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Raphaela Vogel: l’accordo del molteplice in unità

Stefano Pirovano

Espressionismo, monumentalità e molteplicità nel lavoro di Raphaela Vogel, prima della sua prima mostra a Milano, e dopo Bregenz.

Scriviamo questo testo qualche settimana prima dell’apertura della prima mostra personale di Raphaela Vogel a Milano, che è anche la prima dell’artista tedesca in galleria (Gregor Staiger in questo caso), dopo la mega-mostra che le ha dedicato la fondamentale Kunsthaus di Bregenz nel terzo trimestre del 2019. Tra le due mostre non c’è alcun rapporto speciale, se quello che esiste tra l’universale e il particolare, il tutto e la parte. Ma, dopo averne parlato con l’artista, è proprio questo che ci ha colpito: la scala del lavoro di Raphaela Vogel non cambia in ragione della dimensione fisica, sociale o psicologica dello spazio in cui viene presentato. Al contrario di quello che sarebbe lecito pensare per un artista fortemente tridimensionale come lei – specialmente dopo Bregenz -, il contenitore è un fatto tutto sommato marginale. La ‘visione’ di cui l’opera è conseguenza rimane dunque la stessa, un po’ come avviene per quel pittore che dice che per dipingere un quadro di venti centimetri gli serve lo stesso tempo che impiega per dipingerne uno di due metri.

La rappresentazione sensibile della perfezione è una contraddizione evidente; se l’accordo del molteplice in unità deve chiamarsi perfezione, lo si deve rappresentare mediante un concetto, altrimenti non si può parlare di perfezione.

Immanuel Kant, Critica del Giudizio, 1789/1790.

Raphaela Vogel
Raphaela Vogel, In festen Händen, 2016, installation view, ground floor, Kunsthaus Bregenz, 2019  Photo: Markus Tretter  Courtesy of the artist © Raphaela Vogel, Kunsthaus Bregenz.

Una poetica basata sul fare.

Nel caso di Raphaela Vogel è importante sapere che l’artista preferisce ridurre al minimo l’intervento di mani esterne, ovvero di competenze che non sono le proprie. Tutto nasce e procede da lei. Persino il drone dal quale provengono i suoi video è pilotato dall’artista, che ha imparato a guidarlo, così come chi vuole dipingere imparerebbe a usare il pennello, o chi voleva fare land art era passato dal pennello direttamente al bulldozer (Michael Heizer, per esempio). Per Raphaela Vogel a Bregenz, come a Milano, il discorso sul saper fare rimane il medesimo, ma ovviamente non si riduce alla mera capacità tecnica o artigianale. Al contrario, questo saper fare è piuttosto un modo per mettere l’artista – attenzione, non la persona – al centro dell’opera, garantendo maternità e controllo formale (cosa che invece è impossibile non sfugga agli artisti che scelgono di avvalersi di competenze esterne). Ed è questo un tratto che altre volte abbiamo sottolineato [si vedano i nostri scritti su Lorenza Longhi e Lucy Stein. Ndr]. Nell’era delle macchine a controllo numerico, di Photoshop, del famigerato TikTok, e del capitalismo della sorveglianza, l’arte intesa anche come espressione suprema di un’abilità tecnica è più probabile finisca per rappresentare un fondamentale baluardo di difesa dell’individualità, ovvero della nostra unicità umana, piuttosto che dell’ego. Per l’arte il virtuosismo è morto, e non c’è nulla che possa riportarlo in vita. Ma questo nulla toglie all’intelligenza del fare di cui indirettamente parla Raphaela Vogel e del potenziale espressivo che il far da sé sprigiona.

Raphaela Vogel
Raphaela Vogel, In festen Händen, detail, 2016, installation view, Kunsthaus Bregenz, 2019 . Ph: Markus Tretter . Courtesy of the artist © Raphaela Vogel, Kunsthaus Bregenz.

Chi è Raphaela Vogel?

Una volta presa questa via è impossibile non voler provare a mettere a fuoco il protagonista delle visioni di Raphaela Vogel, ovvero Raphaela Vogel stessa. Nel caso di Bregenz il tema è stato diligentemente affrontato anche da Diedrich Diederichsen in occasione del testo che Diederichsen ha scritto per il catalogo della mostra. Egli parla dell’esistenza di tre tipi sé. Il primo, cool self, è quello che si inserisce nelle narrative già esistenti, come quella di Instagram per esempio. Poi c’è un sé ‘trasgressivo’, che interpreta il bisogno di emancipazione che le narrative pre-esistenti generano. Infine c’è un sé ‘sfacciato’, ovvero il sé responsabile dei comportamenti più estremi, nei quali l’unico obiettivo è l’affermazione personale, in ogni forma e attraverso ogni canale. Secondo Diederichsen tutte queste queste espressioni del sé sono parti del lavoro di Raphaela Vogel presenti a Bregenz. A loro era affidato il potenziale espressivo dell’artista, un potenziale che, come abbiamo avuto modo di constatare, non è quello dell’artista come archetipo sociale, o psicologico. Ma anche dopo aver affiancato questa griglia interpretativa alla nostra, la domanda di fondo non sembra sciogliersi. Ci troviamo forse di fronte a un lavoro di carattere espressionistico, e dunque alla visualizzazione di una visione interiore che, per altro, sarebbe coerente con le radici culturali di chi la sta offrendo? Oppure siamo nel campo dell’invenzione onirica, che non riflette ma genera valori a sé stanti, magari in un subconscio alimentato in segreto dalle divinità del web? Alla nostra domanda l’artista risponde interrogandosi a sua volta, provando così che il ruolo di cui stiamo parlando è, per fortuna, al di là dal definirsi. Conscio e inconscio convergono in un unico caleidoscopio di cui affascinano mutevolezza e costante inafferrabilità. 

Raphaela Vogel, Scultura senza qualità, invitation card, 2020.
Raphaela Vogel, Scultura senza qualità, invitation card, 2020.

Simboli

Un ulteriore spunto viene dal constatare che a Raphaela Vogel, in realtà, le installazioni di carattere immersivo interessano solo fino a un certo punto. A Bregenz come a Milano, l’obiettivo non è perciò quello di avvolgerci in un ambiente in sé concluso. Piuttosto, l’impressione che abbiamo avuto è quella di un artista che prova a sfidare l’idea di contenitore, e su questa sfida costruisce la propria grammatica. Di nuovo, le sue opere esistono a prescindere dal contesto fisico. Eppure sono organiche, muscolari, multidimensionali, funzionali l’una all’altra anche quando hanno vite separate. In questo senso c’è qualcosa che ricorda le architetture religiose medioevali, dove tutto è integrato e teso a uno scopo che ovviamente va oltre l’architettura stessa. E come l’Alto Medioevo, il vocabolario simbolico di Raphaela è infatti popolato di animali e di oggetti, più che di persone, o di azioni sociali (scene).

Monumentale e non-monumentale

Se è vero che le opere di Raphaela Vogel tendono a escludere il guscio che le contiene allora è anche vero che la loro apparente monumentalità non è in realtà tale. Se intesa solo come dimensione fisica, o estensione nello spazio fisico, la monumentalità sarebbe una relazione tra l’opera e il contesto. Ovvero, si tratterebbe sempre di una monumentalità relativa. Ma sappiamo che in arte non funziona così. In arte la monumentalità è una categoria assoluta. Rothko è monumentale anche nei suoi dipinti più piccoli, e resta monumentale anche di fianco alle più grandi opere di Richter, che invece ha il pregio opposto, ovvero quello di risultare piacevolmente intimo anche nelle opere di grandissime dimensioni. Una cosa simile vale per la città di Roma, che rimane monumentale ai nostri occhi anche dopo che abbiamo visto la Tour Eiffel o Time Square. Così è anche per le Dolomiti nei confronti dell’Himalaya. Nel caso di Raphaela il concetto è opposto, e per certi simile a quello che vale per Richter. Per quanto dimensionalmente grandi siamo le opere esse rimangono intime. I musi canini dipinti su quelle che potrebbero essere le mutande di Robinson Crusoe, per quanto grandi e intensi, rimangono formalmente piccoli, leggeri, docilmente inafferrabili. E fino a ora è forse proprio questo l’aspetto più interessante dell’opera di Raphaela Vogel. Essa vive di una dimensione propria, ma non autoreferenziale.

February 3, 2022