Asparagi simbolici, erotici, lunari
Visti così, con gli occhi dei pittori fiamminghi, di Manet, Max Ernst, Andreas Gursky, viene il sospetto che anche gli asparagi abbiano un’anima
Chi non ama gli asparagi è inutile che legga questo piccolo percorso di un fare culinario/artistico, che è tutto un osanna per questo ortaggio bislungo e di pasta delicatamente saporita. Prima di tutto, per chi proprio non li conoscesse, gli asparagi sono della famiglia delle liliacee, proprio come i profumati gigli; nascono in masse cespugliose sempreverdi. Le parti basse dei piccoli fusti, che si sviluppano sotterraneamente, sono legnose e vengono chiamate zampe; la parte edule è solo quella superiore detta turrione; è da questa piccola turris eburnea (per descriverne il suggestivo appeal, prendiamo in prestito uno degli appellativi riservati alla Madonna nelle litanie) che buttano gettiti, “asparagi”, cioè germogli in primavera. E lì interviene il taglio e la raccolta in mazzi di questi squisiti ortaggi. Si noti che gli asparagi sono quasi sempre raccolti a mazzi. Erano coltivati dagli Egizi e in Mesopotamia, e apprezzatissimi da greci e romani che già conoscevano le varietà coltivate. Come ci conferma il poeta Marziale nel I secolo dopo Cristo: “Gli asparagi dalle tenere spine che crescono nelle paludi di Ravenna, non saranno più saporiti degli asparagi selvatici”. Mazzi di asparagi si trovano raffigurati in ville romane, come testimoniano gli affreschi ritrovati a Pompei e Stabia.
C’è inoltre un aneddoto di lungo corso che riguarda gli asparagi e la Roma dei Cesari, e ce lo racconta Plutarco in una delle sue Vite parallele nella De vita Caesaris. Siamo fra il 54 e il 53 a.C. Cesare e i suoi generali giungono a Mediolanum, cioé Milano, durante le vittoriose campagne belliche contro le Gallie. Invitati nella domus di Valerio Leonte, vengono festeggiati con un enorme piatto di asparagi al burro, tipico condimento celtico. I generali romani si sentono offesi per quel ’”unguento” – che le matrone dell’Urbe usavano come belletto – sparso sugli asparagi. Ma Cesare, inappuntabile, divora gli asparagi e ringrazia il padrone di casa, poi chiama a raccolta i suoi generali ed esordisce con una delle frasi capitali sull’estetica del gusto: “De gustibus non est dispuntandum”, sui gusti non si discute. Ecco, è proprio in nome di questo principio che abbiamo scelto di raccontare che cosa accade tra asparagi e opere d’arte.
Guardate in primo piano questa Fruttivendola dipinta a olio di Vincenzo Campi nel 1580: il mazzo di asparagi occhieggia proprio lì davanti, dove la polposa ortolana mostra la sua abbondante mercanzia di fichi, fave, uva e zucche bitorzolute. Campi esalta in un’organizzazione precisa degli spazi tutto questo ben di Dio e ne fa nascere un piacere contagioso, quasi lubrico. Il quadro è nella Pinacoteca di Brera a Milano, e guardandolo si rimane incantati dalla sollecita profferta amorosa di cibo. È un’opera di stampo fiammingo, intrisa di attenzione al particolare, in cui si dà il “la” a quella nota realistica della pittura lombarda, dai cui lombi discende Caravaggio, che però gli asparagi non li ha mai dipinti. Storicamente il quadro può essere considerato un predecessore di quello che pochi anni dopo diventerà un autonomo genere artistico, ovvero la “natura morta”, dove l’asparago, seppure non attraente come un bel fiore, spunterà spesso raccolto in mazzi. Fra le nature morte seicentesche che presentano tale ortaggio portiamo almeno l’esempio di una donna pittrice, Louise Mouillon, col suo Cesto di frutta con mazzo di asparagi del 1630. È una tela che per ricchezza, brio, accensioni cromatiche, fra il rosso carico delle ciliegie e la cristallina trasparenza dell’uva, possiede la patente di un barocco rustico, di campagna. Ma il mazzo di asparagi è messo in obliquo ed è la sua ombra sulla tavola chiara a crearne il volume, determinando lo spazio che occupa sul piano di appoggio e spingendo indietro la canestra di frutta, verso il fondo scuro che sembra pronto a inghiottirla: forse un riferimento simbolico, come le foglie cadute in primo piano, alla caducità della vita e al trascorrere del tempo che muta, cambia e consuma le cose.
Il maestro fiammingo Adriaen Coorte, un minimalista della natura morta, sull’asparago si è concentrato con ossessiva e lenticolare cura. Siamo tra fine del Seicento e inizi del Settecento quando il pittore, della cui vita poco si conosce, lascia questa serie di nature morte, variazioni sul tema del Mazzo di asparagi. Posati in obliquo, quasi sempre all’estremità di una lastra di pietra o su un tavolo, gli ortaggi creano un illusionistico equilibrio instabile, amplificato dall’orbita buia del fondo scuro e vuoto. Si sente quasi un nodo alla gola, un senso di rimpianto, perché quegli asparagi cadranno, perirà la loro bellezza di velluto. Coorte insegue in questi suoi piccoli capolavori un forte senso della precarietà umana, che solo il sacro può salvare. L’artista riserva alla modestia e normalità del mazzo di asparagi quell’attenzione e perizia che rivolgerebbe a una crocifissione o al volto di Cristo. Si ha come un sussulto guardando “il volto”, pallido e iridescente, di questi ortaggi, sacri masterpieces.
C’è poi un enorme asparago in silicone e poliuretano, appeso con artigli di acciaio a una parete. È opera dell’artista Hanna Levy, classe 1991, che lavora a New York. Il colore mortalmente pallido dell’asparago ricorda il i toni della pelle; e la sua disposizione, una posa stremata d’abbandono, rimanda fortemente al braccio nella deposizione del Cristo.
Così un semplice ortaggio ha cambiato di stanza e di ruolo anche nel XXI secolo ed è diventato l’incontro con la “surrealtà” cristiana: quando si parla di asparagi, si parla di un viatico verso l’aldilà, ma con lo sguardo verso l’aldiquà. Un incrocio sorprendente fra un sogno di cannibalismo e di erotismo, intriso della sacralità delle misteriose statue di Papua, ritroviamo invece negli Asperges de la lune concepiti da Max Ernst nel ’35 ma realizzati come sculture in legno e poi metallo solo nel ’73, in un ibrido e allampanato connubio tra il vegetale e l’umano. Alla vena fantastica di Ernst appartiene anche il collage con inchiostro e gouache intitolato Dada Gauguin del 1920: un modo di divorare De Chirico coi suoi carciofi metafisici del Mistero e Melanconia di una strada (1914) o la Melanconia di un pomeriggio del 191, e farne un manifesto surreale, spruzzato di potente erotismo freudiano.
C’è una storia molto curiosa legata a un mazzo di asparagi, che riguarda Eduard Manet e un suo collezionista, il banchiere Charles Ephrussi, anche storico dell’arte nonché editore della Gazette des Beaux-Arts. Nel 1880 Manet dipinse un mazzo di asparagi e lo propose a Ephrussi per 800 franchi (una bella cifra all’epoca). Il banchiere, molto generosamente, glielo pagò mille. Così Manet, riconoscente, dipinse subito un altro asparago, che donò a Ephrussi accompagnandolo con un biglietto con su scritto: “Ne mancava uno al vostro mazzo”.
Spiritoso e ironico Eduard Manet, ma attenzione: l’opera, di soli 16×21 centimetri, rivela tutto il talento di un artista e come scrive Georges Bataille: “Questa non è una natura morta come le altre! Morta, sì, ma al contempo vivace”. È un realismo straordinariamente tangibile, dato da una pittura nervosa, sincopata, fatta di tache, macchie e righi veloci, spregiudicata.
Certo l’asparago di Manet può alludere con ésprit de finesse a un oggetto erotico (mentre il mazzo dipinto è ironicamente legato da due cordini color giallo-oro che sembrano due anelli matrimoniali). Ma è quel suo essere tratteggiato in obliquo, sporgente dal tavolo, quasi diafano e confuso in tutto quel biancore, a offrire il senso dell’assoluta precarietà fra turgore umano e sublime perdita nel disfarsi dell’elemento organico. È lo stesso senso di disfacimento che Francesco Arcangeli in un saggio apparso su Paragone ravvisava nel quadro di De Pisis intitolato Natura morta con asparagi: “Soltanto le ombre che scattano limpide qui accosto, dove l’aragosta, gli asparagi, la conchiglia scoprono la cruda dolcezza della materia, ci ricordano ancora che le cose hanno un peso, almeno per un’ultima volta, prima di cedere a questa solenne rapina del cosmo”. Viene il sospetto che anche gli asparagi abbiano un’anima.
Chi meglio del fotografo Andreas Gursky ha saputo rappresentare la loro funzione in quello che una volta si chiamava Spirito del Tempo? Prendete le sue foto cubitali di White asparagus – Farming in Beelitz, (Germany, 2007), così simili a fogli di scrittura esoterica da far pensare al celebre enigma in latino medievale del quadrato magico con l’iscrizione palindroma SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS trasferito negli anni Duemila. Ma qui, dalla pantografia d’un campo di asparagi bianchi in Germania, s’immagina di veder affiorare le punte del mitico ortaggio, come tratti d’un alfabeto Morse ancora tutto da decifrare.
Il mistero metafisico degli asparagi permane… È forse per questo che Achille Campanile gli ha dedicato una memorabile affabulazione intitolata Asparagi e immortalità dell’anima. L’apologo esilarante esplora il rapporto fra due cose così distanti, analizzandole cartesianamente. Sull’asse delle ascisse inserisce gli asparagi e ne esamina le proprietà materiali e culinarie. Afferma che gli asparagi sono buoni lessati, conditi con olio, sale e pepe. Ma c’è pure chi li condisce con il burro, mentre “alcuni ci mettono un uovo frittellato sopra, e ci sta benissimo”. Sull’asse delle ordinate l’autore inserisce l’immortalità dell’anima, che appartiene al mondo delle idee, ben lontano dagli asparagi, così buoni nella loro materialità. Ma il punto di contatto fra soggetti così distanti è quello del “residuo”: quando si mangia un asparago, ne rimane un gran pezzo, ed è la parte peggiore, il gambo, mentre l’anima immortale è il resto migliore che ci sopravvive. Ecco trovato il punto di contatto. Ma bisogna pur ammettere che la differenza fra un gambo di asparago e l’anima immortale rimane notevole, tanto che Campanile, con mirabolante capriola dimostrativa, ci fa tornare al punto di partenza negando qualsiasi rapporto. È assai probabile che non avesse mai visto questi dipinti.
Bibliografia
- Ernst Gombrich Dizionario della Pittura e dei Pittori, Einaudi, Torino 1997.
- Plinio Historia naturalis – Libro II- Einaudi, Torino 1997.
- Quentin Buvelo –The still lifes of Adriaen Coorte (active c.1683-1707) with oeuvre catalogue , Royal Picture Gallery Mauritshuis, Waanders Publishers 2008.
- George Bataille ,Manet, Abscondita ,Milano 2016.
- Franco Rella, Il segreto di Manet, Bompiani, Milano 2017.
- Paolo Baldacci, Max Ernst , Magritte , Balthus. Uno sguardo nell’invisibile, Mandragora, Firenze, 2010.
- Francesco ArcangeliDal romanticismo all’informale, Einaudi, Torino 1976.
- Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, Bur Rizzoli, Milano 1999.
July 27, 2020