Justine Neuberger: tossendo ciocche di capelli d’angelo
Justine Neuberger parte da ghirigori dei più goffi e stravaganti per dipingere scene vorticose. “E poi c’è quel che la pittura vorrebbe fare”.
Di fronte ai dipinti di Justine Neuberger si viene assorbiti da una sottile membrana composta di episodi liberamente intrecciati tra loro. Se le chiedi a quali parole pensa mentre lavora lei sorride. Poi scandendo ogni parola dice: “morbidezza, riccioli, spirali, tendini, nuvole, montagne”.
Justine Neuberger è cresciuta a New York negli anni ’90, in una famiglia ebrea tradizionale. Alla Fiorello La Guardia High School, una scuola pubblica che offre anche corsi d’arte extracurricolari, ha imparato il mestiere della pittura a olio. Più tardi ha conseguito due Majors in storia dell’arte e pittura, dopo di che ha insegnato inglese ai bambini, pensando che essere un’artista fosse un sogno troppo ardito. I dipinti sono attraversati da questo background. Racconto, parentela e intimità si incontrano in una complessa zona di contatto.
“La produzione del passato è legata alle contingenze del presente, e da esse è limitata”. [1] Quelle che riconosciamo come le nostre “storie più importanti” sono per Justine Neuberger dei pali, mentre la narrazione è la tenda che da questi è sostenuta. L’artista sottolinea poi la difficoltà di trovare e definire quelli che chiameremo momenti chiave, oppure punti di svolta.
Le sue immagini sono dunque dispositivi personali e simbolici, ma in modo lasco. I personaggi e le loro interazioni vanno letti come catene significanti, piuttosto che come singole storie. Diversi ricordi si coagulano; le fiabe, il folklore e il fantasma del giudaismo innescano la memoria storica. Gli elementi parlano l’uno con l’altro, attraverso i colori e quelle che sembrano connessioni invisibili.
Da qualche parte
Justine Neuberger condivide un passaggio di Trauma Explorations in Memory di Cathy Caruth, che dice:
Le poesie, in questo senso, sono sempre in cammino, stanno andando verso qualcosa. Verso cosa?
Verso qualcosa di aperto, occupabile, forse verso un “tu” a cui ci si può indirizzabile, a una realtà indirizzabile.
Il mondo fantastico di Justine Neuberger poggia su una struttura simile a quella di cui lo spettatore dispone. In questo modo fa giocare tra loro virtù e desiderio, offrendo spesso anche la possibilità di imparare una certa lezione. “Il mostro – dice l’artista – è sempre qualcosa che appartiene al nostro mondo; è un’oscurità interna in agguato”. Eppure, allo stesso modo, nelle sue immagini ricorrono soccorritori e scene di protezione o salvataggio. “La pittura è un linguaggio in sé; la linea, come il colore, sono sentimenti in sé. Cerco di sposare figurazione e ornamento, ovvero elementi che possono attrarre anche gli spettatori che non parlano la lingua della pittura”.
Attraverso diversi livelli di finitura le aree di nebulosità pittorica creano un luogo statico, a partire dal quale sognare, al di là di una narrazione fissa e, allo stesso modo, tra ciò che vuole l’artista e ciò che, invece, vuole la pittura: “Quanto dipende da me e quanto dal mondo che mi circonda? Così la trementina si aggiunge alla foschia, incuriosita dall’autonomia dell’acquerello.
Nel modo in cui la pittura si aggrega tutto sembra morbido e soffice. Ma c’è un’acutezza in certe figure pungenti, e nel rapporto tra l’ingenuità e qualcosa di più ambiguo, che rasenta la figura fiabesca della strega demoniaca. Ed è proprio con la curiosità di un bambino immerso nelle narrazioni descrittive che i quadri si dipanano. Anche se nulla si muove, si tracciano i momenti del prima e del dopo; un po’ frettolosamente gli occhi si spostano avanti e indietro, nel mezzo di tutto ciò che accade. Quando la tristezza si manifesta gli alberi diventano improvvisamente più cupi; o forse non è così?
Il modo in cui gli elementi dei tableaux sono dipinti li fa sembrare piccoli pesci succhiatori che ti mordicchiano gli occhi e le guance. Vieni ipnotizzato e portato in un mondo senza scala, nei diversi sensi della parola, come vapori sospesi negli stati intermedi che i dipinti rappresentano. Le figurine hanno un’opacità, un’intoccabilità misteriosa, un palpabile potenziale di trasformazione; sono ambigui e carichi. In una mostra recente un soffice tappeto rosa copre il pavimento e oscura i passi, rendendo più morbido l’approccio alle terre mistiche. C’è seduzione, attraverso il vuoto, oppure con un’overdose di intenzioni stratificate. C’è violenza. Le forze trainano.
Sembra di avere la visione di un mondo che non è il nostro, ma che un tempo viveva nella nostra immaginazione, quando le storie della buonanotte e le loro morbide illustrazioni colorate a matita ci facevano girare gli occhi all’interno. Il linguaggio visivo è accattivante. Assorbe, succhia, ci afferra con dita troppo piccole, e unghie sporche e minuscole. Un cielo insanguinato nella notte di Halloween, una donna sproporzionata simile a un’aureola; c’è un segreto, una rotazione magica. La vicinanza accattivante del riconoscimento riporta anche lo spavento di un bambino; sono quelle maledette lezioni di vita sulle quali tutte le storie sembrano prosperare.
Quando Justine Neuberger era costretta a far convivere la propria pratica pittorica con il lavoro quotidiano era solita concentrarsi su un quadro alla volta, massimizzando gli sforzi. Negli ultimi due anni invece, essendosi dedicata completamente alla pittura, ha lavorato per piccole serie, distribuendo il materiale su gruppi di cinque tele, piuttosto che svilupparlo tutto in un solo quadro. In entrambi i casi le narrazioni avanzano nel tempo. Durante il processo di pittura, infatti, le relazioni si chiariscono e cambiano. Dall’idea originale si passa a una composizione di gesti e pose, con uno stile derivato dagli schizzi più bizzarri del suo taccuino.
Il fantasma delle parole, in altre parole
Muovendo dall’idea fissa di ciò che vuole trasmettere, Justine Neuberger mette insieme sfondi, gesti ed espressioni facciali che si adattano allo scopo che si è prefissata. Confida negli scarabocchi più goffi e stravaganti, e a quelli si affida per comporre scene vorticose. “E poi, c’è quel che la pittura vuole fare”.
[A proposito del rapporto tra i pittori figurativi e le loro figure, qui il punto di vista di Giangiacomo Rossetti. Ndr].
“Non ci sono confini netti in natura”, dice Justine Neuberger. “Stando fuori, mi chiedo come la luce cadrà nel mio mondo”. Usa il fumo per dipingere; (ancora quel sorrisetto) “un duro sinuoso e morbidamente riccioluto”. Sembra che ci siano capelli d’angelo ovunque.
[1] London Review of Books, “Stick-at-it-iveness”, Mary Hannity, in Imperial Intimacies: A tale of Two Islands by Hazel V. Carby
December 22, 2023