Emmanuel Nassar: l’arte è l’esercizio illegale di tutte le professioni
Abbiamo incontrato Emmanuel Nassar, maestro brasiliano della Pop Art, per parlare d’arte, simboli, pubblicità, e di come sia importante visitare l’Europa.
Emmanuel Nassar ha prodotto un potente corpus di lavori, a partire dai primi anni Settanta. La sua estetica mescola Pop e geometria, tra locale e universale, per creare oggetti, dipinti e grandi installazioni. Nato nel 1949 a Belém do Pará, nel nord del Brasile, Nassar ha partecipato alle edizioni del 1989 e del 1998 della Biennale di Sao Paulo, si è unito alla rappresentanza brasiliana della Biennale di Venezia nel 1993, mentre nel 2011 ha esposto alla Biennale di Mercosul. Gli sono state dedicate molte mostre personali, la più recente delle quali alla Pinacoteca do Estado de São Paulo, nel 2018 [qui il link alla mostra, ndr].

Studiava ingegneria quando, alla fine degli anni Sessanta, ha fatto un viaggio in Europa ed è passato al corso di Architettura. Mentre era ancora studente, e intanto lavorava in pubblicità, ha iniziato a disegnare e a dipingere. Con quale approccio?
Emmanuel Nassar: Ho viaggiato in Europa nel 1969. Nel 1970 mi sono iscritto ad architettura e ho ottenuto il mio primo lavoro… e ho anche fatto la mia prima opera d’arte. Nell’arco di due mesi ho attraversato il mondo dell’arte, quello dell’architettura e quello della pubblicità, con uno stipendio che mi ha permise di affittare un appartamento e di comprare un’auto. Ho partecipato alla mia prima mostra collettiva e ho avuto la sensazione che per me fosse tutto facile. Sono stato accettato. Ma ci ho messo poi una decina d’anni per digerire il mix concettuale a cui mi ero esposto. Oggi mi rendo conto di essere stato segnato da una congiunzione di informazioni molto specifica.
Può dirci di più di questa miscela?
Emmanuel Nassar: Si trattava soprattutto di libri di marketing e di pubblicità importati da New York. L’agenzia dove lavoravo li conservava. L’estetica popolare delle fiere di strada e dei mercati di Belém. La pubblicità artigianale di manifesti cinematografici e negozi di alimentari. Il disegno maldestro della pornografia di Carlos Zéfiro. L’esercizio di sintesi che la creazione di campagne pubblicitarie implicava. La difficoltà di produrre in modo artigianale e precario gli annunci su un giornale stampato, una radio o una televisione, senza computer, e soprattutto senza internet, quindi con risorse scarse e primitive rispetto ai mezzi di oggi.

Essendo nato fuori dall’asse Rio de Janeiro – San Paolo, che ha caratterizzato e purtroppo ancora caratterizza gran parte della produzione e del consumo d’arte in Brasile, il suo contatto con il sistema dell’arte nazionale, e forse ancor più con quello internazionale, è stato limitato. A quali artisti guardava, e cosa la influenzava quindi?
Emmanuel Nassar: Avevo accesso ai libri pubblicitari americani (sotto-prodotto dell’arte contemporanea mondiale), avevo l’ambiente periferico popolare brasiliano di Belém, e un ambiente politico effervescente che allora toccava il suo apice. Ignoravo le matrici ufficiali dell’arte, ero molto più interessato ai concetti che ho imparato attraverso la pubblicità. Da qui l’influenza della Pop Art in versione brasiliana; da qui le contraddizioni di una posizione non ideologica e tecno-caratteristica del Pop nordamericano con la cultura popolare artigianale delle pubblicità fatte a mano, accanto ai motivi delle barche e delle case della periferia di Belém. Posso anche dire che a quel punto si è aggiunta anche l’Arte Povera. E si sono aggiunti anche Alexander Calder, Alfredo Volpi, Joaquín Torres-Garcia… e Carl Gustav Jung. Avevo molti dubbi riguardo quale dovesse essere la mia professione. Avevo molti interessi che a volte mi sembravano incompatibili. A un certo punto ho finito per condensare il mio stato d’animo in questo pensiero: “l’arte è l’esercizio illegale di tutte le professioni”.

In effetti l’idea di guadagnarsi da vivere esclusivamente facendo arte, e magari passare direttamente dall’accademia a una galleria blue-chip è relativamente recente. In quale momento, dunque, ha deciso di abbandonare il suo lavoro e dedicarsi completamente a questo “esercizio illegale di tutte le professioni”?
Emmanuel Nassar: Ho studiato architettura tra il 1970 e il 1975. La mia prima mostra personale fuori da Belém è stata nel 1984 alla Galeria Macunaíma di FUNARTE, a Rio, che mi sono guadagnato vncendo un bando di concorso. Questa prima mostra mi ha dato una certa visibilità, e subito dopo ho iniziato a lavorare con le gallerie Saramenha, Luisa Strina e Thomas Cohn (tra il 1985 e il 2002). Dal 2003 sono rappresentato da galeria Millan, si Sao Paulo. Tuttavia, non mi sono mai dedicato esclusivamente all’arte. Dal 1970 al 1980 ho lavorato in un agenzia pubblicitaria, come editor. Poi, dal 1980 al 2002, ho insegnato al programma di Belle Arti dell’Universidade Federal do Pará, a Belém. Dal 2002 sono in pensione, come insegnante.
La sua produzione iniziale si basava sulla figura. Gradualmente si è spostata verso l’astrazione e, in un certo senso, verso la geometria. Il dualismo della simmetria e l’ambiguità che essa genera attraversano la sua pratica, sia nella composizione della tela, sia nell’inserimento delle sue iniziali in poli opposti, come si trattasse di una bussola.
Emmanuel Nassar: In effetti, all’inizio la figura era la caratteristica più importante del mio lavoro. Era come se facessi i conti con me stesso. Ma la geometria che utilizzo è in costante dialogo con il volume e la prospettiva, spesso confusa con oggetti reali, attraversando supporti diversi: ossia, “geometrico pero no mucho”. La simmetria ricorrente mi ha fatto prendere in considerazione l’adozione delle iniziali “E” e “N” perché pensavo fossero in sintonia con il mio ambiente di lavoro. Assorbendo le iniziali come parte della composizione, ho iniziato a posizionarle in modo da equilibrare la composizione. Ma la gente ha cominciato a chiedermi se fossero indicazioni cardinali. E perché il Nord fosse fuori posto. Questo mi ha fatto pensare che, in effetti, le mie iniziali sono anche le mie direzioni cardinali, i miei riferimenti. “E” di Individual, di I [Eu, portoghese. Ndr]. E “N” di Nassar, dei miei antenati, quindi il collettivo, la natura, l’Us [Nós, nella versione originale]. Da allora queste iniziali svolgono un ruolo e una funzione simbolica nel piano spaziale dell’opera.
Forse più di ogni altro artista contemporaneo, lei usa le bandiere – in particolare le bandiera brasiliana – nelle sue opere. A volte sono immediatamente identificabili, altre sono quasi astratte, come un indice grafico. Negli ultimi anni della bandiera brasiliana si sono appropriati i movimenti ultra-conservatori, che ne hanno fatto un emblema nazionalista. Questa appropriazione ha avuto riflessi nel suo lavoro?

Emmanuel Nassar: Le bandiere mi hanno interessano fin dall’inizio, cioè dal 1979. La prima in assoluto è stata una bandiera di lamiera con uno sfondo rosso e la parola “açaí” – che è un’icona molto popolare a Belém -, scritta su di essa. Serve a identificare le case che vendono l’açaí [tipica pietanza a base di açaí, una bacca dell’Amazzonia considerata super-food. Ndr]. In modo artigianale e spontaneo, la bandiera è diventata un marchio di fabbrica nel mio vocabolario. E questa è stata anche una delle prime opere in cui ho stabilito un’analogia con il logo della coca-cola, o con le zuppe Campbell di Warhol. Poi, nel 1988, nel pezzo Céu do Brasil (Cielo brasiliano) una minuscola figura umana guarda attraverso il cerchio blu della bandiera brasiliana, con le stelle bianche. L’uomo minuscolo guarda all’universo, ma non è un universo qualsiasi. È l’universo rappresentato nella bandiera brasiliana, un simbolo molto familiare nel nostro inconscio collettivo. Nel 1998 ho raccolto in un’installazione oltre cento bandiere ufficiali di città e comuni dello stato del Pará (Bandeiras [Bandiere]). Una sorta di confederazione di piccole, medie e grandi città. Anche in quel caso, per me è stato molto importante il processo di raccolta delle bandiere, avvenuto attraverso un annuncio sul giornale in cui ho chiesto ai singoli di contribuire con la raccolta delle bandiere. Era un’appropriazione.
Il distacco ideologico nell’uso di questi simboli mi avvicina, forse, alla posizione degli artisti pop nordamericani. Per loro il ritratto di Mao è trattato alla stregua di quello di Marilyn.


Come la pandemia ha influenzato la sua pratica artistica?
Emmanuel Nassar: Mi sto adattando ai nuovi tempi. Negoziando, riducendo i costi e le abitudini. Do al lavoro la priorità. E credo di averlo sempre fatto. Le sfide sono sempre state concettualmente integrate al lavoro stesso. Le lamiere, per esempio, sono state pensate come moduli che permettono mille combinazioni e mantengono bassi i costi di trasporto. Mi sono anche appropriato degli incidenti di percorso, incorporandone gli effetti. Le opere hanno spesso viaggiato avvolte da imballaggi intenzionalmente approssimativi. Assomigliano un po’ ai quei parchi di divertimento nomadi, che vengono montai e smontati di volta in volta.
Il circo, e la sua giocosità, sono un altro filo conduttore. Fachada è installazione su grande scala del 1989, che imita la facciata di un circo e raccoglie all’interno tutti gli elementi Pop che le interessano. Di questo vocabolario fanno anche parte motori e ingranaggi – forse un’eredità dei suoi anni da futuro ingegnere? Può dirci qualcosa sul suo interesse per questi simboli?

Ogni spettacolo ha un motore dietro le quinte. L’idea della funzionalità mi affascina. Calder ha potuto sviluppare i suoi mobile solo grazie ai suoi studi in ingegneria meccanica. In suo omaggio ho intitolato una serie di opere “instabiles”. Si trattava di dipinti e oggetti che, in modo apparentemente precario, rimanevano in piedi. Molti dei miei lavori impiegano la geometria come qualcosa di funzionale, come un dispositivo di stato. Facade, per esempio, è sempre stata esposta con la sua struttura posteriore visibile.
Cosa fa quando non fa arte?
Lavorare è sempre stata per me un’attività divertente. Ho sempre cercato di integrare lavoro e divertimento. Potrei dire che non vado mai in vacanza… O forse sono sempre in vacanza?
June 1, 2020