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Ser Serpas, con certe passeggiate

Dora Budor

Ser Serpas sfiora le superfici delle strade e dei quartieri, tentando di strappare qualcosa dai cumuli di rifiuti, per raccontare una violenza non appartiene a loro

Ser Serpas è una gran camminatrice. “Vediamoci lì tra un’ora e tre quarti, che è quanto ci metto ad arrivare a piedi da Brooklyn”. Mentre cammina le cose le piombano addosso, vengono prese di mira, sfumano fuori dall’immagine, si accumulano, oppure si allontanano. Con un costante mormorio di elicotteri da costruzione sullo sfondo, la coreografia degli incontri casuali tra la strada e le persone che vi si riversano (qualcuno romanticamente li chiama flaneur urbani) equivale a un isterico miscuglio di tempi e stati d’animo. Oggi, condannati a una continua esistenza spaziale socializza da una nuvola di notifiche che cresce a dismisura, guidati da Google maps, o dalle troppe persone che scappano da qualcosa, ci trasciniamo, dalla deriva psicogeografica al puro caos dell’ADHD.

Zurich-Photo-May-08,-14-17-06 (photo and courtesy: the artist).
Miami-Photo-Dec-08,-22-49-07 (photo and courtesy: the artist).

Nell’età aurea delle passeggiate situazioniste, il girovagare per la città era da ritenersi tempo ben speso, in quanto tempo passato fuori dai territori del profitto, in luoghi dove uno non lavora e non compra. Oggi, sappiamo che stiamo sempre lavorando o comprando qualcosa, specialmente quando non si direbbe affatto. Questa è la tavolozza. Ser Serpas scrive poesie sul treno, sul proprio telefono; i versi si spargono, con un minimo di punteggiatura. Sfiora le superfici delle strade e dei quartieri che attraversa, “cercando di strappare qualcosa dai mucchi di rifiuti”, setacciando il paesaggio delle “antenne satellitari cosparse di specchi“. Dice: “Quando trovo le cose sono con le persone. Scegliere qualcosa con il personale del luogo per cui lo stai intenzionalmente raccogliendo è una specie performance. Lavoro in questo modo perché posso farlo tranquillamente. Ma smetto se il divertimento finisce“.

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Ser Serpas, Potential Indefinite Performance, This That And Now Again, 2020. Installation view, Hammer Museum. Installation view, Made in L.A. 2020: a version, Hammer Museum, Los Angeles. Photo: Joshua White / JWPictures.com.
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Ser Serpas, Potential Indefinite Performance, This That And Now Again, 2020. Installation view, Hammer Museum. Installation view, Made in L.A. 2020: a version, Hammer Museum, Los Angeles. Photo: Joshua White / JWPictures.com.
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Ser Serpas, Potential Indefinite Performance, This That And Now Again, 2020. Installation view, Hammer Museum. Installation view, Made in L.A. 2020: a version, Hammer Museum, Los Angeles. Photo: Joshua White / JWPictures.com.

Ed è proprio così. La sua opera più recente – che Serpas descrive “non come un’opera, o più opere” ma come un insieme di potenziali che, forse, rinviano la loro forma finita a qualche altro momento nel tempo – si intitola, appunto, Potential indefinite performance, this that and now again (2020). Nell’impossibilità di lavorare in loco a causa della pandemia, i rifiuti per il lavoro sono stati raccolti, a distanza, dal suo complice a San Marino, il quartiere dove “l’esclusività è sempre all’ordine del giorno”, [1] e dove si trova parte di Made in LA 2020: a version. Si tratta della Huntington Library, che porta il nome del suo fondatore, il magnate delle ferrovie Henry Huntington, il quale, nel 1913, insieme all’avvocato George S. Patton, ha allevato la ricca enclave, e da allora si è assicurato che i valori delle proprietà siano protetti da una severa regolamentazione urbanistica. Abbracciati da giardini signorili, all’aperto, sul piazzale della biblioteca, si trovava parte delle “potenzialità” di Ser Serpas. Mentre scorro alcune note poste sotto l’immage delle opere apprendo che al pubblico locale la vista, familiare ma fuori contesto, appare controversa, persino violenta. Mentre i rifiuti sono ordinati in una griglia precisa, il letto d’erba fa sembrare che i cassetti vuoti, l’asse da stiro rovesciata, il duo di stampanti fotocopiatrici scanner all-in-one, e il mucchio di altri oggetti abbandonati, siano stati raccolti e accatastati dal personale delle pulizie; o che l’insieme appartenga a un accampamento di senzatetto. Sull’orlo di scivolare nella non-arte, questa parte sembra diversa dalla sua parte sorella, al lato ovest di Los Angeles – qui, all’Hammer Museum, la composizione di rifiuti staziona nell’atrio, pacificamente castrata, dietro alle massicce porte di vetro di una galleria chiusa. “Per una grande città un museo è come un polmone; la folla vi si riversa ogni domenica e, come sangue, ne esce purificata e fresca”. [2] Le parole di Bataille, riguardo allo strano modo che i musei hanno di seguire le orme dei mattatoi, come la loro ombra, sorgendo dove questi una volta si trovavano (o rimodellandoli ed estendendoli), spingendo il loro polo negativo ai margini della città… le stesse cose che scartiamo, ci piace invece vederle sul piedistallo, di domenica, quando sentiamo le cose in modo diverso.

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Made in L.A. 2020: a version. Installation view at The Huntington Library, Art Museum, and Botanical Gardens, San Marino. Photo: Joshua White / JWPictures.com
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Ser Serpas, Potential Indefinite Performance, This That And Now Again, 2020. Installation view, Hammer Museum. Installation view, Made in L.A. 2020: a version, Hammer Museum, Los Angeles. Photo: Joshua White / JWPictures.com.

Una dichiarazione dell’artista accompagna i suoi contributi alla Biennale di Los Angeles, dicendo che l’incombente preponderanza delle “linee guida istituzionali rispetto alla discrezionalità dell’artista” – sommata a una serie di altri fattori -, fa sì che la sua, o le sue opere, non possano essere eseguite. Tuttavia, è proprio tra le linee (e tra i luoghi) che il lavoro accade. Riconoscere che l’insieme di circostanze imposte determina livelli congiunti di in-accessibilità, e che di questo si debba tener conto, ha come risultato la rimozione dell’agenzia dal lavoro stesso. È una lezione di sussistenza, di irritabilità (che raddoppia come sintomo di riconoscimento), e di vicinanza tra noi stessi e ciò che per qualche motivo abbiamo scelto di non guardare.

Tbilisi-Photo-Feb-18,-12-36-22 (photo and courtesy: the artist).
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Connie Butler [3] ha messo in relazione Potential indefinite performance con i pezzi più iconici del minimalismo degli anni ’60; ovvero, le installazioni “dispersive” di Barry Le Va e le opere diffuse di Robert Morris. Pur condividendo un certo linguaggio formale – o meglio, riconoscendo l’astuto cenno che Serpas fa alle tattiche minimaliste – la genealogia delle sue operazioni si allontana dal canone previsto. A differenza di Morris e Le Va, i cui residui industriali sono stati lavorati, tagliati, penetrati e scartati dalle macchine – parlando dunque degli eccessi del modo di produzione capitalista senza mai occuparsi davvero del loro ciclo di vita -, gli oggetti scelti da Ser Serpas sono stati comprati, maneggiati, usati, abusati e scartati dagli inquilini delle aree da cui lei poi li recupera. È qualcosa che è stato ‘attraverso le cose’, ed è proprio in questo attraverso – voraci oscillazioni del desiderio che vanno dalla proprietà e dall’attaccamento alla dismissione e all’abbandono – il luogo in cui risiede il suo interesse per la natura dicotomica della cura e della non cura. Nello scritto intitolato Becoming trash Hannah Black dice: “in condizioni di estremo orrore, e verso le nostre stesse difese contro di esso, la noncuranza può essere un modo per mostrare cura”. [4] L’attaccamento alle cose, vive e non vive, scopre i suoi limiti quando la vita umana è trattata alla stregua di un bene scartabile da quasi tutte le azioni del sistema di governo oggi in vigore. Quando la mostra è finita, qualcun altro si prende cura dei pezzi, magari ospitandoli nella propria casa. Oppure questi tornano lentamente alle strade da cui vengono. Black: “La negazione è tanto più sbalorditiva nel suo nichilismo in quanto ambivalente e affamata”.

Laurie Parsons, che ha disertato il mondo dell’arte per dedicarsi al lavoro sociale (percorrendo una traiettoria di vita inversa a quella di Ser Serpas, che invece si è data all’arte dopo essersi disillusa dall’organizzazione comunitaria e dalle sue politiche di rispettabilità), era solita raccogliere oggetti passeggiando nelle aree urbane e post industriali del New Jersey. Riportava gli oggetti nel suo studio e viveva con loro per un po’, dicendosi “interessata alla presenza che avevano e che trovavo, potente come quella di un’opera d’arte” [5]. Partendo da una simile attrazione per la materia, ma differenziandosi dalla silenziosa austerità dei mobili in stile Shaker che caratterizza le opere di Laurie Parsons (si veda A body of work, del 1987), i ready-made assistiti di Ser Serpas spesso si esibiscono in un estroversione deviante. Nella sua mostra del 2018 alla LUMA Westbau – intitolata You were created to be so young (self-harm and exercise) –, insieme a una serie di lavori scultorei, queste opere tendono ad aprirsi in modi in cui la loro funzionalità altrimenti non permetterebbe; allungandosi, rovesciandosi, bilanciandosi sui bordi, smembrandosi e impilandosi l’uno sull’altro. Inclinati su un lato, appesi o spinti; Serpas li torce verso l’alto e oltre i loro limiti. Non è forse la stessa spazzatura che si trova nelle strade di Zurigo ora contorta per presentare il suo grande inganno? Sfidando la fissità del valore, questi oggetti ostentano il loro derrière, sotto il vestito, per un pubblico diventato attento.

Ser Serpas, devil tongue and other extremities, 2018. Courtesy Ser Serpas and Luma Foundation. Photo by Stefan Altenburger.

Performatività e sprezzo per le convenzioni e gli ordini sociali sono i luoghi dove la pratica di Ser Serpas trova terreno comune con quella di un’artista attiva un secolo fa, ma molto in anticipo sui tempi. Il modo in cui Elsa von Freytag Loringhoven trattava degli scarti – dalla strada, dalla moda, o dalla sfera domestica -, trasformandoli in mini assemblaggi di objects trouvé (Loringhoven’s limbswish, Earring-Object, Portrait of Marcel Duchamp…), così come la vestizione rapace e performativa del corpo e la sua poesia ‘confessionale’ (oggi si chiamerebbe ‘oversharing‘), potrebbero essere parte della stessa indisciplinata famiglia a cui appartengono gli scarti tessili accumulati da Ser Serpas, per poi essere rilegati in piccoli assemblaggi; oppure del suo scrivere.

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Ser Serpas, what we need is another body at Truth and Conseguences, outside view, Geneva, 2019. Courtesy Ser Serpas. Photo Annik Wetter.
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Ser Serpas, what we need is another body at Truth and Conseguences, installation view, Geneva, 2019. Courtesy Ser Serpas. Photo Annik Wetter.

Nell’ultimo anno, un sovra-utilizzo della borsa di Octavia Butler [6] come metafora di un romanzo (la riuserò proprio per questo motivo), narrativa-vettore degli straccioni e degli scrittori citazionisti, va in scena letteralmente e metaforicamente nello spettacolo esposto a Truth and Consequences, a Ginevra nel 2019. Una poesia scritta a mano sulle pareti oscurate, nello spazio accecato dai riflettori; piccole isole di spazzatura che si spogliano nude davanti a noi. Tenute insieme con delicatezza da un miscuglio di sacchetti di plastica, le isole svelano la loro flora di scarti; in un sacco della spazzatura nero uno straccio di pile ingiallito racchiude la parte inferiore di un albero di Natale di PVC beige in cui certi bastoncini di legno sono ornati da una massa di etichette di plastica, di quelle che si usano per scriverci il prezzo. Accanto si trova una coperta infeltrita che contine della lana verde pallido da cui fuoriescono un righello da falegname maciullato e un lungo filo di perline a guisa di tempio che sorge alla luce delle stelle. La mostra si intitola What we need is another body, e il comunicato stampa percorre l’esperienza di Ser Serpas a partire dalla conclusione dei sui studi ‘urbani’ condotti presso la Columbia University. Lei lo descrive come un programma di arti vuote, circondato da vuoti che aspettano di leggere e proiettarsi nel lavoro. “Ho provato cose, e altre cose. Ho provato le cose per rendere il vuoto più chiaro; ma nel vuoto sono rimasta determinata a svuotare me stessa nell’oblio“, scrive l’artista. “Mi sono presa quattro Loko e ho lavorato. Ho trovato il vuoto in me“. I vuoti vedono il lavoro e commentano la violenza presente. Davvero? Proprio in quei piccoli, schifosi, e assolutamente belli, e carissimi sacchetti di spazzatura? Non per caso – la violenza non è poi la loro.


[1] https://www.latimes.com/business/realestate/hot-property/la-fi-hp-neighborhood-spotlight-san-marino-20180324-story.html

[2] Georges Bataille, “Musee,” in Oeuvres completes, 12 vols. (Paris, 1970-88), 1:329.

[3] Connie Butler, Lunchtime Art Talk,
https://hammer.ucla.edu/programs-events/2021/lunchtime-art-talk-ser-serpas

[4] Hannah Black, Becoming Trash, foreword to Ser Serpas: Carman, published by Koenig Books, London, 2018

[5] Bob Nickas, Whatever Happened To: Laurie Parsons, Artforum, 
https://www.artforum.com/print/200304/whatever-happened-to-laurie-parsons-4510,
originally published under title Dematerial Girl, 2003

[6] Ursula K. Le Guin: The Carrier-Bag Theory of Fiction, original 1986, republished by Ignota Books, London, 2020

April 20, 2021