Neo-artigiani: pittura decorativa alla scuola Van der Kelen Logelain
Parliamo della scuola di pittura decorativa Van der Kelen Logelain di Bruxelles, premessa al successo di artisti contemporanei, e di artisti applicati.
Il complesso rapporto tra arte antica e arte contemporanea trova verifica nell’altrettanto complesso rapporto tra arte e artigianato. La dequalificazione e la smaterializzazione del XX secolo sono evidenziate dai loro opposti, del passato e del presente; il vecchio maestro, abile manualmente, incontra l’allievo di oggi grazie alle tecniche tradizionali. Una parte alimenta l’altra. Ma invece di indugiare nelle dissertazioni che potrebbero muovere dal constatare che Marcel Duchamp era anche un abile pittore, preferiamo affrontare questo tema raccontando la storia della scuola di pittura decorativa di Van der Kelen Logelain a Bruxelles. Anche perché, come vedremo, questa è una delle poche scuole d’arte applicata popolare anche tra gli artisti contemporanei.
Nata in due momenti, da due scuole separate, nel 1882 e nel 1892, l’attuale Van der Kelen Logelain è la fusione di queste due esperienze e la somma della loro tradizione. Oggi la scuola offre un unico percorso di formazione, che dura sei mesi, durante il quale gli studenti sono impegnati per 12 ore al giorno, sette giorni su sette. Imparare non è mai facile, ma alla Van der Kelen Logelain c’è un senso quasi religioso del sacrificio necessario per ottenere il prezioso dono della tecnica, alla stregua di quanto accade nella musica classica o nella danza.
Per dipingere un quadro più chiaro di questa scuola, oltre a riprendere il confronto tra arte e artigianato, abbiamo parlato con studenti e insegnanti, cominciando da Sylvie e Denise Van der Kelen, discendenti dei fondatori e attualmente direttrici dell’istituto, che ci hanno spiegato i modelli che ogni studente deve praticare per imparare le oltre 60 tecniche per l’imitazione di legni e marmi che la Van der Kelen Logelain insegna. E abbiamo presto imparato che, pur essendo radicato nella tradizione, questo catalogo di modelli viene costantemente aggiornato. Dice Sylvie Van der Kelen:
Ogni anno lavoriamo con un designer per creare un nuovo modello, con nuove forme di presentazione; guardando i nostri vecchi pannelli avvertiamo l’influenza del XIX secolo e di ogni decennio del XX secolo. Dobbiamo continuare a cercare di lavorare con il nostro tempo. Diciamo agli studenti che il lavoro decorativo risale a più di 3000 anni prima di Cristo, e da allora è in continua evoluzione; ogni giorno nascono nuove tipologie, nuovi materiali, nuove tecniche.
Lo studio delle nuove forme offre all’arte del presente un punto di accesso. La stessa Sylvie Van der Kelen collabora con artisti e architetti alla creazione di nuovi disegni. Le nuove generazioni di studenti portano nuovi input, spingendo il confine tra decorazione e arte oltre la tradizione. Il limite di età che la scuola si è data – non la può frequentare chi a più di cinquant’anni – è però solo parzialmente legato a questo aspetto. A pesare è anche Il duro carico di lavoro assegnato durante i corsi e la fisicità necessaria per lavorare in luoghi scomodi come possono esserlo, per esempio, i soffitti più alti. Per quanto riguarda l’equilibrio tra i sessi, Sylvie Van der Kelen dice:
All’inizio c’erano solo uomini. La prima donna è arrivata dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni ’80 e ’90 le due componenti sono state paritarie, poi per un certo periodo le donne sono state addirittura più degli uomini. Ora siamo tornati in equilibrio. Anche l’utenza nel tempo è cambiata. All’inizio gli studenti erano soprattutto artigiani della pittura d’abitazione, che alla nostra scuola si rivolgevano per aumentare le loro competenze. Poi, durante gli anni ’80, abbiamo avuto molte ragazze provenienti dalle famiglie borghesi. Ora la componente è più varia: ci sono artigiani, ma anche architetti, artisti, restauratori. Più in generale, ci pare che ci siano sempre più persone istruite che desiderano imparare a lavorare con le loro mani. Dopo lunghi studi accademici, in molti sentono la necessità di imparare una pratica manuale.
Arte contemporanea
Se il mondo dell’arte contemporanea ha sentito parlare della Van der Kelen Logelain probabilmente è grazie a Lucy McKenzie [qui il link alla nostra intervista con lei; ndr]. L’artista scozzese, che abita a Bruxelles, ha studiato qui una diecina anni fa e, come vedremo, ha portato altri artisti a fare altrettanto. La scelta è venuta da una situazione di stallo che si era venuta a creare nel suo lavoro; le abbiamo perciò chiesto come la scuola l’abbia aiutata a superare quel momento:
All’epoca avevo già in un ritmo piuttosto regolare di mostre, tra gallerie, istituzioni, e progetti indipendenti. Se da un lato mi sentivo molto fortunata ad avere queste opportunità, da un altro continuare era come navigare sottocosta, senza attriti, se niente mi disturbava dall’esterno – un po’ come il calendario della moda, che è abitudine. Inoltre, avevo raggiunto i limiti delle mie conoscenze e delle mie capacità nella pittura decorativa, perché volevo padroneggiare quello stile, non solo usarlo in modo “artistico”. Mentre studiavo ho continuato a fare mostre. Ma appena mi sono sentita in grado di spingere la pittura più in là le mostre sono diventate occasioni preziose, momenti per emergere dallo studio e cristallizzare qualcosa.
Molti, se non la maggior parte degli artisti contemporanei, subappalterebbero lavori altamente qualificati come quello insegnato alla Van der Kelen Logelain; non Lucy McKenzie. Ci possono essere molte ragioni per andare controcorrente. La più importante sta probabilmente nel piacere che si prova facendo manualmente qualcosa, per noi stessi. Nel caso di Lucy McKenzie il lavoro manuale è parte di una decisione. Dice infatti:
Gli artisti che delegano il lavoro non mi disturbano affatto, lo faccio anch’io in certi casi. Penso solo che la struttura gerarchica che guida questo rapporto debba essere esaminata – anche perché non colloco l’arte su un piano artistico superiore a quello delle arti applicate. Gestisco un’etichetta di moda con la un’amica, Beca Lipscombe – si chiama Atelier E.B. – dove tutto è subappaltato ai produttori; ma questi processi per funzionare devono essere negoziati con attenzione.
Imparare un mestiere e intraprendere personalmente il lavoro che molti artisti nella mia posizione affiderebbero a qualcun’altro è stata certo una dichiarazione d’intento. Ma oggi esternalizzo sempre di più quel tipo di lavoro pittorico – perché ciò su cui prospero sono, invece, la scoperta e l’apprendimento, dunque non solo il lavoro in sé come prova di valore; il lavoro manuale può diventare una trappola. Così imparo e vado avanti, mi adeguo e faccio riferimenti incrociati. Durante la quarantena ho imparato a fare il merletto a tombolo da una guida; mi interessano le strutture e i processi. Sto anche cercando di capire la narrativa romanza, le sue formule e il suo ecosistema. Quando guardo qualcosa che mi incuriosisce, il sapere com’è fatto per me significa che posso apprezzarlo ancor di più. Con il merletto a tombolo volevo sapere, quando guardavo un pezzo di pizzo, quanto lavoro c’è dentro; volevo apprezzare appieno ciò che lo rende speciale – e per farlo ho sempre bisogno di provare con me stessa.
Tornando alla Van der Kelen Logelain, Lucy McKenzie parla anche di efficienza del lavoro e di tradizione, argomenti che l’educazione artistica contemporanea difficilmente tocca:
Durante i miei studi alla Van der Kelen Logelain ho imparato molto sulla capacità di lavorare e su cosa è giusto chiedere a se stessi in termini di disciplina e di analisi. Ho imparato molte cose pratiche sui materiali e sugli strumenti tradizionali, sulla preparazione delle superfici, sull’efficienza. Ho imparato a fare del tempo uno strumento. Ma la cosa più importante che ho imparato sono state le tecniche – che ho affinato nel corso di tanti anni, conoscendo a fondo i materiali, gli strumenti, i metodi. Insomma, è un’educazione come si deve. Questa scuola dovrebbe essere protetta dall’Unesco.
Arti applicate
Tra gli studenti Van der Kelen Logelain che hanno poi deciso di lavorare come pittori decoratori ci sone le tre fondatrici dello Studio Pettirosso (attivo a Milano e a Londra), ovvero Beatrice Girardi Boschetti, Valentina Bonato e Cristina Perletti. Tutte hanno studiato alla Van der Kelen Logelain, ma in anni diversi. Beatrice Girardi Boschetti è stata la prima a venir a sapere della scuola e ha deciso di iscriversi dopo aver visto una superficie finta marmorizzata in un cantiere a cui stava lavorando lo studio di architettura della madre. Di formazione umanistica, Beatrice Girardi Boschetti non aveva alcuna esperienza nel settore delle arti applicate. Eppure ha imparato in fretta. Colpite dal suo lavoro Valentina Bonato e Cristina Perletti hanno poi seguito i suoi passi, frequentando la scuola qualche anno dopo.
In merito alle differenze tra l’educazione pittorica in Italia e alla Van der Kelen Logelain, Beatrice Girardi Boschetti mette a confronto dell’uso della pittura a olio nella tradizione belga con la pittura ad acqua italiana. Il realismo e l’intensità della prima non è paragonabile alla seconda. Eppure tutti i membri dello Studio Pettirosso che le tecniche devono essere adattate al contesto architettonico: non esiste una soluzione sempre vincente.
Lo Studio Pettirosso non si occupa solo di decorazione. Lavora anche con gli artisti contemporanei, offrendo quelle stesse competenze a cui Lucy McKenzie si riferiva poc’anzi. È stato il caso di Francesco Vezzoli – per esempio, ricordate la mostra sulla RAI alla Fondazione Prada? Ed è il caso della Casa di Fantasia di Gio Ponti, venduta all’asta qualche mese fa e ora bisognosa di interventi che certamente lasceranno spazio all’interpretazione delle esecutrici. Per quanto riguarda il rapporto con gli artisti contemporanei le fondatrici dello Studio Pettirosso così l’intendono:
Lavorare con un artista contemporaneo è qualcosa di speciale. È molto stimolante perché ti costringe a sfidare te stesso e a spingerti più in là, per dar vita alle sue idee. Le nostre tecniche sono un punto di partenza necessario, che però deve essere attualizzato e adattato alle esigenze dell’artista. In questo senso, padroneggiare la tradizione è fondamentale per interpretare le idee dell’artista e per dar loro vita. Vezzoli è al momento l’unico artista contemporaneo vivente con cui abbiamo avuto la possibilità di lavorare. È stata una benedizione entrare in contatto con lui, le sue idee sono semplicemente sorprendenti. Finora il nostro rapporto ha funzionato benissimo e questo, devo dire, accade con qualsiasi cliente, non solo con gli artisti. Un cliente “convenzionale”, per esempio, ci chiederebbe di ripensare le pareti o i soffitti della propria casa. È dunque molto importante riuscire creare un “contatto”, cercando di capire sentimenti e gusti, che possono essere molto diversi dai nostri. Direi che ogni lavoro, in effetti, ci spinge a trovare la soluzione migliore alle richieste del cliente. Per esempio, abbiamo prodotto uno specchio che doveva essere montato sopra un caminetto barocco di marmo nero del Belgio, o il bagno di Lazard a Milano, o una riproduzione di Klimt che un cliente ha voluto avere nella propria doccia…
Arti applicate applicate all’arte
Abbiamo infine parlato con l’artista svizzera Sarah Margnetti, che pure vive a Bruxelles e si è diplomata alla Van der Kelen Logelain (nel 2016). L’artista si è inizialmente interessata alla scuola per poter sostenere la sua pratica artistica, e dopo aver scoperto il lavoro di Lucy McKenzie durante i suoi studi universitari, ha deciso di iscriversi. E infatti la sua esperienza è in sintonia con quanto abbiamo sentito dire dagli altri: l’intensità del programma breve insegna al tempo stesso tecnica e disciplina. Sarah Margnetti nota inoltre che, grazie alla Van der Kelen Logelain, non ha più paura di lavorare su larga scala: se si impara a dipingere senza sosta per sei mesi, si è certo in grado di farlo per una trentina di giorni, non è così?
Oggi la pratica di Sarah Margnetti si divide tra il suo lavoro artistico e quello come assistente di maestri del presente come Nicolas Party e Haris Epaminonda. Per Party, ad esempio, è responsabile dei grandi ambienti di finti materiali e decorazioni in cui l’artista svizzero è solito collocare i suoi dipinti [qui il link alla nostra intervista con Nicolas Party; ndr]. È interessante notare che Sarah Margnetti non dimostri di amare la propria pratica di artistica più di quanto non ami il lavoro su commissione. Parlare con lei ci ha infatti ricordato che l’arte è stata uno sforzo collettivo per molto più tempo di quanto non sia stata espressione del concetto di paternità – si pensi ai cantieri medievali, per esempio.
Tornando al dibattito tra arte e artigianato, grazie alla nostra visita alla Van der Kelen Logelain, e agli scambi che in seguito abbiamo avuto a riguardo, abbiamo rafforzato la convinzione che arte e artigianato non si escludono a vicenda, soprattutto in Europa. Come abbiamo scritto qualche tempo fa a questo riguardo in un articolo che a lungo è stato in vetta alla classifica delle nostre pagine più lette (link), potrebbe non essere più questo il momento della smaterializzazione e della dequalificazione dell’opera, senza che per questo si finisca a celebrare il virtuosismo. Non si tratta di riprendere il discorso sull’arte contemporanea che hanno fatto gli anni Settanta o i Novanta, e nemmeno quello che si è fatto nel Settecento. Probabilmente la sperimentazione vive oggi in un fertile terra di mezzo tra questi due estremi.
June 30, 2020