Henrik Potter: CARDINE
Il lavoro di Henrik Potter non è qualcosa che sta in mezzo a qualcos’altro. È piuttosto una congiunzione. È una mutualità, ossia una sorta di enjambment letterale
Allegato
Non chiamiamole finestre. Chiamiamole opere incernierate e piccole tele. In realtà quelle grandi sono di mussola, piuttosto che in tela. I bordi di compensato delle piccole riproduzioni dipinte sono schegge di vernice.
Il lavoro di Henrik Potter (nato nel 1984 a Losanna) implica disegni, dipinti e oggetti. Eppure sembra avvicinarsi a tutte le sue declinazioni come alla creazione di una medesima entità, piuttosto che di una semplice superficie. In quelli che l’artista chiama “fuck ups“, la mano dell’autore si manifesta in certe tracce di contatto – per altro, Henrik Potter dice di trovarsi a suo agio lavorando “male”. Simile è l’impulso da cui provengono le opere incernierate o i piccoli dipinti, che eseguiti adottando sempre, qualora un problema si presenti, la soluzione laterale. Nelle loro differenze, le opere di Henrik Potter sono pensate per stare in presenza l’una dell’altra, avvelenandosi e contaminandosi a vicenda. Quale impulso? Tristezza, dolore, amore, sentimenti sfuocati.
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Si offrono tutti i lati delle sue “cose”, non solo quelli buoni; Potter gioca con le dimensioni, con la direzione e con le relazioni tra l’entità e il corpo dello spettatore. Infatti, tutto alla misura di quest’ultimo, alle dimensioni di una mano, all’impronta digitale. Ogni elemento è parte di una sequenza, come un piccolo tratto di cucitura a mano nella mussola tesa fino a raggiungere dimensioni più che umane in un’altrettattanto piccola serie continua di immagini appropriate.
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Qualità corporee
Una serie di dipinti su legno di Henrik Potter muove da nudi riferimenti ad altri pittori. Lo spettatore che dubita è mantenuto sulla retta via da titoli come ‘…scuse a Jannis Marwitz’, oppure ‘…scuse a Philip Guston’. Mente inseguiva leggibilità e rappresentazione Henrik Potter ha trovato l’uso di immagini e sentimenti altrui – Potter nota come altri prima di lui abbiamo già fatto un ottimo lavoro. I dipinti sono grandi come mani. C’è una qualità assorbente in questo immaginario, in gran parte dovuta al modo in cui le piccole tavole sono dipinte. Sono immagini che aspettano di affinarsi, occhi assonnati che guardano uno schermo in attesa che la nebbia del cervello dipani e il muco degli occhi si sciolga. Oppure, come lo schermo che diventa rosso in un gioco Wolfenstein 3D. Quando ti uccidono gli occhi si riempiono di sangue. Lo puoi sentire. Teste decapitate in uno sciroppo malinconico. Nascono da un interesse, che si sboccia sul luogo in cui il sottile disagio da cui scaturiscono tutte le opere alligna; da qualche parte, tra la grandezza e il fallimento, tra il ventre molle e la bestia. Il succo sta nell’interazione.
[Qui il link al nostro scritto su Jannis Marwitz. Ndr]
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Cercando di trovare un modo per nascondere le graffette che tengono la mussola tesa sul legno, una miscela di colla e argilla è diventata il modo per far sì che ogni piccolo punto delle opere risulti manipolato. Nei dipinti il compensato scheggiato dà scala e consistenza; sono infra-collegamenti affinché le entità entrino in contatto con sé stesse e con i loro spettatori. Si avvertono i colori come temperature, dissolvenze, decisioni.
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A parte l’essere leggermente più alte di una persona e in piedi sulle sue “gambe”, l’unica vera connessione tra i 45 lavori presentati nella mostra del 2019 al Künstlerhaus Stuttgart è il loro formato. Come paraventi distribuiti nello spazio, questi grandi pannelli autoportanti si collocano a metà strada tra la scultura tessile e la pittura. La superficie sembra testurizzata con il tatto; dettagli di linee tratteggiate/disegnate; improvvisi dipinti delle dimensioni di un bulbo oculare continuano a spostare lo sguardo. Guardando il lavoro di Henrik Potter stiamo seduti nell’oscurità, in attesa che l’immagine si chiarisca. C’è un’immobilità che si muove. Sta nelle immagini inserite e tagliate in dettagli misteriosi, nella coesistenza di morbido e ruvido, negli resti d’argilla lasciati da una presa. L’autore si sposta lungo la corda, con il mezzo della pittura sensoriale.
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Nella seconda personale dell’artista da Sundy, a Londra, le opere, incernierate e a misura d’uomo, sono state appese utilizzando un sistema di sospensione per monitor; ovvero un instancabile braccio teso che le offre con eleganza allo spettatore. Le ante, ricoperte di mussola, si aprono utilizzando un cuscinetto meccanico che collega i due elementi e permette di posizionarle ad angolature diverse. All’interno della galleria, i pannelli hanno colori caldi; l’opera all’esterno, invece, regge una candela e tende al nero. Ciò che Henrik Potter chiama “generosità” è di fatto un sostegno all’impressione dello spettatore, una rassicurazione che la richiesta dell’opera di esser guardata è del tutto giustificata. A tal fine l’artista dedica tempo e dimensioni. I pannelli si aprono, si muovono in avanti e di lato, come performer proiettati verso una grande sala gremita di spettatori. Forma e medium cambiano, nelle mani dello spettatore. Con una presenza stranamente robusta nella nostra mente, ci pare guardare l’immagine di un’insieme contenuto in una forma o nell’altra; l’artista è al di là di noi.
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Il palindromo dell’essere artista
Lavorando da un luogo di disagio, incerto se ciò che ha appena fatto sia molto buono o molto cattivo, Henrik Potter abbraccia entrambe le opzioni, alla ricerca di una forma che sappia reggersi da sé. È quello che potremmo chiamare un atteggiamento di amorevole conflitto, in cui il tempo e le dimensioni, in quanto parametri di solidità e fiducia, aprono un spazio senza costrizioni. Potter sceglie di lavorare con il materiale piuttosto che sovrastarlo. Può essere ordinato o disordinato. Anche il sub ideale può funzionare. Gli errori nella sua pratica sono lì per bilanciare altre perfezioni. Nel cercare che le opere siano sempre aperte e semplici c’è una qualità di accoppiamento, quasi di transazione. Ma ci sono anche corpi senza testa, non necessariamente violenti, ma pur alterati nella realtà. “L’opera stessa – nota Potter – diventa un sostituto del corpo dell’artista”.
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Onestà e trasparenza permeano l’intera pratica di Henrik Potter. Ti senti come un bambino che mordicchia la vecchia pittura che trabocca da un’opera di Philip Guston, oppure una donna che si corregge i capelli prima di spostare un mobile. Il lavoro di Potter non è qualcosa che sta in mezzo a qualcos’altro. È piuttosto una congiunzione. È una mutualità, un enjambment letterale. Le opere sono qualità corporee unite tra loro, pensiero in temperatura, agilità e riconoscimento. Punti come secondi, come il tempo che passa. Grande o piccolo, come uno sforzo. La soggettività come tensione dialettica tra le posizioni; rinvigorente.
November 4, 2021