Luca Giordano, Fapresto, Famolto, oppure Proteo
Ribera, Caravaggio, Rubens, Dürer, Veronese e Tiziano rivivono nell’arte di Luca Giordano. E si trasformano nei sintomi di una nuova pittura.
Prodigiosamente prolifico, gli avevano affibbiato il soprannome “Fapresto” per la sua proverbiale rapidità nel dipingere; ma Luca Giordano fu anche un “fa molto”, e molta della sua produzione pittorica va sotto il segno di Proteo, perché il pittore napoletano “è un trasformista”, con la capacità di ricreare in modo smagliante il suo maestro Ribera, e poi Preti, Caravaggio e Rubens, Dürer, anche il Veronese, e il suo maestro putativo Tiziano. Nessuno sfugge al suo pennello. Giordano si cala e abbraccia la personalità degli altri artisti. Lo si può definire un gran falsario virtuoso.
Introdotto così, il profilo di Luca Giordano – nato a Napoli nel 1634 e morto nella città partenopea nel 1705 – può sembrare semplicemente quello di un acrobata del pennello, di un eclettico degli esercizi di stile, ed è solo per questa sua irrefrenabile “prestezza”, capacità mimetica e gran mole di lavoro che nei secoli ha ricevuto un moto di stima. Ma Giordano è stato a lungo poco più di un illustre sconosciuto.
Nella commedia antica esisteva un termine, la parabasi, che significava letteralmente camminare di lato, deviare, trasgredire; era quello che faceva il coro, quando al termine della recita si toglieva la maschera di attore, mostrando chi era veramente l’istrione. Con Luca Giordano occorre scoprire il suo passo di lato. Certo non ci può essere d’aiuto la sua biografia, che risulta invece essenziale per la costruzione del mito dell’eslege Caravaggio, un maledetto da manuale.
La carriera di Giordano è lineare: è un padre irreprensibile, impegnato nel lavoro; un talento precoce, abile nel far soldi e nel farli fare. Se, come un eroe al nero, Caravaggio finisce i suoi giorni da disperato, Giordano ha goduto di rendite cospicue, ha cambiato varie case, morendo settantenne, nel 1705, meno di un secolo dopo il Caravaggio. Lavora perfino a titolo gratuito, per devozione, come per la chiesa di Santa Brigida a Napoli; altre volte scuce gli anticipi, poi non consegna il lavoro, come il dipinto promesso e mai consegnato all’Accademia di Francia per Luigi XIV. Gestisce e sa sfruttare il mestiere dell’arte, che per lui diventa un campo arato da proposte commerciali.
Per Stefano Causa, docente di storia dell’arte moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, Giordano va cercato solo dentro la sua pittura, miracolo tecnico-pittorico del ’600 napoletano da valutare più nella continuità che nelle singole opere: “Luca Giordano», osserva Causa, «reinventa il Barocco romano in una versione scatenata: Rubens, Cortona e Bernini stanno sempre alle spalle. Ma si capisce che per saltar meglio ha preso la rincorsa lunga scegliendosi, tra i maestri, Tiziano e Veronese”.(1)
Ci deve essere un’ebbrezza quasi dionisiaca perché i modelli cessino di essere riferimenti generali, semplici esemplari copiativi, e si trasformino in esplosioni toniche, nuclei sonori allungabili; e già in un’opera giovanile come San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste del 1656, Luca Giordano converte i riferimenti a Ribera, Preti e Micco nei sintomi della sua nuova pittura.
I giorni della pestilenza hanno sempre offerto un surplus narrativo e visuale (chissà quanto influenzerà l’immaginazione degli artisti d’oggi la nuova pandemia da Covid 19…): da Tucidide a Lucrezio; dal Decameron del Boccaccio al Manzoni dei Promessi sposi; dal Defoe del Diario dell’anno della peste fino alla Peste di Camus. La pestilenza partenopea di metà Seicento coincide con il decollo artistico di Giordano poco più che ventenne, che riceve la commissione di dipingere una pala per la chiesa di Santa Maria del Pianto, edificata accanto alle grotte dei “pipistrelli” dove si gettavano i corpi degli appestati.
Un ex voto ordinato dal viceré Brancamonte per la cessata epidemia
Di sicuro Luca Giordano conosceva alcuni degli affreschi di Mattia Preti eseguiti nello stesso periodo come ex voto sulle porte della città. Oggi solo l’affresco della porta di San Gennaro è ancora visibile, grazie al restauro del 1997. Fortunatamente ne sono rimasti i bozzetti, conservati al Museo Capodimonte [qui il link alla nostra intervista con il direttore del museo, Silvayn Bellenger. Ndr].
Il carnaio di Mattia Preti, fra monatti che rovesciano cadaveri, cataste di salme e gorghi di miasmi che si levano dalla città, a mala pena fa trattenere l’orrore e il pianto; Giordano inserisce la massa di carcasse nella parte bassa della pala, in un brano di bravura caravaggista: dai piedi piagati del morto che sbucano repentini in primo piano, al braccio livido che sarebbe entrato un secolo e mezzo dopo nella memoria dei francesi – dalla Zattera di Géricault, alla Morte di Marat di David. Ma già nel Settecento Tiepolo nella sua Santa Tecla libera la città di Este dalla pestilenza avrebbe prelevato di peso l’immagine del bambino che si abbarbica al seno della madre.
Nel San Gennaro di Luca Giordano sopra i morti si apre un pulviscolo chiaro dove si muove un monatto etereo, coperto con tanto di “mascherina”, per difendersi dal contagio. La sua figura è già illuminata da San Gennaro, raffigurato in elevazione e reso di tre quarti, come un supplice. Il piviale è di un terso celeste dai pizzi spumosi da gran sartoria; il nero del male è come risucchiato in un gorgo dentro l’abito talare e sopra c’è la luce che irrora la parte superiore della tela, giocata su toni chiari e squillanti con il blu e rosso di Maria.
Poi in un pulviscolo d’oro appare Cristo, che con la croce assume su di sé il peso del Trionfo della morte. Del naturalismo caravaggesco è rimasto poco; già Ribera dopo l’arrivo a Napoli nel 1616 ne aveva ripensato modi e caratteri, e nelle sue creazioni la materia pittorica inizia a vibrare in una sorta di magia della resa naturale, secondo gli insegnamenti del filosofo Tommaso Campanella. Con Giordano siamo al bradisismo, al virtuosismo esplosivo. Dopo il suo soggiorno a Roma dove disegna tutto, da Raffaello a Caravaggio, il suo sogno è eguagliare i grandi veneti, Tiziano, Tintoretto e poi il grande modello, il Veronese, senza mai deporre l’abito dello sperimentatore, ma appropriandosi di tutti in maniera camaleontica.
Venezia
La bravura di Luca Giordano lascia il segno nella città dei dogi, dove l’artista, come “genio da esportazione”, viene chiamato alla fine degli anni Sessanta dal marchese Augusto Fonseca e dal mercante Simon Giogali. Nella Basilica di Santa Maria della Salute, la sua Assunzione della Vergine del 1667 rimanda a quella di Tiziano ai Frari, soprattutto in quel controluce che accoglie gli apostoli. Ma in Giordano la dinamicità della scena è accentuata. L’elevazione di Maria al cielo è così spedita da travolgere e mandare a gambe all’aria i cherubini che l’accompagnano nella gloria celeste.
A Firenze, il primo “soffitto continuo”
Nel 1667 Giordano riceve un incarico nella città meno barocca d’Italia, Firenze appunto. Ma l’artista eseguirà i grandi affreschi nella Galleria degli Specchi di Palazzo Medici Riccardi solo negli anni Ottanta. Si tratta di un’opera sorprendente, una gran macchina teatrale. La si può definire il primo “soffitto continuo”. Nella Galleria Medici Riccardi è tutta una sperimentazione di soluzioni spaziali audaci. Soprattutto è uno shock visivo per chi entra dalla cappella dei Magi affrescata nel Quattrocento da Benozzo Gozzoli, e si ritrova nello sfavillio dorato e specchiante della galleria, dove barocchi cieli di nuvole vaporose e personaggi si librano in colori chiarissimi e vivi. La mancanza di cornici fa collassare il confine fra lo spazio virtuale della pittura e quello reale, e l’instabilità visiva è ampliata dalle distorsioni prospettiche. Al centro del gorgo c’è L’apoteosi della famiglia Medici.
Infine, la Spagna del siglo de oro, dove Luca Giordano ha un approdo naturale per una pittura di corte e per potentati. E qui rimane per un decennio, dal 1692 al 1702. Accreditatosi come frescante, diventa pintor de càmara per trasformarsi nel perfetto pittore del Re. Un intero ciclo decorativo lo attende all’Escorial, il tempio sacro della monarchia. E l’artista inizia con la volta dell’Escalera, per esaltare come mandato divino le gesta di Carlo V e Filippo II. Giordano pensa alla volta come a uno spazio perforato e profondo che prolunghi all’infinito la verticalità dell’ambiente, ma non come accade su scala prospettica negli sfondamenti di Pietro da Cortona: “Luca Giordano giunge ad un’implosione dello spazio, a un risucchio del mondo esterno nello spazio chiuso, anziché all’esplosione. È come se, da una breccia, il mondo della strada penetrasse e lo spazio si dilatasse» afferma Nicola Spinosa, già Soprintendente del Polo Museale di Napoli e promotore della prima mostra dedicata interamente a Giordano nel 2001, a Castel Sant’Elmo a Napoli”.
Prosegue Nicola Spinosa: “Questa invasione del mondo negli spazi chiusi realizza un’opera che sta tra sogno e verità, che per un vero napoletano è dimensione psicologica quotidiana: la capacità di coniugare corpo e spirito, miseria e nobiltà”. È per questo intersecarsi di profondità e leggerezza che il giovane Francisco Goya, un secolo dopo, elegge Giordano tra i suoi modelli di riferimento. Ed è scoperta di Roberto Longhi quella “arietta settecentesca” che Giordano consegna a Goya e al Settecento francese.
«Vedi Napoli e poi muori»
A fine Settecento, nel suo Viaggio in Italia, Goethe scopre la “pazza gioia” partenopea e la speciale relazione con la morte. Scrive nella giornata del 3 marzo 1787, dopo la visita alla chiesa dei Girolamini: “Conviene del pari vedere Napoli, per comprendere ed apprezzare la scuola di pittura napoletana. Qui si vede con meraviglia tutta intera la facciata di una chiesa dipinta, dall’alto al basso; sopra la porta, Cristo il quale scaccia dal tempio venditori e compratori, che spaventati ruzzolano giù tutti dalle scale, a destra e a sinistra. (…) Luca Giordano doveva pure lavorare in fretta, per portare a compimento opere di quell’importanza”.
Nel 1684, fra i due soggiorni fiorentini, Luca “Fapresto” aveva avuto il fiato per completare la facciata, ma alla Cappella Girolamini, e poi a Santa Brigida e alla Cappella del Tesoro a San Martino – “dipinta tutta in un fiato, e con una sola girata di pennello” come annotava il settecentesco De Dominici -, Giordano dedica il suo finale di partita, dopo il 1702, al rientro dalla Spagna.
Nel 1703 dipinge i sei quadri per la cappella di San Carlo voluta dai padri Girolamini, convinti che per l’avvenire non ci sarebbe stato “in Napoli pennello simile a quello del S.r Don Luca”. L’opera finale è del 1704 , Il trionfo di Giuditta nella scodella di San Martino. Qui non importa il soggetto biblico: fra i colori intensi e luminosi, fra azioni concitate, in serrata contiguità di figure e racconto, Giordano dimostra come la rapidità non è certo disinvoltura sbrigativa, e come l’arte non sia l’unione di due mondi incommensurabili – il divino e l’ umano -, ma essa stessa un mondo in abbozzo, un work in progress senza fine.
(1) Vari i suoi affondi su Luca Giordano, di cui i più recenti nel catalogo della mostra monografica sul pittore, da lui curata al Petit Palais di Parigi nel 2019. Una redazione diversa da quella parigina, per la mostra su Giordano curata con Patrizia Piscitello, a Capodimonte nel 2020.
Bibliografia
- Luca Giordano –dalla natura alla pittura, a cura di Stefano Causa ,Patrizia Piscitello, Electa, Napoli 2020.
- Luca Giordano: Le triomphe de la peinture napolitaine, a cura di Stefano Causa, edizioni Paris Musees, 2019.
- Luca Giordano. L’opera completa, a cura di Giuseppe Scavizzi, Electa Napoli, 2 vol, 2003.
- Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli, catalogo della mostra a cura di Ferdinando Bologna, Napoli 1991.
- Francesco Solimena, di Ferdinando Bologna, Napoli 1958.
- La pittura del Seicento a Napoli dal Naturalismo al Barocco, in Storia di Napoli, vol. V, di Raffaello Causa, Cava dei Tirreni-Napoli 1972.
- Luca Giordano 1634-1705, di Nicola Spinosa, Electa Napoli 2011.
- Luca Giordano a Palazzo Lomellino, a cura di Nicola Spinosa, catalogo della mostra, Genova 2009.
- Due ‘mitologie’ di Luca Giordano, di Roberto Longhi, in “Paragone”, 35, 1952, pp. 41-42.
November 9, 2020