Wojciech Bakowski: oniriche narrative (un’intervista)
Soffermarsi sulle possibilità di immagini, suoni e parole è per Wojciech Bakowski un modo per immergersi nei confini dell’intuizione umana, partendo dal sogno
Attraverso recessi temporali, interferenze auditive ed enunciati poetici, Wojciech Bąkowski – che è nato a Poznań nel 1979 ed è attualmente rappresentato dalle gallerie Stereo (Varsavia) e Bureau (New York) – dischiude un microcosmo intervallato da voli interiori e scavi malinconici. Soffermarsi sulle possibilità delle immagini, dei suoni e delle parole diventa per Bąkowski un modo per immergersi nei confini dell’intuizione umana, della cognizione e del mezzo stesso – mentre si rivela nei limiti della propria realtà. Presentati per la prima volta come serie da Stereo, a Varsavia nel 2021, i disegni a carboncino di Wojciech Bąkowski – eseguiti su cartoncino sabbiato – evocano stati di sonno granulari, sfiorando la sfocatura dell’immaginazione attraverso ricordi onirici e sottoesposti di oggetti prosaici, gesti, inquadrature, vedute. In questi notturni, dove il tempo si dilata e la memoria riemerge, il trasferimento delle tecniche del sogno lucido nella sfera della rappresentazione porta a uno svolgimento contratto; una parziale decifrazione di codici e linguaggi; e a fare i conti con l’impossibilità di comunicare.
Dove sei cresciuto?
Wojciech Bąkowski: Sono cresciuto a Poznań, in un complesso residenziale di edifici costruiti con “large board”, secondo una tecnologia modulare in uso nei primi anni ’70. Questo ambiente ha influenzato l’estetica delle mie opere, quelle artistiche come quelle musicali, e le mie poesie.
Come sei arrivato a disegno, animazione, performance, cinema e musica?
Wojciech Bąkowski: Ho sempre disegnato, ma sono arrivato alle altre forme espressive man mano che acquisivo nuove competenze, prima alla scuola d’arte e poi negli studi artistici. Non mi bastava esprimermi in un solo settore. Sentivo il bisogno di lavorare con più strumenti. Così ho iniziato con i film, la musica, il disegno artistico, la scultura. A volte questo eclettismo mi preoccupa, ma riguardo al motivo per cui ho scelto di fare arte la questione è molto semplice. Non ero adatto a nient’altro. Mio padre stesso pensava che per me non ci fosse altro futuro possibile.
[Qui il link a Voyager, ultimo lavoro musicale di Bąkowski. Ed]
Pensi che l’essere polacco, e città come Varsavia e Poznan, con il loro tessuto vitale, abbiano influenzato la tua poetica?
Wojciech Bąkowski: Credo che l’esistenzialismo e la malinconia delle mie opere provengano da una precisa mentalità polacca – anche se a questo proposito temo di esagerare. Dal punto di vista visuale, l’atmosfera che si respira viene delle mie fascinazioni infantili – come quella per la ferrovia, per esempio -, oppure da ciò che vedevo intorno a me: piccoli appartamenti, corridoi, grandi isolati, ascensori, cortili con cani che abbaiano contro grandi muri. Questi elementi hanno certamente giocato un ruolo decisivo.
Nel corso della tua carriera hai spesso lavorato in gruppo. Come la tua pratica individuale incontra il lavoro collaborativo?
Wojciech Bąkowski: In realtà ho lavorato in gruppo solo all’inizio della mia carriera. Il lavoro è diventato una sorta di formazione collettiva, dove l’uno imparava dall’altro, e dove il gruppo, in quanto tale, ci rendeva più visibili. Mi riferisco in particolare all’esperienza di Penerstwo. Tuttavia, più in generale, non credo di essere adatto al lavoro di gruppo. Sono un individualista e vedo negli altri un motivo per competere.
Il testo che ha introdotto la tua ultima personale da Stereo, a Varsavia, inizia con una citazione di Flannery O’Connor in cui la scrittrice parla della capacità di “fare qualcosa da una piccola esperienza” e di come il semplice “sopravvivere” alla propria infanzia fornisca materiale di lavoro sufficiente al resto della propria vita. Cosa pensi di quest’idea, considerando il tema dell’autosufficienza e in relazione alla tua personale esperienza?
Wojciech Bąkowski: Sono contento che Michał abbia usato questa citazione. Le parole di Flannery O’Connor descrivono bene il mio approccio. Non sono un viaggiatore, non cerco ispirazione in circostanze insolite. Mi nutro dell’ordinario, del quotidiano, di ciò che costa poco ed è a portata di mano. Se viaggio, è piuttosto un viaggio interiore – trovo perciò ispirazione nei miei ricordi, nell’immaginazione e nei sogni. Detto ciò, non credo che questo sia l’unico modo; altri artisti hanno atteggiamenti diversi e fanno comunque buona arte.
Pare che la poesia giochi un ruolo significativo in tutta la tua produzione. Insieme alla letteratura, al testo e alla forma scritta, come si formano il tuo background e i tuoi punti di vista? In termini di processo, che valore ha per te questo tipo di linguaggio?
Wojciech Bąkowski: Ho un udito sensibile. La parola ha su di me l’effetto più forte. Per questo motivo è alla base di tutte le mie azioni, e anche quando non fa parte del lavoro, finisce per esserne la premessa. Ogni mio disegno, oggetto o installazione in realtà presenta una questione poetica. Non posso giocare con la pura espressione visiva. A volte provo invidia per gli artisti che sono in grado di farlo.
Quale significato hanno dunque la parola e la recitazione hanno nel tuo lavoro?
Wojciech Bąkowski: Sono entrambi fondamentali. A volte la visualità mi sembra un’aggiunta modesta alla letteratura – non può che ribadire un significato. Quando rinuncio a usare la voce o il testo scritto, allora espando il titolo dell’opera, come faccio nei disegni. La parola non può mai essere spinta fuori dal mio lavoro, perché ne è il fondamento. A volte dico di essere un cattivo poeta che deve aiutarsi con le immagini.
Potresti spiegare meglio il significato che la parola e la recitazione hanno nel tuo lavoro?
Wojciech Bąkowski: Hanno un ruolo di primo piano. A volte la visualità mi sembra un’aggiunta modesta alla letteratura – stringe solo il significato. Se rinuncio a usare la voce o il testo scritto, allora espando il titolo dell’opera, come faccio nei disegni. La parola non può mai essere spinta fuori dal mio lavoro perché ne è il fondamento. A volte dico che sono un cattivo poeta che deve aiutarsi con le immagini.
Ti esibisci dal vivo da molto di tempo ormai. Cosa comporta la performance, rispetto a mezzi meno diretti come il disegno, l’installazione o il film?
Wojciech Bąkowski: Credo che qui si tratti del mio approccio alla vita; non rispetto la mia privacy. Uso me stesso come un oggetto artistico. A volte sento che la mia presenza fisica – come parlo o cammino, per esempio – è necessaria per produrre nell’opera l’atmosfera che cerco. Si tratta di un altro quadro, aggiunto alla mia poesia. Naturalmente anche vanità e esibizionismo giocano un ruolo importante. Ma queste sono questioni di psicologia profonda – argomenti per un’altro tipo di conversazione.
Un aspetto importante del tuo lavoro è l’economia degli elementi descrittivi, nonché la coerenza del tuo interesse per gli oggetti quotidiani, comuni, accessibili. Spesso si tratta di quel che è a portata di mano e di circostanze virtualmente prive di caratteristiche specifiche. Potresti indicarci l’origine del tuo interesse per gli oggetti d’uso, la ritualità e la ripetizione del quotidiano?
Wojciech Bąkowski: Mi concentro sulle cose semplici perché sono comuni a molte persone; questo permette di avere metafore profonde. Con “profondo” intendo dire che la metafora è riesce a stabilire molte associazioni per molte menti contemporaneamente. Tutti sanno cosa sono una gamba, un tavolo o un mal di denti. Cerco la via più breve per arrivare al cuore del mio pubblico, quindi scelgo questo tipo di canali. Del resto, come osservatore, non gradisco lo snobismo erudito, esotico e intellettuale nell’arte. Mi piace quando gli artisti usano cose semplici e ordinarie – è allora che il loro talento brilla. Lo stesso vale per la tecnologia. Quando qualcosa è costoso, futuristico e misterioso, allora perdo interesse. Ammiro le cose semplici fatte con facilità.
Come fai a rimanere fedele a questa semplicità, alla natura ordinaria dei tuoi soggetti, rispettando la chiarezza formale?
Wojciech Bąkowski: In effetti, non sono sempre semplice. A volte, soprattutto nei disegni, lascio spazio ai simboli. Ma mi assicuro sempre che il contenuto non sia troppo specifico – cioè personale – o troppo generale – cioè filosofico. Credo sia una questione di potenza del pugno. Quando i pugili, per esempio i pesi medi, passano ai pesi massimi, perdono flessibilità e potenza dei colpi; così finiscono per perdere contro gli avversari il cui peso massimo è naturale. Quel che c’è tra pubblico e privato è naturale. Cerco un campo di esperienza comune, ma da una “prospettiva da marciapiede”. Non tocco le questioni sociali o le complessità della mia storia familiare. Questo stare “nel mezzo” porta spesso, ma non sempre, a composizioni fatte di elementi semplici.
Hai già parlato di nostalgia del passato. Nel tuo lavoro il tempo appare spesso e in molte forme. Il ticchettio degli orologi, un telefono che vibra, le cifre, ma anche le forme metaforiche e non letterali. Da dove nasce la tua preoccupazione per la dimensione temporale? Cosa guida la tua indagine sul tempo?
Wojciech Bąkowski: Come ho detto, sto osservando le parti più semplici e basilari dell’esistenza. Il tempo è una di queste.
In che modo il tempo ti sembra semplice?
Wojciech Bąkowski: So che il tempo è una questione difficile in termini di fisica e astrofisica. Quello che intendo è il tempo nella vita di una persona. Forse ho usato la parola sbagliata – invece di semplice, forse dovrei dire fondamentale, perché sperimentare il tempo è uno dei fondamenti dell’esistenza. Ma in effetti, il tempo può accartocciarsi ed essere processato dai sentimenti, o dalla memoria. In effetti, non è così semplice.
Riguardo ai sogni, piuttosto che esser condizionato da codici o narrazioni preesistenti, il tuo approccio sembra specifico e personale. Perché, dunque, ti interessano i sogni, il sonno e i cambiamenti nella percezione umana?
Wojciech Bąkowski: Sono generalmente interessato alla vita interiore. Il sogno è un campo speciale in sé. Qui i pensieri si trasformano in immagini, suoni, simboli. Spesso i sogni, così come i sogni lucidi e le visioni ipnagogiche, generano errori e incoerenze. Attraverso di essi possiamo vedere molte verità dell’animo umano.
Come e quando è iniziato il tuo interesse per i sogni? C’è stato un evento, un incontro o un’esperienza particolare che l’ha innescato?
Wojciech Bąkowski: È nato dal mio fascino per il passato. Ogni mattina bevo il caffè e guardo spensieratamente vecchi film in VHS degli anni ’80 e ’90 girati a Poznań – principalmente nel quartiere da cui provengo. È una specie di rituale. Ho trovato i film su internet. Si tratta per lo più di registrazioni private e anonime. Ho scaricato i file su una chiavetta per poi vederli su un grande schermo LCD che sta nel mio studio. Qualche tempo dopo le immagini hanno cominciato a penetrare nei miei sogni. Ho capito che potevo sviluppare questi sogni, avendo avuto esperienze di sogno lucido di tanto in tanto. Poi ho comprato un manuale sulle tecniche che permettono di sognare lucidamente e ho iniziato a praticare.
Cosa trovi avvincente in questi incontri? Si tratta forse dell’abisso che distanzia il pensiero dal sogno, o i pensieri dalle immagini?
Wojciech Bąkowski: Vedo questo abisso come un mondo in cui pensieri e immagini diventano tutt’uno, o si compenetrano a vicenda. Ci sono sensazioni intersensoriali – formazioni ibride che sono pensiero, immagine e molte altre cose allo stesso tempo. Questo mi affascina.
Perché hai sentito il bisogno di portare la coscienza in uno stato inconscio, avvicinandoti così alla pratica del sogno lucido?
Wojciech Bąkowski: Di nuovo, dipende dal passato. Sono una persona estremamente malinconica e sentimentale. Se qualcuno mi avesse garantito che dopo la mia morte mi sarei ritrovato nella tenuta Chrobrego a Poznań nel 1987, per esempio, mi sarei suicidato immediatamente. Il sogno lucido mi permette, per esempio, di raggiungere luoghi del passato, perché sono immagazzinati nel cervello. Cerco di arrivarci, con risultati diversi. Controllare un sogno non è facile.
Nella musica, come nei lavori audiovisivi, sembra che tu voglia spingere l’attenzione verso più scale temporali e modelli di movimento attraverso operazioni di associazione e sovrapposizione. In particolare, il tuo lavoro Sound of My Soul mi ha fatto riflettere su come il “suono” e l'”anima” (o, più in generale, il sensoriale e lo spirituale) influenzino la nostra percezione del tempo e della realtà. Questi tipi di processi sono dunque pertinenti alla tua ricerca sulla cognizione?
Wojciech Bąkowski: Una volta, del tutto intuitivamente, senza pensare, ho detto che la mia anima è viola. Questa affermazione ha divertito i miei amici. Ma c’è qualcosa di più interessante in questa battuta. Mi piace descrivere l’atmosfera che mi riempie la maggior parte del tempo, e uso la sinestesia per descriverla. Uso convenzionalmente la parola “anima”, che significa “vita interiore”. Intendo il termine come l’insieme della vita interiore, nella percezione di tempo e realtà, compresi i suoni. Tuttavia, non credo nello spirito; non sono un dualista.
Nel tuo navigare l’ambiente urbano e l’immaginazione umana sembra esserci una connessione ricorrente, o una collisione, tra un paesaggio esterno, mondano, e una dimensione interiore – il paesaggio della mente. Cosa cerchi esplorandoi i limiti della cognizione, dell’intuizione umana e del linguaggio artistico?
Wojciech Bąkowski: Oggi ho ricevuto in regalo un bellissimo album con disegni di Saul Steinberg. Trovo che abbiamo molto in comune, per quanto diverse siano le nostre estetiche. Anche lui cercava di creare un autoritratto interiore, usando paesaggi, date, numeri e simboli. È difficile mostrare lo stato dell’anima in un altro modo – tutto il materiale di costruzione viene dall’esterno. All’interno, invece, questo viene elaborato e reso in un sistema diverso dalla realtà; un sistema che, tuttavia, dice molto sulla realtà stessa. Non si tratta di vivere strane visioni narcotiche – si tratta, piuttosto, di intendere una verità. Wittgenstein diceva che il poeta deve sempre considerare se ciò che dice ha qualcosa a che fare con la verità, il che non significa necessariamente che egli dica cosa accade nella realtà. Credo che questa frase spieghi molto.
November 17, 2022