Giant Polaroid, continuità o innovazione?
Breve storia della Polaroid 20×24, ovvero la Polaroid trasportabile più grande mai costruita (Giant Polaroid).
L’invenzione della fotografia Polaroid comportò una delle più radicali rivoluzioni tecnologiche, sociali e culturali del secolo scorso. Se Polaroid riscosse un grande successo nel mercato amatoriale, in virtù della semplicità di utilizzo delle macchine fotografiche e dei sorprendenti tempi di stampa, nell’epoca precedente l’avvento della fotografia digitale molti fotografi professionisti ricorrevano sistematicamente a Polaroid: l’impiego di fotografie istantanee come provino e l’ineguagliabile qualità delle pellicole, in bianco e nero a colori, rendevano Polaroid un prodotto insostituibile. A prescindere dai diversi utilizzi, Polaroid era sinonimo di rapidità ed istantaneità; l’invenzione nei primi anni Settanta di Polaroid 20×24 Instant Land Camera, più comunemente Polaroid 20×24 (nel senso di pollici e dunque 50 x 60 cm), un grande dispositivo capace di realizzare in pochi secondi fotografie della misura di 50×60 cm, segnò l’inizio di un capitolo inedito nella storia dell’azienda che nutre oggi la riflessione sulla complessità del linguaggio della fotografia Polaroid. Giant Polaroid presentava infatti caratteristiche antitetiche rispetto alle altre macchine : pesante, amovibile e difficile da utilizzare, fu necessario concepire un programma di promozione internazionale atto a creare un mercato per il nuovo prodotto, sollecitando in particolare fotografi professionisti ed artisti che, intrigati dall’unicità del medium, se ne avvalsero a fini creativi. Ripercorrere la storia della Polaroid 20×24 mette in luce alcuni aspetti meno noti dell’azienda e permette di rileggerne la storia secondo una prospettiva di storia dei media. Poiché è opinione diffusa che l’avvento della fotografia digitale abbia determinato la sparizione della pellicola, si potrebbe credere che Giant Polaroid non sia altro che un medium obsoleto; in realtà, la storia della Polaroid 20×24 insegna che l’innovazione non determina necessariamente una rottura con il passato [1] e che la storia dei media è caratterizzata da un’andatura discontinua, in costante tensione tra innovazione e continuità. Rileggere la storia di questo dispositivo nell’era digitale contribuisce all’analisi, per dirla con Bolter e Grusin, dei fenomeni di “rimediazione” [2], ossia di interrelazione tra media, che interessano più che mai la nostra epoca.
Dal prototipo alla nascita del primo studio 20×24
La storia della Giant Polaroid ebbe inizio nel 1976 quando Edwin Land, fondatore dell’azienda, presentò il prototipo della nuova Polaroid 20×24 Instant Land Camera ai suoi investitori. Creata con l’obiettivo di pubblicizzare la nuova pellicola a colori Polacolor II 8x10cm, con Polaroid 20×24 era possibile stampare fotografie di 50×60 centimetri in sessanta secondi, permettendo di apprezzare le qualità della nuova pellicola a colori anche a considerevole distanza. Seppur nata per rispondere ad esigenze commerciali, il potenziale della Giant Polaroid fu immediatamente chiaro : tra la spontaneità dell’istantanea ed il rigore della fotografia di posa, il suo fascino risiedeva allo stesso modo nella sua essenza dicotomica e nelle sorprendenti qualità tecniche. Tra il 1977 e il 1978, vennero prodotte cinque Giant Polaroid ed allestiti altrettanti studi fotografici, a disposizione dei professionisti che desideravano avvalersi di questo formato di ripresa. Il primo studio 20×24 inaugurò a Ames Street, Cambridge, Massachusetts, nella sede centrale dell’azienda. Nel 1986 fu la volta del celebre 20×24 studio di New York, diretto da John Reuter e tuttora attivo, seguito dal 20×24 studio di San Francisco. A fronte dell’interesse riscontrato dalla presentazione di Giant Polaroid alla fiera Photokina [3] di Colonia nel 1978, vennero allestiti gli studio 20×24 di Amsterdam e Offenbach, diretti rispettivamente da Rebekka Reuter e Jan Hnizdo. La storia del successo delle cinque Giant Polaroid è dunque intimamente legata alla nascita dei rispettivi studi fotografici, che funsero da tramite tra l’azienda ed un numero considerevole di fotografi professionisti ed artisti attirati dalle caratteristiche uniche della Giant Polaroid.
La prima Polaroid 20×24 Instant Land Camera misurava 64 x 105 x 150 cm, pesava circa 90 chili e permetteva di realizzare fotografie a grandezza naturale della misura di 52,5 x 61 cm. La composizione veniva realizzata su di un vetro smerigliato di 50 x 60 cm e la stampa finale presentava dunque qualche centimetro di margine laterale. Il negativo matrice e il supporto positivo erano disposti entrambi su due bobine indipendenti montate su appositi rulli al titanio disposti sul dorso dell’apparecchio, dotato inoltre di un vano nel quale si inserivano le capsule di reagente chimico. Il risultato ottenuto era una fotografia istantanea di inconfondibile nitidezza (perché non ottenuta mediante l’ingrandimento di fotogrammi più piccoli) dal caratteristico bordo irregolare, dovuto alle macchie di lavorazione [4]. Si tratta dunque di un procedimento artigianale in cui il fotografo, in parte subordinato alle regole imposte dalla natura del dispositivo, realizza di fatto una fotografia di posa e “coglie” [5] l’immagine, contrariamente al fotografo che muovendosi rimane con l’occhio fermo nel mirino della macchina fotografica.
Studio 20×24 al servizio della creazione artistica
L’invenzione della Polaroid 20×24 Instant Land Camera rivela il desiderio di Edwin Land di elevare la fotografia Polaroid a medium d’espressione artistica. Con l’apertura degli studio 20×24 crebbe l’interesse di artisti e fotografi internazionali nei confronti della Polaroid 20×24, disposti a viaggiare per sperimentare con il nuovo dispositivo. E’ dunque lecito affermare che l’invenzione della Giant Polaroid non solo rinforzò la presenza dell’azienda negli Stati Uniti e nel mondo grazie a relazioni di collaborazione con istituzioni culturali pubbliche e private, ma il suo utilizzo da parte di artisti di fama internazionale contribuì a consolidarne lo statuto di medium artistico. La visita di Andy Warhol [6] allo studio 20×24 di Ames Street, a Cambridge, nel 1979, corrobora questo periodo di fruttuose collaborazioni.
Tra gli anni Settanta e Ottanta, le richieste da parte di artisti aumentarono al punto che Polaroid dovette riorganizzare il modello operativo dello studio 20×24 intervenendo anche all’esterno. Le operazioni di esposizione del fotogramma, laminazione e separazione della copia positiva dal negativo matrice prevedevano una grande competenza tecnica; ciò risultò in un rapporto di cooperazione tra gli artisti ed i tecnici dello studio 20×24. In tale contesto nel 1987 lo studio 20×24 venne allestito a Miami da John Reuter per volere di Robert Rauschenberg. L’artista desiderava utilizzare la Giant Polaroid all’esterno, per le strade di Miami. Dopo una prima fase di sperimentazione, nel 1988 Reuter allestì nuovamente la Polaroid 20×24 nello studio di Rauschenberg à New York, dove l’artista realizzò delle fotografie istantanee grandi formato su una pellicola speciale che richiedeva l’applicazione di un prodotto chimico supplementare. Applicando tale prodotto solo in alcuni punti, le parti non trattate sbiadivano, ottenendo così l’effetto caratteristico della nota serie fotografica Bleachers (da bleaching, decolorato), esposta nel 2013 da Pace/MacGill a New York, in occasione della mostra Robert Rauschenberg and Photography [7]. L’intesa tra Rauschenberg e Reuter risultò in un utilizzo allo stesso tempo artistico-sperimentale e tecnico della Giant Polaroid, un esempio riuscito della comunione tra arte e tecnologia tanto sperata da Land. Bleachers, segnò l’inizio di un nuovo capitolo nella storia della Giant Polaroid, il cui ruolo nella creazione artistica venne da quel momento definitivamente consolidato. Contemporaneamente, il fotografo americano Neal Slavin pubblicava Britons [8], un ritratto ironico e tagliente della società anglosassone. Il volume riuniva la serie di Polaroid grande formato realizzate durante una campagna durata otto anni, durante la quale lo studio 20×24 intervenne in condizioni meteorologiche e geografiche estreme.
Le campagne dello studio 20×24 si intensificarono ulteriormente a fronte della crescente richiesta di istituzioni pubbliche e private, che riconoscevano nella Polaroid 20×24 un grande potenziale creativo e mediatico. Tra le più importanti iniziative istituzionali quella voluta nel 1985 dall’allora direttore del Centre Pompidou Alain Sayag, è senz’altro tra le più rilevanti [9]. In seguito ad un importante progetto di riallestimento – a cura degli italiani Gae Aulenti, Italo Rota e Piero Castiglioni – e all’ingrandimento della sezione dedicata alle collezioni d’arte contemporanea, il museo intendeva promuovere iniziative dedicate alla creazione contemporanea. E’ in tale contesto che Alain Sayag invita tredici artisti di fama internazionale, tra i quali Christian Boltanski e Bettina Rheims, a sperimentare con la Giant Polaroid nello studio 20×24 allestito temporaneamente nel museo. Gli artisti, che avevano a disposizione una sola macchina, seppur confrontati alle medesime condizioni di lavoro ottennero risultati estremamente diversi e “Atelier Polaroid” fu dunque l’occasione di mostrare le qualità tecniche e creative della Polaroid 20×24 al pubblico parigino. Alla stregua dell’iniziativa del Centre Pompidou, nel 1991 venne organizzata a Palazzo delle Esposizioni a Roma la mostra “Sviluppi non premeditati” [10] il cui titolo ne evoca il carattere in progress, frutto anch’essa della partecipazione attiva degli artisti coinvolti – da Mario Schifano a Nino Migliori – invitati a sperimentare con la Giant Polaroid nelle sale del museo, in presenza del pubblico.
Molte delle iniziative volte alla promozione della Polaroid 20×24 Instant Land Camera, seppur d’interesse artistico e culturale, erano di impronta commerciale e afferivano alla strategia d’acquisizione di Polaroid conosciuta come Artist Support Program. Fin dall’apertura del primo studio 20×24 a Cambridge, uno dei principi fondatori del progetto era infatti la costituzione di una collezione d’impresa basata sullo scambio con i fotografi, che avrebbero potuto usufruire gratuitamente delle apparecchiature degli studio 20×24 in cambio della cessione di alcuni tra i migliori scatti realizzati. Già dagli anni Cinquanta, Edwin Land si era avvalso dell’attività di consulenza del fotografo Ansel Adams, che per primo iniziò ad occuparsi della costituzione e della gestione della collezione Polaroid, divisa tra due poli: Polaroid Collection, conservata a Cambridge e International Polaroid Collection, conservata nella sede di Amsterdam, dove Luigi Ghirri nel 1980 realizzò le sue celebri Polaroid grande formato [11].
Tra arte e tecnologia: la Giant Polaroid al servizio del restauro di opere d’arte
Per comprendere il portato socio culturale ed economico dell’azienda Polaroid è opportuno spostare per un attimo l’attenzione dalle collaborazioni artistiche e soffermarsi sull’analisi di progetti di natura tecnica e commerciale. Per ritornare alla Polaroid 20×24, le sue sorprendenti caratteristiche tecniche hanno determinato la sua applicazione nel campo della fotografia scientifica, in particolare del restauro di opere d’arte. Con Giant Polaroid era possibile realizzare una fotografia istantanea, nitida e dettagliata del modello a grandezza reale; la stampa immediata permetteva il confronto del modello con la riproduzione a distanza di pochi secondi e rendeva inoltre possibile l’analisi a distanza ravvicinata di dettagli ed eventuali ritocchi di opere monumentali, altrimenti invisibili dall’osservatore ad occhio nudo. Appare dunque evidente come nell’epoca precedente l’avvento della fotografia digitale, le qualità della Giant Polaroid fossero preziose alle campagne di restauro, un aspetto che non era sfuggito a Edwin Land, il quale aveva colto ancor prima della nascita della Polaroid 20×24 il potenziale della fotografia istantanea in ambito scientifico. Negli anni Settanta, egli aveva infatti fatto appello a John McCann, allora direttore del dipartimento Vision Research di Polaroid, al fine di realizzare una riproduzione dell’opera Bal a Bougival, di Renoir, conservata al Boston Museum of Fine Arts [12]. McCann costruì la Museum Camera, un dispositivo fisso alla stregua di un’immensa camera oscura, allestito nella sala del museo di fronte all’opera di quasi due metri d’altezza, un’impresa che anticipa la nascita del prototipo di Polaroid 20×24. Sul modello di Boston, nel 1979 venne allestito di fronte alla “Trasfigurazione di Raffaello” [13] dei Musei Vaticani un dispositivo in grado di realizzare fotografie istantanee di 100×300 cm, permettendo la riproduzione in quattro parti dell’opera monumentale, un cantiere di restauro che è tutt’oggi il simbolo del fruttuoso binomio tra arte e tecnologia simboleggiato da Polaroid.
Dal museo al cinema: Giant Polaroid tra arte e cultura popolare
E’ opportuno precisare che se Giant Polaroid mise a punto un’estetica ed un linguaggio propri riscontrando un considerevole successo, ciò è dovuto in parte alla fabbricazione di nuovi dispositivi da parte dell’azienda Wisner Manifacturing Company che, in collaborazione con Polaroid, commercializzò macchine fotografiche più moderne ed evolute per rispondere alle esigenze dei fotografi. L’intensa collaborazione tra artisti, fotografi e lo studio 20×24 si era infatti tradotta in un utilizzo della Giant Polaroid spesso al di fuori dello studio, ed era dunque necessario produrre apparecchi più moderni, leggeri e maneggevoli. Sono molteplici i dispositivi Wisner tutt’oggi attivi in Europa e in mani private; è il caso di Photomovie, l’agenzia milanese di Claudio Canova che per decenni ha costituito uno tra i più sorprendenti archivi di Polaroid grande formato, realizzate con un dispositivo Wisner perfettamente funzionante. Grazie all’iniziativa di Claudio Canova, nel 1996 l’allora direttore del Festival del Cinema di Venezia Gillo Pontecorvo affidò a Photomovie la realizzazione della campagna fotografica ufficiale del Festival. Canova vi aveva dunque allestito uno studio 20×24 temporaneo predisponendo tutto il necessario : dalla scelta dei fotografi alla stampa delle fotografie in situ, all’esposizione dei migliori scatti nel Palazzo del Cinema. Solo nei primi anni vennero realizzate più di duecento Polaroid per edizione, un successo tale che Claudio Canova nel 1999 ricevette una Wisner aziendalista stessa. Grazie alla fruttuosa collaborazione con il Festival del Cinema di Venezia, Photomovie conserva oggi una collezione di circa quattromila Polaroid grande formato, alcune delle quali sono state recentemente oggetto di una mostra [14] che racconta la storia dei protagonisti del Festival del Cinema di Venezia dalla prospettiva del medium che ne ha influenzato l’identità estetica.
Studio 20×24 oggi: nostalgia del passato e nuove prospettive
Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, Polaroid attraversò un momento di profonda crisi che rese inevitabile la riorganizzazione degli studio 20×24, senza tuttavia determinarne la chiusura definitiva. Se il fallimento dell’azienda fu in parte dovuto al suo ritardo a fronte dell’avvento della fotografia digitale, l’interesse nei confronti della Giant Polaroid rimase vivo : da una parte, i fotografi che avevano integrato il medium alla loro pratica artistica non intendevano rinunciarvi, dall’altra, l’innovazione digitale non determinò una rottura con il passato ma al contrario sensibilizzò le nuove generazioni ad un gusto revival e all’apprezzamento dei media obsoleti. Dal 2008, il fallimento dell’azienda determinò tuttavia il progressivo ritiro delle pellicole dal commercio, rendendo ostico l’utilizzo dei dispositivi. In questo momento critico fu fondamentale il ruolo di John Reuter, che volle garantire un futuro allo studio 20×24 di New York acquistando a Polaroid la licenza di produzione delle pellicole grande formato. Una volta assicurata la continuità della produzione, Reuter aprì un nuovo studio 20×24 a Manhattan, attorno al quale orbitarono numerose personalità di rilievo tra i quali i fotografi Chuck Close e Mary Ellen Mark. Per Mary Ellen Mark, la cui produzione di Giant Polaroid dipendeva strettamente dalla collaborazione con lo studio 20×24 di John Reuter, la sopravvivenza di quest’ultimo fu essenziale alla realizzazione delle sue recenti serie fotografiche, senza dubbio tra le più interessanti collaborazioni artistiche della storia recente dello studio 20×24. Dal 2004 al 2006, lo studio 20×24 di New York affiancò l’artista durante la realizzazione di Prom [15], una serie di ritratti di liceali americani immortalati durante il ballo di fine anno che cela, al di là l’apparenza spensierata dei soggetti, un’analisi tagliente della società americana.
L’inaugurazione del nuovo studio 20×24 a Berlino, nel 2019, segna l’ultima tappa di questo lungo percorso. Diretto da Markus Mahla, che acquistò uno dei cinque dispositivi originali dall’ex collega Jan Hnizdo [16] dopo la chiusura dello studio 20×24 di Offenbach, Studio 20×24 Berlino è l’unico, insieme al suo concorrente newyorkese ad adoperare uno dei cinque dispositivi originali. I restanti tre apparecchi sono ripartiti tra musei e studi fotografici : sino a pochi mesi fa, una Giant Polaroid era conservata a Cambridge nello studio della fotografa Elsa Dorfman. Due esemplari inattivi sono conservati a Enschede in Olanda -precedentemente utilizzato da Impossible Project [17] – e all’Harvard Museum of Scientific Instruments. Il prototipo, inattivo, è conservato al Massachusetts Institute of Technology.
L’attività dello studio 20×24 di Berlino, di natura prevalentemente commerciale, testimonia l’influenza dell linguaggio di Polaroid nel patrimonio iconografico popolare. Il progressivo abbandono dello studio 20×24 di progetti strettamente artistici non è in realtà antitetico alla visione di Edwin Land, che in Polaroid ricercava un compromesso tra arte, tecnologia e cultura popolare. Ripercorrendo la storia dell’azienda, non mancano infatti nel passato esempi di utilizzo di Polaroid a fini divulgativi e commerciali. Le Polaroid grandi formato realizzate nel 1979 da Ansel Adams all’allora presidente Jimmy Carter ne sono forse il più riuscito esempio : esse furono all’origine di una tradizione che portò più volte lo studio 20×24 alla Casa Bianca, dando vita ad un nuovo stile di ritratto presidenziale.
Molto più di un semplice studio fotografico, Studio 20×24 ha oltrepassato le frontiere dell’arte, del cinema, della scienza e della comunicazione adunando attorno a sé un fedele seguito di estimatori, professionisti ed amatori. Malgrado le numerose difficoltà incontrate a seguito del fallimento dell’azienda e l’interruzione della produzione delle pellicole, l’attrazione nei confronti della Giant Polaroid è tuttora viva, grazie alla tenacia e alla passione di un numero relativamente cospicuo di appassionati, fedeli alla visione di Edwin Land. E’ proprio nello spirito collettivo che risiede la forza di Polaroid : molto più che un’azienda, Polaroid è l’espressione di un’epoca, di una rivoluzione tecnologica, sociale e culturale. L’esperienza della Giant Polaroid è ancor più unica, poiché si instaura una relazione intima di concentrazione e cooperazione tra essa ed il fotografo nello studio. Il carattere obsoleto del dispositivo contribuisce al suo fascino e conferma l’ipotesi che ad ogni progresso tecnologico non corrisponde sistematicamente una rottura con il passato. Fotografi e artisti sono ancora disposti a viaggiare per disporre le bobine sui rulli, assaporare il momento di concentrazione che precede lo scatto e assistere allo sviluppo dell’immagine. In un mondo solo in apparenza digitalizzato vi è una vera ricerca di esperienze analogiche.
- Cf. Parikka, Jussi, Archeologia dei media. Nuove prospettive per la storia e la teoria della comunicazione, Carocci editore, 2019.
- Bolter, Jay David, Grusin, Richard, Remediaiton. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini Studio, 2002.
- Coeln, Peter, (a cura di), From Polaroid to Impossible, Masterpieces of instant photography – The Westlich Collection, Westlicht Museum of Photography, (17 giugno – 21 agosto 2011), Hatje Cantz, Vienna, 2011, p. 23.
- Rebuzzini, Maurizio, “Studio Polaroid 50×60”, in Landscape, panorama della fotografia professionale, dicembre 1986, Massimo Aldini Editore, p. 3.
- Poivert, Michel, Brève histoire de la photographie, Hazan, Parigi, p. 16.
- McKeon, Nancy, “Instant Andy”, The New York Magazine, 17 Novembre 1980, n.p.
- Cf. Craft, Catherine, Robert Rauschenberg, Phaidon, New York, 2013.
- Cf. Ford, Colin, Waugh, Auberon, Frascella, Larry, Britons, André Deutsch, Londra, 1988.
- Sayag, Alain (a cura di) Atelier Polaroid, Parigi, Musée National d’art Moderne, Centre Georges Pompidou, (30 maggio – 19 agosto 1985), éditions du Centre Pompidou, Parigi, 1985. p. 4.
- Bonito Oliva, Achille et al., Sviluppi non premeditati. La fotografia immediata fra tecnologia e arte, cat. expo., Rome, Palazzo delle Esposizioni, (19 septembre – 11 novembre 1991), Edizioni Carte Segrete, Roma, 1991.
- Ghirri, Paola, Luigi Ghirri, Polaroïd, Baldini&Castoldi, Milano, 1998.
- Gierstberg, Frits, Pietsch, Katrin, (a cura di), Ulay. What is this thing called Polaroid? Fotomuseum, Rotterdam, (23 gennaio – 1 maggio 2016), Edizioni Fondazione Valiz, Amsterdam, 2016, p. 97.
- Cf. Mancinelli, Fabrizio, A masterpiece close-up: the transfigurations of Raphael, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1979.
- Cf. Barbera, Alberto (dir.) Ritratti. Opere Uniche. 300 Giant Polaroid raccontano i protagonisti della Biennale Cinema dal 1196 al 2004, cat. expo., Venise, Hotel de Bains, T Fondaco dei Tedeschi, (26 aout-15 septembre 2019) Venezia, La Biennale di Venezia, 2019.
- Cf. Bell, Martin, Ellen Mark, Mary, (a cura di ) Prom, Los Angeles, Getty Publications, 2012.
- Gerwers, Thomas “20×24 Studio Berlin, Im Gespräch mit Markus Mahla”, Profifoto, Magazin fur Fotokultur und Technik, 2 aprile 2019.
- Cf. Coeln, Peter, et. al., From Polaroid to Impossible, Masterpieces of instant photography – The Westlich Collection, Hatje Cantz, 2011.
April 12, 2021