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Perché privare l’opera d’arte del luogo per cui è nata?

Antonio Carnevale

Riportare le opere d’arte nei loro luoghi d’origine è possibile e il futuro comincia nella chiesa di Santa Corona a Vicenza.

Non è un caso che la chiesa di Santa Corona a Vicenza avesse colpito Roberto Longhi fino al punto di ispirare uno dei suoi più famosi saggi sulla pittura veneta. La quantità di capolavori contenuti al suo interno è degna di uno dei maggiori musei internazionali. E camminando tra le sue navate, oggi, vengono in mente le parole pronunciate pochi giorni fa dal direttore degli Uffizi Eike Schmidt: “I musei statali dovrebbero restituire alcuni dipinti alle chiese, seguendo il principio del patrimonio culturale come museo diffuso“.

La proposta di Schmidt sembrava destinata ad aprire un dibattito su un nuovo modo di intendere la valorizzazione dei beni artistici. A noi di CFA era sembrata un’ottima idea, fra tante altre meno condivisibili del direttore Schmidt.

[Qui, per esempio, una nostra analisi su quanto sia inadeguata la presenza online dei musei italiani, compresa quella del museo degli Uffizi, ndr]

Riportare le opere d’arte antica nei loro contesti d’origine avrebbe più di una conseguenza virtuosa: comporterebbe la demusealizzazione e la conseguente de-feticizzazione dei capolavori; consentirebbe il recupero dei nessi storici, architettonici, culturali e religiosi; garantirebbe la diffusione del patrimonio artistico e la valorizzazione di nuovi territori. Non poco, in fin dei conti. Invece la battuta di Eike Schmidt è caduta nel vuoto, senza inaugurare alcun dibattito. Al netto di pochi entusiasti sostenitori, la maggior parte dei direttori di musei si è detta contraria, e si è arroccata dietro il tema della sicurezza per le opere. Eppure, l’Italia è ricca di chiese dove le opere vivono ancora nel loro contesto d’origine. E la chiesa di Santa Corona ne è uno splendido esempio.

Edificata nel 1260, questa chiesa domenicana ha avuto un importantissimo ruolo culturale per la città nel corso di almeno cinque secoli. Già nel Trecento vantava una scuola pubblica di filosofia e una preziosissima raccolta libraria. Essendo uno degli edifici-simbolo di Vicenza, era presto diventata uno spazio ambito dalle famiglie più ricche in città. Molte di loro vollero legare i loro nomi a quelli degli altari presenti nella chiesa. Dal Rinascimento fino almeno al ‘700, commissionarono e donarono importanti opere. Tra queste, un capolavoro assoluto di Giovanni Bellini: il Battesimo di Cristo.

Pala del Bellini in Santa Corona a Vicenza
Vicenza, Church of Santa Corona, “Baptism of Christ”, detail, by Giovanni Bellini, 1500-1502, tempera on panel – copyright and courtesy Musei Civici di Vicenza – Chiesa di Santa Corona.

Posto sull’altare Garzadori, per il quale era stato realizzato, Il Battesimo di Cristo è un’opera matura del pittore, datata attorno al 1502, firmata sulla roccia in basso “IOANNES / BELLINVS”. Ed è proprio quest’opera che Roberto Longhi aveva negli occhi quando descriveva Bellini come “uno dei grandi poeti d’Italia”.

“Uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin Giorgionesco: eppure sempre lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura”.

In questa prosa che può oggi far sorridere per la sua pomposa pretesa poetica, Roberto Longhi, dal punto di vista critico, aveva comunque individuato la cifra più esatta di quest’opera: la perfetta sintesi tra la dimensione umana dei personaggi e quella divina del soggetto, esaltate dalla meravigliosa natura raffigurata. Poco più avanti, puntando l’attenzione sui brani più significativi del quadro (il cielo e le montagne), Longhi scriveva:

“Nella calcolata chiusura d’orizzonte, entro la cerchia dei monti altissimi, il colore acquista la densità di un respiro che venga dal profondo (forse, come diceva Cézanne, ‘dal centro della terra’) e il vecchio umo delle montagne sembra riassommare lentamente dal golfo di cielo bendato dalle nuvole immobili; quasi ad appartare più solennemente l’azione sublime di quella valle introvabile altro che per il nostro sguardo, da quando ce la scoperse il Bellini”.

Roberto Longhi, in Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, 1946

È lo stesso Longhi, poche pagine più in là, a ricordare che nessun committente avrebbe mai chiesto a un pittore rinascimentale di dipingere un paesaggio puro, e che dunque l’artista doveva “ricavarselo” all’interno del soggetto richiesto. Ma la ricerca di un linguaggio nuovo, pure nel Quattro e Cinquecento, non era dissimile da quella che avrebbe poi animato autori come Monet e gli impressionisti. Al di là del suo valore devozionale e della complessa iconografia disseminata di simboli teologici, il Battesimo di Cristo di Bellini è infatti un formidabile esempio di paesaggio. E fa senz’altro effetto poter saggiare la qualità di un’opera simile nel luogo al quale quell’opera era destinata sin dalla sua commitenza, cioè nel contesto di ricerca artistica e di devozione religiosa che questa chiesa ancora conserva.

Con la sua pianta di stampo cistercense, e con le successive modifiche architettoniche che si sono stratificate nei secoli, la chiesa di Santa Corona, a differenza di un museo, ha ancora oggi il sapore di un organismo vivente, dove le diverse discipline artistiche s’intrecciano tra stili e linguaggi. E dove il rapporto tra gli altari marmorei e i dipinti rappresenta ancora il necessario nesso tra la pittura e l’architettura.

bellini part
Vicenza, Church of Santa Corona, “Baptism of Christ”, detail, by Giovanni Bellini, 1500-1502, tempera on panel – copyright and courtesy Musei Civici di Vicenza – Chiesa di Santa Corona.

Così, nell’altare Garzadori, che incornicia l’opera di Bellini, si può riscontrare una delle prime opere di scultura che a Vicenza venivano investite dal gusto classicista. L’altare è attribuito a Rocco da Vicenza (1495-1530 ca.), erede della bottega di Tommaso da Lugano e Bernardino da Como: la “factory” nella quale tutti gli scultori vicentini più importanti ebbero il loro apprendistato o il loro laboratorio. Che fine avrebbero fatto i marmi dell’altare Garzadori, perfetto contrappunto del dipinto, se l’opera del Bellini fosse stata spostata in una pinacoteca? Sarebbero rimasti muti, orfani dei loro nessi tra forme e figure e spazi.

La chiesa di Santa Corona si può visitare come fosse una mostra permanente, dove sfila ciò che di meglio la cultura veneta ha prodotto nell’arco di cinque secoli. Solo per fare qualche esempio, c’è la cappella di San Giuseppe (la terza a destra) sul cui altare è posta l’Adorazione dei magi, opera della maturità del Veronese e destinata a influenzare potentemente lo sviluppo della pittura a Vicenza.

Veronese part
Vicenza, Church of Santa Corona, “Adoration of the Magi”, detail, by Paolo Caliari known as Veronese, 1573, oil on canvas – copyright and courtesy Musei Civici di Vicenza – Chiesa di Santa Corona.

C’è la cappella del Rosario (la quarta a destra) con i dipinti del manierista vicentino Alessandro Maganza e con le sculture della bottega degli Albanese. Un’affascinante stratificazione di documenti è inoltre quella della cappella Thiene (a concludere la navata) con la Madonna con bambino di Giovanni Battista Pittoni, attivo tra Sei e Settecento; e con la decorazione scultorea trecentesca, poi modificata nell’Ottocento, affiancata da rarissimi residui a fresco di Michelino da Besozzo.

Pittoni part
Vicenza, Church of Santa Corona, “Madonna with child”, detail, by Giovanni Battista Pittoni, 1723, oil on canvas – copyright and courtesy Musei Civici di Vicenza – Chiesa di Santa Corona.

E ancora, c’è l’altare dei Turchini, con la Madonna delle stelle di Lorenzo Veneziano, raffinatissimo pittore documentato in Veneto tra 1356 e 1372 e che oggi vanta opere custodite in musei come quello del Castello Sforzesco di Milano, il Museo Correr, il Birmingham Museum of Art, l’High Museum of Art . C’è poi (nella terza campata di sinistra) l’altare Monza, con la Carità di Sant’Antonio di Leandro Bassano montata nella sua cornice scultorea di gusto classico. E c’è l’altare Porto Pagello (nella seconda campata di sinistra) con Santa Maria Maddalena tra santi di Bartolomeo Montagna.

Madonna delle Stelle part
Vicenza, Church of Santa Corona, “Madonna of the stars”, detail, by Lorenzo Veneziano and Marcello Fogolino, sec. XIV, oil on canvas – copyright and courtesy Musei Civici di Vicenza – Chiesa di Santa Corona.

Questi sono soltanto alcuni esempi delle molte testimonianze contenute nella chiesa di Santa Corona. Grandi nomi e autori meno conosciuti (alcuni dei quali ancora al centro di dibattiti attributivi) si alternano nello sviluppo largo di questo luogo, che ancora mostra l’ordito di una cultura dove sono intrecciate pittura, scultura, architettura, storia e devozione. La chiesa di Santa Corona offre insomma un’esperienza di scoperta praticamente inesauribile, che oggi i musei difficilmente saprebbero proporre.

montagna part
Vicenza, Church of Santa Corona, “Santa Maria Maddalena with the saints”, detail, by Bartolomeo Montagna, 1514 – 1515, tempera on panel – copyright and courtesy Musei Civici di Vicenza – Chiesa di Santa Corona.

Tornando alla proposta di Schmidt, allora, e se l’esempio di Santa Corona non bastasse, c’è un’ulteriore dimostrazione del fatto che riportare le opere nei loro luoghi d’origine sia una strada più che praticabile. La prova viene proprio dal museo degli Uffizi, anche se da un’epoca pre-Schmidt. Nel 2008, quando direttore era Antonio Natali, aveva preso corpo La Città degli Uffizi, un progetto animato dall’idea di esporre opere provenienti dai depositi del museo e di riportarle nei loro luoghi d’origine. Nel 2009, per esempio, un trittico di Agnolo Gaddi, fiabesco interprete di Giotto, era uscito dai depositi degli Uffizi per diventare protagonista in un oratorio sperduto fra i campi di grano nelle campagne tra Firenze e Bagno a Ripoli. Il trittico era stato portato sull’altare per cui era nato seicento anni prima, e in mostra erano presenti tavole realizzate dagli stessi artefici degli affreschi trecenteschi che ornano la chiesa. In funzione di quella mostra temporanea, si era attivata anche un’economia locale che aveva coperto gran parte dei costi. Con otto rassegne in tre anni, La Città degli Uffizi aveva portato allo scoperto grandi maestri come Beato Angelico, Masaccio, Benozzo Gozzoli, ma anche artisti poco noti eppure notevoli e fortemente legati al territorio. Allora perché non trasformare oggi quegli esperimenti di successo, ma temporanei, in situazioni stabili? Perché non ridare nuova vita alle tante chiese potenzialmente ricche come quelle di Santa Corona, sparese per l’Italia? Il modello è plausibile, le questioni di sicurezza sono argomenti pretestuosi, come ha dimostrato l’esperienza de La Città degli Uffizi. E i sistemi di conservazione che la tecnologia mette a disposizione fugherebbero ogni timore circa l’integrità fisica di dipinti e sculture. Riportare le opere nel loro contesto d’origine: il dibattito va riaperto. Sicuramente ne nascerebbe un’Italia dei beni culturali nuova. E si potrebbe riscrivere, forse, anche una nuova storia dell’arte.

Bibliografia

  • R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, in Longhi, Da Cimabue a Morandi, Meridiani Mondadori, Milano 2011
  • G. Zorzi, Contributo alla storia dell’arte vicentina nel sec. XV e XVI, Venezia 1925
  • G. Mantese, Memorie storiche della Chiesa vicentina, Neri Pozza, 2002
  •  M. E. Avagnina, G. F. Villa, Bellini a Vicenza. Il Battesimo di Cristo in Santa Corona, Biblos, 2007

July 2, 2020