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Tarocchi: il Rinascimento tascabile

Silvia Tomasi

Piccoli fondi oro, nati in Italia nel XV secolo, i Tarocchi sono giunti alle collezioni di oggi fra strani percorsi e qualche scoperta.

C’è sempre un attimo di sospensione quando si sceglie una carta dei tarocchi: è come se il tempo si fermasse e si accettasse l’azzardo che la figura che comparirà – sia quella di un cavaliere di denari o di un Appeso, sia quella di un fante di spade o del Mondo – possa collimare per un’acrobazia associativa con la vita futura. C’è tanta voglia di un bacio della fortuna, sarà solo per una compensazione alla stressata esistenza odierna; si ha voglia di affidarsi alle carte, alle stelle, e al buon destino augurale.

Tarot said of Charles VI, the Jack of the Sword
Tarot said of Charles VI, the Jack of the Sword, entourage of Apollonio di Giovanni, Florence, around 1460, © Bibliothèque nationale de France.

I tarocchi, anzi i “triumphi”, fanno sognare; sono un gioco di carte speciali, nato in Italia nel XV secolo. Si compongono tradizionalmente di 78 carte, organizzate in quattro semi, e 22 carte “superiori”, ovvero gli arcani maggiori, anche detti trionfi. Ci sono anche mazzi ridotti – per esempio nei paesi di lingua tedesca -, o aumentati, come le 97 carte delle “Minchiate di Firenze”. Già il termine fa sorridere, anche se appare citato per la prima volta da una fonte autorevolissima: una lettera a Lorenzo de’ Medici del 1466 scritta da Luigi Pulci, serissimo poeta rinascimentale di corte, ma anche gran parodista divertito, animato dallo spiritaccio toscano. Il termine “minchiate” è probabilmente clonato sulla “mentula”, lemma latino femminile per il membro maschile: forse per dire che i tarocchi sono un gioco ‘cazzuto’, oppure per dire che non sono altro che un semplice passatempo. Doveva essere un divertimento molto raffinato, comunque, se il 16 settembre 1440 Giusto Giusti, nativo di Anghiari, notaio dei Medici e importante intermediario nella negoziazione dei contratti di condotta (truppe mercenarie guidate da un condottiero), scrive nel suo diario: «Venerdì a dì 16 settembre donai al magnifico signore messer Gismondo un paio di naibi a trionfi, che io avevo fatto fare a posta a Fiorenza con il suo stemma, superbo, che mi è costato 4 ducati e mezzo». Una bella cifr per un mazzo di “naibi”. Cosa siano i naibi ce lo dice l’etimologia araba della parola: sono le carte da gioco (questo termine si usò in Toscana fino alla metà del XV secolo).

A designare Firenze come luogo di esecuzione di questi costosi “naibi a trionfi” è il diario di Giusto Giusti. Come scrive Franco Pratesi nei suoi Giochi di carte nella Repubblica fiorentina questi «ha confermato con chiarezza il ruolo di primo piano di Firenze nella produzione di carte da gioco», mentre si era sempre ritenuto che le patrie creative dei tarocchi fossero Ferrara, Cremona e Milano. Un’attenta analisi effettuata tra il 2004 e il 2005 da Cristina Fiorini, e prima ancora da Luciano Bellosi, ha permesso di comprendere che i tarocchi Rothschild sono attribuibili a Giovanni di Marco detto Giovanni dal Ponte, artista del ‘400 fiorentino. Questi “trionfi” facevano parte di un mazzo creato a Firenze probabilmente nel 1423. Oltre alle otto carte (di cui una briscola, l’Imperatore) conservate al Gabinetto Rothschild del Louvre, apparteneva al mazzo anche una nona carta: un cavaliere di spade oggi conservato a Bassano del Grappa. A lungo considerate xilografie colorate, queste nove carte, al contrario, testimoniano una vivacità grafica e una dinamica che appartengono solo alla Firenze medicea.

Occorre dire che i tarocchi miniati non sono carte ordinarie; colpiscono prima di tutto per le loro dimensioni, raramente inferiori ai 17 cm di altezza. Sono dei piccoli raffinatissimi fondi oro. Su una preparazione di carta e gesso viene stesa la laminatura con foglia d’oro o d’argento, frequentemente “timbrata” con un punzone per formare decorazioni vegetali di fiori e foglie fitte, invase da volute o da forme geometriche, spesso a punta di diamante. Inutile dire che i pigmenti utilizzati sono estremamente costosi: dai lapislazzuli per il blu ai vermigli per il rosso fino alla miscela di indaco e orpimento, ossia i gialli cristalli sulfurei d’arsenico per il verde. Questi tarocchi sono vere e proprie miniature. I “trionfi” databili al XV secolo sono piuttosto numerosi: la percezione del loro incanto e della loro rarità s’è intrecciata al gioco del caso, favorendoli nella grande lotteria della sopravvivenza e facendo sì che queste carte miniate siano entrate in musei e collezioni di tutto il mondo.

"Valet de deniers", Anonyme, Milan
Jack of deniers, Anonymous, Milan, c. 1450 © Landeshauptstadt Hannover, Museum August Kestner. Photographer, Christian Rose.

Certo è stata proprio una carta della buona sorte quella acquistata nel 1992 dal Musée Français de la Carte à Jouer di Issy-les-Moulineaux, sobborgo di Parigi. Ospitato in un antico padiglione di fine ‘700, il fiabesco “Pavillon Conti”, questo museo, unico in Francia, è uno dei sette al mondo dedicati al tema, assieme al Museo delle Carte da gioco a Turnhout nei Paesi Bassi, a quello di Leinfelden Echterdingen in Germania, dallo spagnolo Museo Fournier de Naipes a Vitoria , al Museo delle carte da gioco e tarocchi a Capriolo nel bresciano, fino al Museo Internazionale dei Tarocchi a Vergato, sull’Appennino bolognese. La carta acquisita dal Museo di Issy è stata identificata con quella del Carro, figura degli arcani maggiori e simbolo di vittoria e trionfo sugli eventi. Preziosa come elegantissima miniatura, forse per questo magicamente preservata e sicuramente poco usata per i giochi a carte o le divinazioni, è stata messa in relazione con due carte conservate nel Museo nazionale di Varsavia, ovvero una regina di coppe e un cavaliere di denari, che sicuramente facevano parte dello stesso gioco.

Si tratta di accoppiamenti di carte che per raffinatezza, ricchezza dei colori e fondo oro punzonato, avevano fatto pensare a una provenienza dalle corti rinascimentali di Ferrara. Ora un’approfondita serie di nuovi studi e il lavoro scientifico di Thierry Depaulis, collezionista, storico dei tarocchi e delle carte da gioco, ha scosso l’attribuzione ferrarese, riconoscendone invece l’origine nella corte milanese dominata a metà del XV secolo dalle carte miniate di Bonifacio Bembo e della sua bottega. A Milano, negli affreschi quattrocenteschi della “sala da gioco” di Palazzo Borromeo, si intrattengono in una partita di tarocchi diafane creature rastremate, dalle acconciature arcane, “cicinni eleganti, eleganze esotiche” come nel 1958 scriveva nella sua lingua irta di lampi improvvisi Roberto Longhi, in occasione della mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, mentre tracciava quel solco della linea lombarda d’arte e rivelava l’inaudita raffinatezza del Quattrocento padano, dove “tutto il cosmo pare volersi ridurre, depresso, entro la breve doga (la carta di bastoni) dorata di una carta da tarocco”.

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Visconti Tarot, “The Emperor”, by Bembo, Bonifacio, XV century,  Beinecke Rare Book & Manuscript Library.

Nel 1928 Longhi aveva già inteso chi fosse l’autore del corpus dei tarocchi lombardi conservati tra la Pinacoteca di Brera a Milano e l’Accademia Carrara di Bergamo. Nel suo saggio apparso sulla rivista “Pinacotheca” attribuiva la creazione del mazzo di 48 carte indicato come “Arcani Brambilla” (dal nome degli ultimi proprietari) a Bonifacio Bembo, maestro cremonese ben attento a cogliere le novità dei “foresti” Pisanello, Gentile e Masolino e la lezione più espressiva in arrivo da Padova e Ferrara.
Bembo è a capo di una mirabolante bottega, modello esemplare del fervore culturale che anima Cremona dalla metà del Quattrocento. Con eccelsa eleganza profonde nei tarocchi voluti da Filippo Maria Visconti simboli, emblemi e motti dei duchi di Milano. A Bembo si fanno abitualmente risalire anche i tre tarocchi “Visconti di Modrone” conservati nella biblioteca Beinecke della Yale University. Ma nel 2013 Sandrina Bandera, curando una mostra sui tarocchi del Bembo intitolata Quelle carte de triumphi che se fanno a Cremona”, ha avanzato in maniera circospetta una nuova attribuzione, intravedendo nei tre arcani viscontei la mano forse del padre di Bonifacio, Giovanni, o di un altro artista dell’entourage. Altre storie si intrecciano per i tarocchi dell’Accademia Carrara. A Bergamo c’era il Mazzo Colleoni, sempre della bottega bembesca, frazionato nell’800 per le ambizioni del proprietario, il discendente Colleoni, bramoso di possedere un’opera di Fra’ Galgario in mano ai conti Baglioni. Ma come nel gioco del rubamazzo i tarocchi Baglioni ora sono finiti all’Accademia Carrara di Bergamo, mentre i Colleoni sono stati venduti con profitto alla Morgan Library di New York.

Horseman of denarii
“Horseman of denarii”, Master of the Chariot of Issy, Milan, c. 1441-44 © National Museum of Warsaw.

C’è un’altra piccola avventura a lieto fine, risalente al 2009, ovvero quella del mazzo completo di “triumphi” Sola Busca – chiamato così dal nome dei proprietari (la marchesa Busca e il conte Sola) -, acquistato dal Ministero dei Beni Culturali e destinato alla Pinacoteca di Brera. Si tratta del più antico mazzo completo esistente al mondo, dall’iconografia enigmatica, viva testimonianza del sapere alchemico-ermetico tanto caro agli umanisti. Il basilisco, l’essere mitico dal corpo di gallo e dalla coda di serpente – indispensabile per ottenere l’oro – striscia fra le carte di denari, che alludono all’opus alchemicum. È stato molto tortuoso individuare l’autore delle carte, prima attribuite allo Squarcione, maestro del Mantegna, e poi a Marco Zoppo e Giorgio Schiavone, fino ad approdare al pittore anconetano Nicola di Maestro Antonio.

Circular dish
Circular dish, tarot players, Anonymous, engobed and incised earth, lead glaze, c. 1480-1510 © RMN-Grand Palais (Louvre museum), Daniel Arnaudet.

Attraverso questi disassati percorsi attributivi, i tarocchi lombardi hanno subìto traversie e dispersioni degne dei promessi sposi Renzo e Lucia; ma sicuramente hanno costituito anche i materiali luccicanti per quel lieve capolavoro della fantasia combinatoria che è Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, dove si intrecciano storie nate dalla successione delle misteriose figure dei tarocchi del Bembo, perfetti frammenti mobili, “strutture” da riassemblare in percorsi infiniti. “Quando studiavo la simbologia dei tarocchi – annota Calvino nelle Lezioni Americane – tra le tante letture è stato un libro strano, l’Histoire de notre image di André Virel, a suggerire idee chiarificatorie”. In una lettera lo scrittore non esiterà a definirlo il libro di un “matto”. Non è un caso: nei libri dei matti si trovano alle volte idee che servono. A patto di starsene a testa in giù, come l’Appeso dei tarocchi, in attesa di quella novissima, improrogabile ‘rivelazione’ che lo spazio tiranno ci vieta, ancora una volta, di divulgare.

December 31, 2020