, una settantina d’anni fa, qualcuno ha notato un particolare rivelatore di un nuovo significato. La visione dell’opera si è immediatamente aperta, generando una stratificazione di narrazioni davvero inaspettata. È accaduto nel 1948, quando Diego Angulo Iniguez, uno specialista di Velázquez, ha puntato la sua attenzione sullo sfondo dell’opera.
Fino a quel momento si riteneva che le figure dipinte da Velázquez sul fondo fossero la regina (il personaggio con il braccio alzato) e le sue dame di compagnia, tutte giunte nella fabbrica per saggiare l’abilità delle filatrici. Ma come mai, si domandò Angulo Iniguez, la regina indossa uno strano copricapo a forma di elmo e non invece una corona? Nessuno si era posto l’interrogativo prima di allora. Angulo Iniguez rispose al quesito con una brillante intuizione: quell’elmo si poteva giustificare soltanto identificando nella figura che lo indossa il personaggio mitologico di Atena, e facendo diventare l’intera scena in secondo piano una rappresentazione del mito di Aracne narrato da Ovidio nelle Metamorfosi.
Le donne vicine all’arazzo sarebbero dunque Atena e Aracne, impegnate in una competizione destinata a stabilire chi delle due (Atena, di natura divina, o Aracne di natura umana) fosse in grado di tessere l’arazzo più bello. Il tema del mito riguarda la tessitura, dunque è assai plausibile in un quadro che ha tessitrici per protagoniste. Ma la relazione tra i due momenti del quadro è ancora più stretta.
Se la scena sullo sfondo è il mito di Aracne, quella in primo piano potrebbe benissimo essere la presentazione dello stesso mito trasposta nel presente storico di Velázquez. Le donne impegnate tra matasse e arcolai potrebbero essere dunque le stesse Atena e Aracne vestite in abiti da lavoro seicenteschi. Eccoci allora in un nuovo livello di lettura: Velázquez porta il mito nella storia, e ci induce a vedere le operaie in primo piano come concorrenti di una contesa suprema.
Dopo l’intuizione di Diego Angulo Iniguez, al titolo Le filatrici se ne aggiunse un altro, Il mito di Aracne (o La fabula di Aracne), ed è con entrambi i titoli che il museo del Prado, dal 1948, presenta il dipinto al pubblico. A partire dal doppio titolo, siamo autorizzati a vedere almeno due quadri in uno. Ma non basta. Come sappiamo dal mito, infatti, la sfida sarebbe stata vinta da Aracne, scatenando l’ira della dea Atena. Ecco allora un ulteriore livello di interpretazione, il più importante. Il dipinto di Velazquez sarebbe anche un’allegoria della creazione, dunque dell’arte in generale. È questo il messaggio portante del quadro: come Aracne con la sua arte, così il pittore con la sua pittura può competere con Dio nella creazione.
Ad avvalorare questa tesi c’è un dettaglio molto significativo. Sull’arazzo appeso sul fondo, che la sventurata Aracne mostra orgogliosamente ad Atena, c’è una citazione di un dipinto di Tiziano, il Ratto d’Europa, eseguito dal pittore italiano tra il 1559 e il 1562 per Filippo II, poi copiato da Rubens tra il 1628 e il 1629. Velázquez aveva senz’altro visto l’opera. Tiziano, anche in Spagna, era considerato il punto più alto raggiunto dalla pittura. Ed è per questo che Velázquez sceglie di omaggiarlo: per simboleggiare con il lavoro di Aracne l’equivalenza tra il valore della tessitura nel mito e quello della pittura nella realtà storica, ossia due attività creative che avevano permesso agli umani di competere con il divino.
Come ha scritto Giuseppe Di Napoli:
È del tutto pertinente supporre che Velázquez abbia concepito il dipinto come una sorta di allegoria della pittura o dell’arte in generale, assegnandogli il compito di evocare uno dei temi principali del dibattito artistico del tempo, quello in cui si sentiva personalmente coinvolto: il riconoscimento alla pittura dello statuto di arte liberale. Il tema centrale del dipinto è la creazione artistica che assume come principio genetico le infinite interazioni tra materia e forma: nelle Metamorfosi, Ovidio vede nella trasformazione della materia un atto creativo. Velazquez riprende il tema originario trasponendolo nella narrazione della materia che si trasforma in una forma d’arte, passando dal gomitolo di lana, posto in primo piano, all’arazzo finito sul fondo, affinché l’attenzione cada sui processi della creatività che alimentano i costanti tentativi dell’arte di superare se stessa.
Ne Le filatrici o Il mito di Aracne, Velázquez mette in moto un congegno davvero complesso, di fortissima densità narrativa, di piani che scivolano continuamente uno nell’altro, e che al tempo stesso si distinguono e si confondono. C’è Aracne che s’identifica con Tiziano, e che si fa allegoria della pittura, nella quale dunque s’identifica lo stesso Velázquez. C’è un luogo reale che si sovrappone allo spazio del mito; e c’è il mito che ridefinisce lo spazio reale. Ci sono i luoghi della storia e della mente, c’è un’idea di teatro nella presentazione della scena sullo sfondo (su di un piano rialzato, come un palco), e c’è la presa diretta della realtà che ci conduce empaticamente ad origliare i sussurri delle figure in primo piano, fino a fare il tifo per una o per l’altra delle competitrici. Storia, quotidianità, mito, letteratura, tessitura, arte e pittura convivono in un unico discorso visivo, al quale noi abbiamo potuto accedere solo grazie a un nuovo titolo, capace di dischiudere un nuovo orizzonte di visione e di comprensione. Forse, a questo punto, al quadro di Velázquez bisognerebbe aggiungere un terzo titolo: Allegoria della creazione, in attesa di scoprire nuovi dettagli e nuove interpretazioni, che alimentino altre parole e altre visioni.
Bibliografia
- Nell’occhio del pittore, di Giuseppe Di Napoli, Einaudi, Torino, 2016
- La parola dipinta, di Giovanni Pozzi, Adelphi, Milano, 1981
- Les mots dans la peinture, di Michel Butor, Albert Skira, Genève 1969
- Velázquez, di José Ortega y Gasset, Ibis, Como, 2015
May 28, 2020