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Sara Deraedt: sottovuoto

Emile Rubino

Con un paradosso Sara Deraedt recupera la funzione della visualità, operando uno spostamento dell’impulso discorsivo lontano dalle parole

Scrivere del lavoro di Sara Deraedt significa fare i conti con la scarsità di parole che attentamente l’artista cerca di mantenere intorno alle sue opere. A fronte di una sola intervista pubblicata e nessun testo di sala disponibile, il lavoro di Sara Deraedt sembra progettato per tracciare un discorso al quale aggiungere parole sarebbe un po’ come infilare briciole nel becco di un aspirapolvere. Perciò, se da una parte sembra azzardato presumere che il silenzio aspetti proprio la parola, è altresì chiaro che Sara Deraedt si sforza di segnalare una criticità evitando di ricorrere ai quei circuiti di dichiarazioni che “funzionano come memi pronti all’uso”. [1] Le sue mostre – mediate, circospette e spesso enigmatiche – sono piene di vuoti e lacune meticolosamente escogitate; e l’assenza di informazioni sull’artista è intenzionale. Nel catalogo di The Photographic I – Other Pictures (S.M.A.K, 2018) la sua biografia occupa con una sola riga lo stesso spazio dei quelle degli altri artisti esposti, che invece riempiono una mezza pagina: Sara Deraedt (1984, Asse) vive e lavora a Bruxelles. Ma per quanto non siano circoscrivibili a parole, le situazioni che Deraedt costruisce sono tanto ermetiche quanto aperte. In questo contesto, il suo silenzio implica uno spostamento della vulnerabilità che deriva dal linguaggio e dalle sue inevitabili mancanze. Potrebbe addirittura trattarsi di una rivendicazione, quella al diritto artistico all’opacità, in un mondo di che, al contrario, si aspetta costante intelligibilità – sarebbe anche un modo conflittuale per rendere gli spettatori responsabili della loro soggettività e dei loro desideri.

Nella personale del 2016 da ESSEX STREET a New York Sara Deraedt ha presentato una serie di nove piccole fotografie di alcuni aspirapolvere. Immortalati in modo casuale, ma preciso, sotto il cupo bagliore degli scaffali, o attraverso le vetrine dei negozi, gli elettrodomestici appaiono ultraterreni. Simili a creature venute dalla profondità degli abissi, hanno tutti caratteristiche distintive. Sono allo stesso tempo austeri e colorati. Suggeriscono il movimento, ma sembrano intrappolati nel loro ambiente. Sono insomma fuori portata, come un cordless Dyson. Per gli standard fotografici le stampe uniche Lambda, Xerox e Noritsu scelte da Sara Deraedt sono incorniciate in modo classico, persino conservativo. Centrate e poggiate su tavole bianche poste dietro al vetro di piccole cornici nere, la maggior parte di queste stampe è di dimensione standard, secondo il rispettivo orientamento e rapporto. Alcune di queste hanno cornici verticali più strette. La fotografia sfocata di tre teste di aspirapolvere per animali Dyson è ripetuta due volte in dimensioni diverse. La più piccola sta in una cornice orizzontale e ha una generosa quantità di spazio intorno. Quella leggermente più grande occupa una cornice verticale che la limita visivamente. Con l’eccezione di una stampa Xerox dell’immagine di un tubo vuoto appoggiato a una superficie metallica, tutte le altre sono tagliate fino al bordo. L’inquietante quantità di attenzione messa in queste minute considerazioni formali contrasta con lo stile altrimenti convenzionale dell’inquadratura. Come oggetti e come rappresentazioni, le immagini di Sara Deraedt giocano con la standardizzazione, in un modo che sfiora l’assurdo. Da una decisione all’altra, o per difetto, la natura incongrua della spoglia impresa fotografica di Sara Deraedt emerge come un’inaspettata anomalia nel paesaggio della fotografia contemporanea.

Nelle recensioni pubblicate da Artforum e dal New Yorker, i critici hanno cercato di collocare le immagini di Sara Deraedt provando a chiedersi se fossero più vicine al formalismo di Edward Weston, alla nuova oggettività di Albert Renger Patzsch o a fotografi concettuali come Anne Collier; oppure se potessero essere attinenti alle rappresentazioni stilizzate di Konrad Klapheck – la lista potrebbe continuare… Mentre in queste stampe c’è in effetti una sorta di formalismo feticista, la loro estetica da istantanea deskilled le colloca in un lignaggio fotografico che va dagli scatti “da rivista” di Walker Evans al riff concettuale che con Homes for America (1966-67) Dan Graham compone sul grande fotografo. In The Pitch Direct (1958), un saggio fotografico pubblicato sulla rivista Fortune, Walker Evans si meraviglia del marciapiede – ossia “l’ultimo espositore non alterato”. [2] Posizionato in corrispondenza di un’immagine intitolata The March of the Mops il testo scritto da Evans per l’occasione insiste sul “godimento ricco e sensuale” che viene, tra l’altro, dalla “contemplazione di grandi bidoni di chiavi a tubo leggermente difettose”. [3] Allo stesso modo, come ha scritto Matthew Weinstein nella recensione per Artforum citata poc’anzi, le immagini di Sara Deraedt sono elevate da “umorismo e gentili assurdità” [4] con cui premiano l’impegno richiesto allo spettatore. Nelle loro modeste cornici nere, le piccole stampe di Deraedt – stampe che l’artista era inizialmente solita mostrare raccolte in semplici raccoglitori – assumono una presenza fisica imprevedibile. Evocano l’uso che del tradizionale passe-partout ha fatto, per esempio, Christopher Williams. Con grande economia di mezzi, gli elettrodomestici giocano con il movimento oscillatorio della fotografia, tra trasparenza e opacità. Deraedt, che ha studiato fotografia, indica la fabbricazione industriale di opacità come la condizione inerente all’esistenza delle rappresentazioni apparentemente trasparenti su cui si basano le pratiche documentarie. L’interno di una macchina fotografica, come l’interno di un aspirapolvere, è progettato per risucchiare il mondo e contenerlo in uno spazio più gestibile. Qui l’apparato fotografico è esposto come un apparecchio che è, al tempo stesso, uno strumento di produzione e un’istituzione decentralizzata.

Quattro anni dopo, in occasione della sua prima personale a Bruxelles, Sara Deraedt ha abilmente disatteso le aspettative, non mostrando fotografie, ma piccoli disegni fotorealistici, eseguiti a matita. Premuti da una lastra di vetro vetro direttamente contro i muri dell’Établissement d’en face, i diesgni rappresentavano la facciata storica della famigerata e sovrappopolata prigione di Saint-Gilles di Bruxelles. L’indirizzo della prigione, Avenue E. Ducpétiaux 106 – Saint Gilles, dava loro il titolo. L’artista ha ritratto l’architettura medievale dell’edificio, i suoi merli, le feritoie, le caditoie e le finestre ad arco, ossia elementi architettonici tipici dell’immaginario romantico della fine del XIX secolo che nell’immagine però coesistono con i marciapiedi, i cartelli stradali, le barriere di cemento. Costruita nella seconda metà del XIX secolo, quando Saint-Gilles era un’area rurale, la prigione si trova oggi a essere in una zona privilegiata di Bruxelles, e sta perciò per essere trasferita alla periferia della città. Presto il carcere uscirà dal campo visivo dei cittadini liberi, e sarà più lontano da artisti come Deraedt o come me, che spesso passano di lì mentre si recano nelle gallerie e nei ristoranti locali.

L’intervento chiave di Sara Deraedt a Établissement era una grande lastra di vetro che divideva in due lo spazio principale della galleria, costringendo i visitatori ad attraversare il seminterrato per raggiungere l’altro lato e trovarsi essi stessi esposti, in una galleria vuota. Nel saggio sulla mostra scritto per Afterall, Eleanor Ivory Weber mette in luce le implicazioni insite nella messa in mostra della scena artistica. “La mostra di Deraedt mostra che ciò che non si vede (il ‘non visto’) e un certo limite della scena (l’osceno) insieme delineano la possibilità di resistenza al discorso critico del maestro. Al vernissage ho di fatto percepito una messa in scena della dinamica dell’Établissement, dove per il pubblico è possibile un nuovo orientamento”. [5] La strategia usata da Deraedt evoca Down the River, opera presentata da Andrea Fraser nel 2016 al Whitney Museum. Fraser ha usato la vista panoramica sul fiume Hudson del quinto piano del museo per trasmettere un suono ambientale registrato nella Sing Sing Correctional Facility, noto carcere di massima sicurezza d’America, che oltretutto si trova a sole trentadue miglia a nord del museo, lungo il fiume. Nel testo di sala, appunto, l’artista sottolinea l’importanza del vetro e della trasparenza all’interno del museo per confrontare, contrastare e collegare le due istituzioni. “Le pareti di vetro della lobby accolgono il pubblico promettendo trasparenza e accessibilità. All’interno, i visitatori trovano spazi ariosi e pieni di luce, e terrazze che si aprono su viste infinite. Gli spazi aperti al pubblico condividono pareti di vetro con gli uffici del personale, esponendo così funzioni che il più delle volte sono nascoste alla vista. In nessun altro luogo l’apertura del museo è più rappresentata che in questi 18.200 metri quadrati”. [6]

Nel dispositivo di Deraedt, tuttavia, la parete di vetro che divide lo spazio vuoto non espone alcun che. Piuttosto, riorganizza l’esperienza estetica, chiamando in causa  “l’estetica dell’amministrazione” [7], proprio mentre mette in atto “un’amministrazione dell’estetica” [8] reclutando il pubblico e mettendolo in mostra. [9] Già, ma con quale scopo? Se, come Cady Noland, Sara Deraedt altera l’architettura per drammatizzare le relazioni sociali e “influenzare il viaggio che qualcuno compie tanto per arrivare da qualche parte, piuttosto che raggiungere una destinazione precisa – il che è rendere i mezzi importanti quanto i fini” [10], rimane invece irrisolto il parallelo tra il suo intervento architettonico e la “non libertà assoluta” [11] evocata nei suoi disegni. Nell’astrazione dei soggetti sociali, l’artista si appoggia esteticamente “all’autorità della cripta” [12], alla quale le sue fotografie dell’aspirapolvere erano riuscite a sfuggire dopo che l’artista aveva smesso di esporle nei raccoglitori lasciando che esistessero nello spazio. La parete di vetro esalta il desiderio di controllo proprio mentre mina gli effetti più complessi e sottili del fotorealismo grafico. Per quanto esistano importanti connessioni che devono essere elicitate tra le diverse istituzioni che partecipano al sistema del capitalismo carcerale, non tutte le forme di contenimento possono essere trattate allo stesso modo, a rischio di perpetuare la fantasia di un altrove dove altri sono effettivamente privati della libertà. Così la poetessa e studiosa Jackie Wang scrive riguardo all’esperienza di visitare suo fratello in prigione: “anche se ho sempre temuto la possibilità di finire sotto processo solo per aver parlato con mio fratello da dietro un pezzo di vetro, l’esperienza fenomenologica di entrare in uno spazio di assoluta non libertà e abiezione sociale rende l’esistenza delle prigioni molto più reale (piuttosto che un altrove fantastico) …” [13] Senza per questo voler promuovere una visione moralistica sulla mostra di Deraedt – che ha avuto il merito di evitare il didascalismo dell’arte più apertamente politica – è giusto chiedersi cosa succede quando i gesti artistici astuti e intellettualmente piacevoli cominciano a prevalere su ciò che implicano.

Più di recente, in occasione della sua prima mostra istituzionale (in Belgio, al Museo d’Arte Contemporanea di Anversa), Sara Deraedt ha iniziato scoprendo lo spazio esistente tra la parte centrale dell’edificio, che in origine era destinata alla conservazione del grano, e la parte successiva, aggiunta nel 1993, quando Anversa è stata Capitale Europea della Cultura. La mostra fa parte del programma in situ del M HKA, ossia una serie di mostre monografiche che dà agli artisti l’opportunità di occupare i 2936 metri cubi della sala più grande del museo. In pratica, il vuoto prende la forma di un taglio nel muro, nel soffitto e nel pavimento del museo, all’ingresso di uno stretto corridoio che conduce all’imponente spazio espositivo. Di nuovo, il simbolismo di questo taglio, che formalmente riecheggia la suddetta parete di vetro delineando un’interfaccia fisica tra due lati, si riferisce, innanzitutto, a una gestualità “in sé e per sé”. In effetti, Sara Deraedt sembra desiderosa di citare ed emulare i gesti e gli spostamenti “chirurgicamente precisi” dei primi artisti impegnati nella critica alle istituzioni, come Michael Asher per esempio. Ma mentre gli interventi di Asher miravano a rivelare i meccanismi sottostanti alla presentazione e alla ricezione dell’arte, il nostro taglio agisce semplicemente come un marcatore tangibile dell’evento culturale del 1993. Il segno sembra esistere principalmente per quello che in francese si chiamerebbe “la beauté du geste”. Nel perpetuare “le nozioni nostalgiche di sito come essenzialmente legate alle realtà fisiche ed empiriche di un luogo” [14] questo intervento finisce per infliggere al museo solo una ferita superficiale.

Inoltre, nel vestibolo antistante al corridoio che conduce allo spazio espositivo principale Deraedt ha “suggerito” l’esposizione di On Taking a Normal Situation… (1993) di Andrea Fraser. Si tratta di una serie di dieci manifesti (cinque in inglese e cinque in olandese) disegnati dall’artista per una mostra collettiva tenuta al museo proprio nel 1993, mentre Anversa era capitale della cultura. Fraser, che “non voleva esporre in un museo, ma fuori, in città”, ha modificato i manifesti ufficiali che promuovevano l’evento riscrivendo i testi e riposizionando i loghi degli sponsor. I cinque manifesti presentano opere di Edouard Manet, René Magritte, Jackson Pollock, Jacob Jordaens e Laurel & Hardy, che sono abbinate a frasi come “L’arte deve piacere?”, oppure “Voglio essere bello”. Il fotogramma di Laurel & Hardy tratto da The Second Hundred Years (1927), dove i due interpretano una coppia di detenuti che cercano di scappare dalla loro cella, ma invece finiscono nell’ufficio del direttore, è accompagnato da un augurio di ” buona giornata” (Have a nice day). La decisione di esporre i manifesti come preambolo alla mostra è audace nella misura in cui invoca l’autorità di Fraser pur riconoscendo l’attuale esistenza archivistica dell’opera entro i confini del museo.

Una volta dall’altra parte del lungo corridoio, il grande spazio triangolare pubblicizzato dal programma In Situ è sorprendentemente vuoto. In modo letterale, l’artista presenta lo spazio della galleria invece di “essere passivamente presentato da esso.” [15] Lungo la parete di fondo ci sono due sedie su cui siedono le guardie, un banale tavolo da museo senza nulla sopra, e due sculture indipendenti simili a gabbie d’acciaio, posizionate simmetricamente vicino agli angoli dello spazio. La struttura più alta è marrone e ha la forma minacciosa di una bara (a grandezza naturale), mentre l’altra è bianca e rettangolare. Due gabbie di legno nero più piccole si trovano sopra i tavoli su entrambi i lati dello spazio. Una struttura si trova in verticale, mentre l’altra è posta in orizzontale, perciò più simile a un modello architettonico. Queste quattro diverse gabbie sono ingannevolmente semplici, e la loro rispettiva idiosincrasia le rende difficili da comprendere. Barre e aperture distribuite arbitrariamente complicano la loro implicita funzionalità come strumenti di costrizione. A un livello elementare, questi modelli, che propongono un’allegoria della gabbia, evocano le “strette gabbie delle istituzioni culturali” [16] che Fraser cercava di evitare con i suoi manifesti. Nel saggio intitolato From a Critique of Institutions to an Institution of Critique (2005), Fraser sostiene l’idea che possiamo espandere, trasformare e ridefinire la cornice della gabbia “ma non possiamo mai sfuggirle.” [Le strutture ingannevolmente ermetiche di Deraedt appaiono allo stesso tempo autonome e contingenti alla loro posizione – abitano il contenimento. Nelle parole di Nikolaus Hirsch, il “carattere bidirezionale del modello tra gli spazi di produzione e il museo potrebbe essere inerente al campo dell’architettura, tuttavia è più esplicitamente usato (e produttivamente abusato) nelle arti visive. Il modello acquisisce lo status di un’installazione, sempre al limite, tra una speculazione decontestualizzata e una potenziale inabitazione. In effetti, diventa possibile usare tale modello come commento sullo spazio dell’arte (e le sue istituzioni) e sulla pratica artistica in quanto tale.” [18] La forza del lavoro di Deraedt sta nella sua capacità di camminare sulla linea sottile che corre tra decontestualizzazione speculativa e specificità estrema, i due prerequisiti del discorso attraverso cui il suo lavoro esiste.

La mostra culmina in un gruppo di diciotto bottiglie d’acqua, di plastica, vuote, di varie aziende, disposte sommariamente sul pavimento accanto alla grande finestra situata sul retro dello spazio, verso il fiume Schelda. La disposizione ricorda un punto di controllo TSA all’aeroporto, dove ai viaggiatori viene chiesto di disfarsi dei propri liquidi. Dove sta andando Deraedt con tutte queste bottiglie d’acqua? Quali messaggi contengono? Nella lista delle opere in mostra le dimensioni delle bottiglie, delle gabbie, e del taglio nel muro, sono espresse in base al loro peso in centimetri cubi. C’è molto da considerare in questa sorta di proposta, semplice ed efficace al tempo stesso, dove l’arte diventa gassosa, ma anche voluminosa e impalpabile. E c’è qualcosa di ironico in questi contenitori pronti all’uso; essi intercettano il piacere che Deraedt trova nel mantenere la produzione di significato in uno stato precario. Nel tentativo di mettere sotto pressione il lavoro affinché si evolva in condizioni eteree, sembra che l’artista cerchi di nascondere le sue potenziali carenze. Nel proprio astuto riduttivismo, l’opacità altrimenti prolifica che Deraedt sviluppa periodicamente si trasforma in una mancanza di generosità che tende a mettere in ombra i suoi gesti di resistenza. Il lavoro è più ambizioso quando dimentica di essere astuto, vale a dire quando appare indifferente alla potenziale contaminazione del linguaggio e abbraccia le assurde inadeguatezze dell’esperienza umana. Se seguiamo Edouard Glissant, ossia intendiamo l’opacità come rifiuto di qualcosa o qualcuno all’essere ridotto, assimilato o normalizzato in nome della comprensione, diventa chiaro come opacità e generosità non si escludano a vicenda – anzi, gestiscono flusso e contenuto delle nostre più profonde transazioni di intimità. Allo stesso modo, nel suo saggio del 1985 su Louise Lawler intitolato In and Out of Place, Andrea Fraser conclude dicendo che se “Lawler riesce a sfuggire sia all’emarginazione, sia all’incorporazione, è perché qualunque posizione le capiti di occupare riesce sempre anche a essere da qualche parte, o qualcosa d’altro”. Anche Deraedt sembra cercare questo “da qualche parte/qualcosa d’altro”. Ma quando si dice che “non c’è più un fuori”, come si fa a non rimanere bloccati? Come uscire dalla cella senza finire nell’ufficio del direttore? 

Operando uno spostamento dell’impulso discorsivo lontano dalle parole, Deraedt reinveste, paradossalmente, la visualità. Le implicazioni di questo spostamento rimangono poco chiare, dal momento che impregna il lavoro con il suo bordo critico. Occasionalmente si spinge in vaghe astrazioni. Nel riproporre i vecchi modi di de-estetizzazione equivalenti a un ritiro del piacere visivo, l’artista richiede allo spettatore di confrontarsi con l’attrazione che perdura, nonostante i vincoli che impone. Nel bene e nel male, il lavoro di Deraedt è capace di risucchiare l’aria di una stanza, e il significato, per sopravvivere, è costretto a contorcersi.


[1] Sven Lütticken, “(Stop) Making Sense,” in “Meaning Liam Gillick,” ed. Monika Szewczyk (Cambridge, MA: MIT Press, 2009), 32.

[2] Walker Evans, “The Pitch Direct,” Fortune, October 1958, 139, reprinted in “Walker Evans: the magazine work,” ed. David Campany (Göttingen, Germany: Steidl), 178.

[3] Ibid.

[4] Matthew Weinstein, Artforum, October 2016, https://www.artforum.com/picks/sara-deraedt-64949

[5] Eleanor Ivory Weber, “Sara Deraedt,” Afterall, Sept 15. 2020, https://www.afterall.org/article/sara-deraedt

[6] Andrea Fraser, “Andre Fraser On Down The River,” Whitney Museum Of American Art, 2016, https://whitney.org/exhibitions/open-plan-andrea-fraser

[7] Benjamin H.D. Buchloh, “Conceptual Art 1962-1969: From the Aesthetics of Administration to the Critique of Institutions,”  October 55 (Winter 1991), 105.

[8] Miwon Kwon, “One Place After Another: Notes on Site Specificity,” October 80 (Spring 1997), 103.

[9] The use of the term ‘recruiting’ is directly inspired by Eleanor Ivory Weber’s use of it in her essay about Deraedt for Afterall: “Yet when nothing eludes the artist’s discourse and everyone is recruited, there is no risk…”

[10] Cady Noland, Original text, 1989, reprinted in THE CLIP-ON METHOD, ed. Cady Noland and Rhea Anastas (Published by Cady Noland, Rhea Anastas, and Robert Snowden, 2021), 229.

[11] Jackie Wang, “Carceral Capitalism,” (South Pasadena, CA, Semiotext(e), 2018), 37-38.

[12] Jeff Wall, “Dan Graham’s kammerspiel,” (Toronto, Art Metropol, 1991), qtd in Thomas Crow, “Unwritten Histories of Conceptual Art,” in Alexander Alberro (ed.) and Blake Stimson (ed.), “Conceptual Art: A Critical Anthology,” (Cambridge MA, MIT Press, 1999), 216.

[13] Jackie Wang, “Carceral Capitalism,” 37-38.

[14] Miwon Kwon, “One Place After Another: Notes on Site Specificity,” 108.

[15] Andrea Fraser, “In and Out of Place,” Art in America, June 1985, 124.

[16] Nikolaus Hirsch, “Model World” in “Meaning Liam Gillick,” ed. Monika Szewczyk (Cambridge, MA: MIT Press, 2009), 139.

[17] Andrea Fraser, “From a Critique of Institutions to an Institution of Critique,” Artforum, September 2005, 104.

[18] Nikolaus Hirsch, “Model World” in “Meaning Liam Gillick,” 142-143.

[19] Andrea Fraser, “In and Out of Place,” Art in America, June 1985, 124.

[20] Andrea Fraser, “From a Critique of Institutions to an Institution of Critique,” Artforum, September 2005, 100.

November 28, 2023