Kaoru Arima, disconoscimenti facciali
I ritratti di Kaoru Arima sono un’alternativa di spiazzante semplicità: antiromantici, senza secondi fini, refrattari all’ego di chi li dipinge.
Kaoru Arima è ormai attivo da molti anni, ma resta un ritrattista straordinariamente aggiornato. Vive a Ishinomaki, in Giappone. Di solito dipinge volti, privi di romanticismo, il che è in sé cosa piuttosto rara nell’universo della ritrattistica presente, come di quella passata. I visi dei suoi personaggi hanno un’asciutta immediatezza, esprimono trasparenza, e nessun’altra intenzione.
Serve un primo chiarimento. Non stiamo parlando del romanticismo fatto con i mazzi di rose, i poeti autolesionisti, o le grandi onde che si infrangono drammaticamente contro scogliere a picco sul mare. Il romanticismo della ritrattistica è questione più sottile. Dalle sublimi rappresentazioni dei sovrani del Settecento alle contemporanee mappature distopiche dei volti, ovvero dagli eroi fino a quelli che non contano nulla, i ritratti hanno spesso finito per rappresentare visioni amplificate – e dunque romantiche – degli uomini stessi, portando con sé i loro incubi più oscuri. Ma Kaoru Arima si tiene lontano da questi mali, adeguando la scala della ritrattistica a quella dell’essere umano, nel tentativo di assolvere un compito che i ritrattisti il più delle volte, come dicevamo, trascurano.
[Si veda a questo proposito il nostro scritto riguardo al tema dell’auoritratto. Ndr].
Umano, non così umano
Potrebbe sembrar semplice ironia della sorte, ma capita che la ritrattistica sia piuttosto anti-umana, perché in genere la rappresentazione degli uomini non ha come scopo… la rappresentazione degli uomini. L’apparente assenza di intenzione nei ritratti di Kaoru Arima ‘funziona’ proprio per questo motivo. Quando l’approccio è quello di rappresentare volti umani per poi poter dire altro, allora chi ritrae finisce per appesantire chi è ritratto con argomenti a lui probabilmente estranei, come possono esserlo certi presupposti scientifici, o la ragion politica. Non è il caso di Kaoru Arima.
Si potrebbe chiamare in causa, per esempio, lo studio delle espressioni facciali che Darwin ha pubblicato nel 1872 in un libro, oggi quasi dimenticato, che si intitola The Expression of the Emotions in Man and Animals (L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali); per l’occasione il biologo inglese ha preso in prestito i ritratti di G. B. Duchenne de Boulogne – che sono rappresentazioni di espressioni piuttosto che di persone -, piegando la ritrattistica alle necessità, anche editoriali in questo caso, della scienza.
Su un livello certo più esposto a implicazioni di carattere socio-politico, un fotografo del colonialismo come Edward S. Curtis utilizza i ritratti come strumenti per costruire la propria storia, senza troppo curarsi di rispettare l’identità umana e sociale dei suoi soggetti. La rappresentazione che degli indigeni americani Curtis ci consegna risponde quasi meccanicamente alla retorica del “nobile selvaggio”, ed è quindi problematica proprio perché non onesta, e per di più strumentale.
Altro compito della ritrattistica è stato quello di farsi strumento dell’impulso classificatorio di qualche istituzione, o dell’artista stesso. Si pensi, per esempio, a come August Sander ha testimoniato i ceti sociali tedeschi dei primi del Novecento; o ai 48 ritratti di personaggi storici presentati da Gerhard Richter alla Biennale di Venezia del 1972. Nessuno di questi ritratti ha a che fare con la rappresentazione delle persone. Piuttosto, si è tratto di inviare messaggi in codice. Ma anche questo non è il caso di Kaoru Arima.
Com’è romantico
Torniamo al romanticismo. Sappiamo anche che la pittura ha sfruttato le immagini delle persone per costruire le proprie epiche. Cosa sarebbe Napoleone senza il cavallo rampante su cui l’ha ritratto David? E Picasso? A chi gli fa notare che quella che ha dipinto non è Gertrude Stein lui risponde: ‘lo sarà’, finendo così per rappresentare il suo ego, invece che quello della scrittrice collezionista. Tutto ciò poco ha a che fare con la raffigurazione delle persone e dei loro volti.
Essere semplici è difficile per tutti, anche per gli artisti. Ma più è difficile il compito che uno si dà più grande è il merito che acquisisce nel portarlo a termine. Ecco perché Kaoru Arima merita attenzione. Siamo d’accordo con Forrest Nash quando dice che i suoi ritratti ci fanno cogliere la luce di cui i volti delle persone brillano, nonostante il rumore visivo che a volte le circonda. E crediamo che questo risultato dipenda proprio da quell’assenza di ‘intenzione’ di cui parlavamo all’inizio.
Cambio di soggetto
Nel caso di Kaoru Aurima l’assenza di intenzione non significa mancanza di contenuto, e conseguente, inevitabile, monotonia. Accade invece uno slittamento di concetto. Dal rappresentare il viso di qualcuno si passa a qualcosa d’altro, e questo è possibile proprio perché la rappresentazione non ha secondi fini. Così l’artista chiarisce il suo approccio:
Mi lascio ispirare delle riviste di moda, da lì partono i miei ritratti. Ma la prima immagine che dipingo non è già un’opera compiuta. La ridipingo, finché l’immagine non diventa una forma di paesaggio.
Quante pennellate servono per trasformare un viso in un paesaggio? Cosa permette a un viso di diventare una veduta? Di certo non sarà l’avere intenzioni politiche, scientifiche, o romantiche. Invece, sono fondamentali le soluzioni formali che l’artista riesce a trovare, impiegando la tecnica tipica della tradizione pittorica europea, su tele meticolosamente preparate e ripulite dei polverosi schemi intellettuali che le caratterizzano. Se la teoretica formalista – quella di Clive Bell per esser più precisi – dovesse tornare, allora lo studio di Kaoru Arima sarebbe il suo paradiso.
Panorama
L’idea di elevare allo stato di un paesaggio qualcosa che altrimenti sarebbe un ritratto molto umano si capisce meglio guardando più in generale alla pratica artistica di Kaoru Arima, che va oltre il ritratto appunto, passando attraverso formati, tecniche e media differenti, come dimostrano le personali da Misako & Rosen, Queer Thoughts ed Édouard Montassut. Riguardo ai dipinti, invece, la misteriosa scelta formale di non dipingere la parte superiore e quella inferiore dell’immagine si spiega nei seguenti termini, partendo dalle opere non ritrattistiche:
All’inizio disegnavo sulla tela. Ma quando le mie risorse monetarie hanno cominciato a scendere ho iniziato a usare carta più economica, come quella dei giornali, o la carta grezza (anche se oggi quella per fotocopie costa ancora meno). Uso ancora i giornali, perché a un certo punto mi sono reso conto di quanti tipi di relazioni umane e di quante questioni legate alla nostra società questi contengano. Il che confonde le persone riguardo al limite tra l’opera e il suo supporto. Dove inizia l’una e finisce l’altro? Quando le mie opere vengono fotografate con l’intento di documentarle, allora l’intero spazio pittorico è parte dell’immagine. Quando invece l’opera viene riprodotta allora il supporto, di solito, non viene incluso. Questo fatto continua a incuriosirmi, e ha finito per influenzare anche il modo in cui dipingo i ritratti, dove, appunto, sono solito non dipingere la parte superiore e quella inferiore della tela.
Dicevamo dell’asciutta immediatezza dei ritratti di Kaoru Arima. Ebbene, è interessante notare come impedimenti dal carattere puramente materiale siamo anche nel suo caso all’origine di soluzioni formali potenti e di grande efficacia espressiva. L’assenza di romanticismo dona ai ritratti integrità adamantina. Forme orme efficienti, economie semplici e tagli azzardai. La pulizia dei volti di Kaoru Arima è respirare a pieni polmoni dopo una seduta di yoga: una forma semplice di piacere.
December 14, 2022