Sofía Hernández Chong Cuy e il Kunstinstituut Melly (un’intervista)
Dopo il cambio di nome, promosso dalla direttrice Sofía Hernández Chong Cuy, il Kunstinstituut Melly (già Witte De With) adotta una nuova traiettoria
Il Kunstinstituut Melly è stato fondato a Rotterdam nel 1990, con il nome di Witte De With Center for Contemporary Art. Il centro è presto diventato un punto di riferimento vitale per il pubblico e per gli artisti internazionali. Pubblicazioni, ricerche e didattica completano un acuto programma espositivo, che nel corso degli anni ha interessato artisti come Ken Lum (1990), Hélio Oiticica (1992), Yto Barrada (2004), Saâdane Afif (2008), Kasper Bosmans (2016), Goshka Macuga & Ahmet Öğüt (2017), Cecilia Vicuña (2019). A partire dall’incarico affidato a Chris Dercon (1990/1996), l’istituzione è solita ruotare il suo direttore. Diversi cicli hanno così preso forma, determinati dall’approccio e dagli interessi di ciascun curatore, ma sempre improntati all’analisi dei cambiamenti del panorama politico e artistico. Per esempio, quando Catherine David nei primi anni 2000 è entrata a far parte dell’istituzione ha portato con sé la propria ricerca sulle rappresentazioni arabe contemporanee, mentre Defne Ayas ha focalizzato il suo programma su questioni di crisi e co-creazione.
L’impresa principale dell’attuale direttrice Sofía Hernández Chong Cuy è stato un sforzo partecipativo triennale avviato con l’intenzione di affrontare l’eredità coloniale rappresenta dall’ex intestatario dell’istituzione. Corneliszoon de With è infatti un ufficiale navale vissuto nel diciassettesimo secolo che ha giocato un ruolo fondamentale nella politica espansionistica dei Paesi Bassi. Abbiamo perciò chiesto a Sofía Hernández Chong Cuy di illustrarci la visione, le idee e gli obiettivi che hanno determinato la Name Change Initiative e che oggi continuano a orientare i programmi del Kunstinstituut Melly.
Dal momento che il nuovo nome – Kunstinstituut Melly appunto – è stato lanciato nel gennaio 2021, sembra inevitabile partire da qui. Il cambio è stato motivato da una lettera aperta indirizzata all’istituzione e ha dato il via a un processo di consultazione pubblica e di decisione partecipativa. In che misura crede che questo modello di governance, e questo spostamento verso una natura più porosa, influenzeranno il futuro dell’istituzione?
Sofía Hernández Chong Cuy: Alcuni dei modelli che stiamo applicando a questo processo di apprendimento collettivo esistevano già prima; sono solo stati articolati in modo diverso. Negli ultimi due anni abbiamo dato forma ad altri modelli più nuovi e sperimentali. C’è stata una differenza significativa quando ho creato un ruolo chiamato “Curatore dell’Apprendimento Collettivo”, che è stato assegnato alla mia collega Jessy Kooieman solo un paio di mesi dopo l’inizio del mio mandato. Era qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, qualcosa di sperimentale. Qui è sempre stata una scelta chiave per i direttori entranti quella di portare un team curatoriale che li aiutasse a modellare e sviluppare le mostre e i programmi. Questo ruolo non è paragonabile a quello di un curatore tradizionale – un creatore di mostre, o qualcuno con un background storico. Piuttosto, è una posizione per qualcuno che sappia di pedagogia delle arti. Jessy si era appena laureata in un programma alla Willem De Kooning Academy chiamato Lifestyle and Design, dedicato al modo in cui diamo uno stile alla nostra vita.
Sentivo che era molto importante coinvolgere qualcuno che non fosse né un educatore né uno storico dell’arte, ma che fosse interessato a creare un nuovo ambiente in cui lo scambio potesse avvenire. Così quando Jessy è stata nominata le ho subito affidato compito di sviluppare un nuovo programma educativo chiamato Work Learn Program (WLP), che fa parte del più ampio ombrello dell’apprendimento collettivo. Il WLP riunisce un gruppo di giovani professionisti emergenti di Rotterdam assunti a salario minimo. Studiano qui insieme a tutor esterni e membri dello staff del museo. L’idea alla base è che attraverso questo programma di studio questi professionisti producano un progetto, o un risultato, ma anche perndano decisioni informate, sulla base di un’esperienza istituzionale. Le prime tre edizioni di questo programma hanno contribuito al processo di ridenominazione del museo, al nostro documento politico e alla progettazione dell’identità visiva del Kunstinstituut Melly.
Durante mio mandato ho poi avuto modo di esplorare una serie di interessi che avevo da tempo e che vertono sul lavoro degli artisti del Sud Globale, specialmente dell’America Latina. Una delle regioni che penso abbiano bisogno di essere osservate più da vicino dall’Europa è quella caraibica, e questo centra con il fatto che i Caraibi sono stati colonizzati, o sono un commonwealth di un certo numero di paesi europei. Come europei conosciamo poco e poco ci relazioniamo con essi. Scegliere questa regione è stato un modo per pensare a un tema importante come il transnazionalismo, e per pensarci attraverso l’Atlantico nero, nel modo in cui Paul Gilroy ne ha parlato. Noi purtroppo non siamo lì; e nemmeno la mia curatrice, Rosa de Graaf, ha avuto l’opportunità di vivere in quei luoghi e cogliere appieno tutte le sfumature della questione. Così ho chiesto a Jessy di andarci un paio d’anni, per capire meglio.
Ho voluto collaborare con persone competenti e con queste individuare gli artisti sulla base della loro esperienza e delle nostre discussioni. Questo tipo di conversazioni generano migliori criteri di selezione e creano migliori strutture per portare artisti da una regione a un’altra, e anche per introdurre, in questo modo. un insieme di preoccupazioni, simboli e segni che da noi potrebbero non essere compresi, perché non condividiamo gli stessi riferimenti. Così abbiamo avviarto un rapporto a lungo termine con due importanti personalità locali, ovvero Annalee Davis e Holly Bynoe, entrambe molto attive nei Caraibi come artiste, curatrici e organizzatrici culturali. Da poco hanno anche creato una loro agenzia curatoriale, che si chiama Sour Grass. Queste conversazioni porteranno a una serie di mostre personali e a diversi programmi pubblici. Ora stiamo lavorando sulla selezione degli artisti per il prossimo anno – l’artista del 2021 è invece Jasmine Thomas-Girvan, che vive a Trinidad e Tobago.
Si tratta di un’altra forma di apprendimento collettivo, volta a creare nuove sensibilità e forme di comprensione – invece che limitarsi a dire: “ecco una mostra collettiva su ciò che si fa nei Caraibi”, per poi presto passare a qualcos’altro. La nostra partnership con Sour Grass è di tre anni, almeno per ora, per imparare a fondo e promuovere connessioni rilevanti. A Rotterdam la maggioranza della popolazione ha uno o due genitori di origine straniera. Molte di queste persone vengono dalle Antille Olandesi. Se vogliamo coinvolgere un nuovo pubblico, questo non accadrà solo attraverso la programmazione pubblica o le iniziative come il Work Learn Program. Il processo deve anche svilupparsi attraverso un impegno a lungo termine per conoscere le culture dei Caraibi, con e a proposito di artisti che stanno lavorando lì e che possono o non possono – come di solito accade – far parte del mercato. È un processo lento ma costante, e confido che col tempo sarà anche sensibilmente trasformativo. Quando le cose vengono presentate in modo affrettato finiscono per essere facilmente incasellate. Voglio evitare che questo accada.
84 STEPS è una nuova mostra che sarà attivata nel corso di un anno. Viene presentata come estensione del vostro spazio multifunzionale al piano terra, chiamato MELLY. Potrebbe descrivere come 84 STEPS intende diventare uno ‘spazio dinamico per la socializzazione dell’arte’ e di quale natura sia la relazione con ciò che accade nel mezzo, ovvero negli altri spazi espositivi del museo?
Sofía Hernández Chong Cuy: La programmazione organizzata nel nostro spazio al piano terra, che nel 2019 i partecipanti al WLP hanno appunto chiamato MELLY, ha aumentato sensibilmente il nostro pubblico. Poi ci siamo resi conto che questo nuovo pubblico non sapeva che avevamo anche un programma espositivo al piano superiore, a soli 84 passi da lì! Abbiamo notato che le persone desiderano socializzare: vogliono conoscere ciò che stanno guardando per poi discuterne. Così, per 84 STEPS, abbiamo invitato gli artisti a ideare delle installazioni, usando questo spazio per fare programmazione, come fosse una specie di centro comunitario.
Ciò che stiamo pianificando per le prossime edizioni del Work Learn Programme fa avanzare la nostra riflessione collettiva su come gli altri possono aiutarci a dare forma ai nostri programmi e alla nostra politica. Tra gli interessi condivisi da Jessy e dalla maggior parte dei partecipanti non c’è solo quello dar forma alla politica, o dare un nome, o un design all’istituzione – anche se questi sono certo aspetti istituzionali molto importanti. C’è anche il desiderio di avere uno spazio in cui le mostre hanno luogo anche dal punto di vista curatoriale, come avviene in una galleria tradizionale. Così, all’interno delle cornici curatoriali progettate da Jessy e dal team (il corpo e la performance come siti di comunicazione non verbale; la famiglia, la storia orale e le conversazioni intergenerazionali; l’ambiente come ecosistema) presto dedicheremo il secondo piano alla presentazione di qualsiasi cosa venga creata dai partecipanti a questi programmi. Stiamo anche rinominando il programma CLIP (Collective Learning In Practice); è un modo divertente per segnare una nuova tappa del nostro percorso.
Questi programmi hanno un impatto sul suo modo di approcciare il “far” mostre?
Sofía Hernández Chong Cuy: In effetti sono sopratutto un’organizzatrice di mostre, e come tale faccio molte ricerche. Il criterio di scelta riguardo a cosa e chi esporre è qualcosa che prendo molto sul serio. Credo debba essere inclusivo, ma che debba anche rappresentare un contributo al campo dell’arte – del resto, questa è la direzione verso cui la nostra istituzione si è sempre mossa. Per me la domanda dietro una mostra è: cosa significa che ciò venga presentato al pubblico proprio ora?
Le tre esperienze precedenti del Work Learn Programme ci permettono ora di andare oltre, nello spazio espositivo, ma anche in altre forme di relazione. Lasciar che le cose accadano è anche parte di questo processo, ovvero lasciar accadere non solo gli spazi che occupi, ma soprattutto certe idee, o norme, che magari pensavi fossero le più rilevanti, o alle quali non hai nemmeno pensato e a cui ti sei semplicemente attenuto. Lavoriamo nel settore culturale, nel mio caso in questa istituzione, che è stata fatta per sperimentare e che ha la capacità di influenzare i visitatori, il pubblico e speriamo i politici, per altri modi di lasciar accadere, di accogliere, di condividere. Questo è il mio pensiero. Ed è per me molto importante non dimenticare che queste istituzioni sono fatte proprio per sperimentare come può essere creata la cultura, e non solo per presentare a come sia stata prodotta. Per quanto mi riguarda è poi importante non essere presuntuosa, magari pensando di poter cambiare il mondo; preferisco piuttosto riconoscere che lì non ho potere. Qui invece ne ho, e se offro un nuovo contributo, forte o interessante, questo avrà certamente un impatto sugli altri.
Come curatrice ha già diretto una collezione d’arte contemporanea incentrata sulla promozione dell’arte latinoamericana, negli Stati Uniti e a livello internazionale (la Colección Patricia Phelps de Cisneros). Puoi parlarci di questo passaggio al Kunstinstituut Melly e di come questa esperienza stia alimentando la sua pratica attuale?
Sofía Hernández Chong Cuy: Ho lavorato per sette anni alla Fondazione. Funziona davvero come un museo senza pareti. Non abbiamo uno spazio museale e l’idea era che il finanziamento servisse a sostenere le infrastrutture esistenti. Per me questo era un fatto importante. Ci sono realtà che sono lì e già contribuiscono alla società con cui devi collaborare, piuttosto che costruire il tuo impero. Il mio ruolo al CPPC era incentrato sulla ricerca, le acquisizioni e infine le donazioni. Ho creato programmi educativi su argomenti transnazionali – e con questo intendo idee discusse e rilevanti in tutto il continente; e le acquisizioni che potevo fare erano di artisti che non sarebbero stati necessariamente visti perché non parte del circuito del mercato dell’arte di fiere e gallerie. Se non si andava sul posto e non si identificava la loro rilevanza erano artisti che nessuno avrebbe conosciuto altrimenti.
Il mio passaggio al Kunstinstituut Melly è stato proprio perché l’avevo studiato a scuola, negli anni Novanta, che è il periodo in cui questa istituzione è stata fondata e ha iniziato a fare mostre innovative. Era una scuola e la prendevo molto sul serio. Ed è ancora una scuola! Per me è stata una sfida venir qui. Significava che dovevo lavorare per quell’eredità. Naturalmente le cose erano un po’ diverse, con il cambio di nome e tutto il resto… Ma mi è mancato molto fare mostre. Ora è anche un periodo finito. Fa parte della storia della nostra istituzione e penso che sia fantastico che si ruoti ogni 3 o 6 anni. Un grande problema in questo e in molti altri paesi è che siccome le persone non si muovono dalle loro posizioni, e i budget non aumentano, è difficile per altre persone iniziare a fare esperienza e creare una traiettoria istituzionale. Mi chiedo, come si può cambiare un’istituzione in modo sistematico se non si considera il fatto che anche i sistemi di lavoro devono adattarsi alle nuove realtà? Tutti attaccano le istituzioni per esser poco dinamiche, ma poi la domanda dovrebbe essere: in che modo il mercato del lavoro può accogliere le generazioni più giovani, le persone di altre classi e razze che hanno un interesse nelle arti, perché queste possano acquisire anche un’esperienza istituzionale?
L’esplosione del Covid-19 nel 2020 ha fermato molte attività e ha rivelato diverse forme di precarietà e disuguaglianza sociale. Come avete reagito, come istituzione, a questa crisi e al suo impatto sul settore culturale?
Sofía Hernández Chong Cuy: Abbiamo fatto cose diverse in momenti diversi. Per esempio, non abbiamo annullato i nostri impegni con gli artisti: abbiamo rimandato per mesi, ma non abbiamo annullato i pagamenti. Oppure, all’inizio dell’anno scorso, ci siamo impegnati a pagare i nostri freelance (assistenti di galleria e personale di sicurezza, la maggior parte dei quali sono artisti) anche se non hanno potuto lavorare a causa delle chiusure. Poi ho capito che molti altri artisti si trovavano nella medesima situazione. Così abbiamo sviluppato un programma chiamato Communities, nell’ambito del quale abbiamo commissionato loro dei post su Instagram.
Durante la pandemia abbiamo dovuto creare contenuti digitali, perché le nostre mostre sono state chiuse. Non è facile fare le mostre che facciamo. Serve almeno un anno per produrle. Ma cosa succede se nessuno poi le può vedere? Così abbiamo iniziato a sviluppare una serie di attività online, come i PDF scaricabili, progettati con orientamento pedagogico per svolgere attività divertenti. Le attività online sono state un modo per portare le persone ai temi delle mostre attraverso percorsi alternativi. Non si tratta solo di aspetti finanziari, ma di mantenere una connessione con il nostro pubblico, qualcosa che ha richiesto tempo creare. Il Covid ha avuto un forte impatto, a partire dallo stress emotivo e dal lavoro a questo conseguente. Tutto è ancora molto precario, e sono così tante le persone che in questi mesi si sono ammalate!
Ha più volte dichiarato di voler adottare una pratica di ascolto all’interno del quadro istituzionale. Vede una tendenza verso tale cambiamento in altre istituzioni olandesi, o europee? Si vedono molte iniziative orientate al discorso de-coloniale. Quando si potrà dire che il de-colonialismo ha smesso di essere un argomento ed è diventato pratica effettiva?
Sofía Hernández Chong Cuy: Penso che le istituzioni stiano cambiando. Nei Paesi Bassi ci sono diverse iniziative. Come il Verhalenhuis Belvédère, la Hip Hop House, il Van Abbe Museum, l’Amsterdam Museum, il Framer Framed, ecc. Tutti sono molto impegnati sul piano politico e, in termini di struttura, si lavora su più livelli. Non si tratta solo un fatto programmatico, o dell’assunzione di una certa persona. Guardo a come queste istituzioni leggono la questione dal punto di vista curatoriale, o a come stanno cambiando i loro board. In termini di inclusività e accessibilità, il programma del Van Abbe Museum è piuttosto interessante, così come interessante è stata la decisione del Rijksmuseum di smettere di usare l’etichetta Golden Age per riferirsi alla pittura XVII secolo. Certo, c’è molto chiacchiericcio in questo momento, ma si deve pur iniziare da qualche parte! Ci sono molte aspettative, ma se poi le idee siano davvero possibili è ancora tutto da dimostrare. Nel nostro caso, la tabella di marcia è stata dettata dall’idea di creare gradualmente una certa consapevolezza. Offriamo molta formazione al nostro staff, pure questa è una componente essenziale. Bisogna creare sensibilità e consapevolezza perché il cambiamento avvenga.
June 22, 2021