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Immacolatezza di Andrea Mantegna

Sofia Silva

La giovinezza di Andrea Mantegna tra il libro e la pietra nella demistificazione del culto antiquario a Padova

Ogni artista ha il suo segreto, e il più chiaro è il più difficile. Osservava Charles Du Bos, mentre si disponeva all’approssimazione critica di Gide, che nulla è misterioso quanto una bottiglia di vetro piena d’acqua pura. Andrea Mantegna è come un solido geometrico di cristallo; ciascuna faccia risponde rigorosamente a una regola numerica; ma in realtà i numeri ci sfuggono negli scatti delle molteplici rifrangenze.
Maria Bellonci

La prima nozione urbana che viene impartita a ogni giovane padovano durante le scuole dell’obbligo è che nella tomba del fondatore della città, Antenore, il fondatore della città non c’è. Sembra fondamentale per gli abitanti di Padova adottare completa trasparenza sull’impostore che occupa la tomba del nobile troiano capostipite dei veneti. Frotte di bambini in uscita didattica nel centro storico sgranano gli occhi di fronte all’idolatrata edicola medievale, chiedendosi chi ci sia, a quel punto, là dentro. Il più delle volte si risponde: un dignitario (e in realtà vi è ospitato un guerriero ungaro). Più raramente si aggiunge che sotto la tomba di Antenore, o di fianco, è sepolto anche Jacopo Ortis, ovvero Girolamo Ortis, lo studente di medicina che si tolse la vita nel 1796, a cui il Foscolò si ispirò. La presenza-assenza del fondatore è fondamentale per Padova sin da tempi remoti, e può aprire uno spiraglio “dolce e furioso” – rubando due aggettivi che Bellonci riferì al temperamento del nostro artista cresciuto nella città antenorea – sulla passione lapidaria di Mantegna (Isola Mantegna, 1431 – Mantova, 1506). Padova ha sempre anelato a possedere la propria origine e l’ha cercata nella terra.

[Un messaggio di Antonello a Mantegna nascosto nell’ombelico di San Sebastiano? Qui il nostro articolo. Ed.]

mantegna
Andrea Mantegna, Crucifixion, ca. 1457-59, Louvre, Paris.

Nel secolo di Mantegna, il XV, la città era percorsa da una deliziosa mania: il collezionismo antiquario. L’Urbs Picta, fiorente nei primi secoli dell’Impero Romano, è da pensare, per i suoi cittadini medievali, precocissimi umanisti, come un ampio derma pieno di piccole ferite; da ognuna di queste lacerazioni uscivano epigrafi, monete, piedi di marmo, ossa (e che ossa: quelle di Tito Livio!). Padova era un prato dedito alla caccia al tesoro, arricchito da tutto ciò che si faceva arrivare dalle terre greche, tra cui i preziosi manoscritti profughi degli sconvolgimenti a Oriente. Il passato era tangibile, emergeva nei campi, lungo gli argini, ed era fatto di pietra e metallo, di lapidi che come finestre di testo semioscurate affioravano dal suolo. In questo fervore, il giovane Mantegna era sodale dei più maniaci tra tutti i proto-antiquari: Giovanni Marcanova e Felice Feliciano per dirne due, con cui l’artista compì negli anni ’60 del secolo il celebre viaggio sulle coste del Lago di Garda, descritto dal Feliciano nella Iubilatio, una discesa nei campi elisi dell’antiquario, con rose, palmizi, fragranze di paradiso e tante, tante epigrafi.

Per entrare nei pensieri di questo antico maestro arrogante, dolente, risoluto, fedele e lungimirante, Mantegna, occorre avere in mente il dualismo in cui la sua passione era immersa: da una parte la pietra, dall’altra il manoscritto; queste due sole cose amava oltre alla moglie Nicolosia, in queste viveva. A unirle, il testo.

Di volta in volta definito “il più perfetto dei grandi maestri del Quattrocento italiano” e al tempo stesso “inavvicinabile” per temperamento (Philippe de Montebello); colui che ha lasciato “un’eredità spigolosa e dolente, che resta sotto la superficie dell’arte europea e ricorda di continuo quanta parte di essa risulti, al paragone, solamente gradevole e ottimista” (Lawrence Goring); “il più consequenziale e sorvegliato artista del ‘400” (Carlo Ludovico Ragghianti); il “naturalista senza scrupoli” (Adolfo Venturi), Andrea Mantegna ebbe la singolare capacità di ritrarre storie e persone fuori da ogni pietà, con una lucidità che per secoli fu insopportabile a diversi critici. Ma per essere così realista, per divenire “sommo psicologo” (Guido Piovene), Mantegna si appoggiò, del tutto cerebralmente, a un linguaggio già codificato, quello del testo su pietra e su pagina, non alla realtà stessa. In questo, la sua grandezza.

Andrea Mantegna, Martyrdom and transport of Saint Christopher, detail, 1454-1457, Ovetari chapel, Eremitani church, Padua.
Andrea Mantegna, Martyrdom and transport of Saint Christopher (at the bottom), 1454 – 1457, fresco, Ovetari chapel, Eremitani church, Padua.

Cosa nasconde l’ossessione antiquaria di Mantegna? Cornici, finestre, tanti riquadri di un unico testo. Nel Martirio e trasporto di San Cristoforo della Cappella Ovetari di Padova la narrazione è suddivisa in due tempi la cui alterità è simboleggiata da una colonna scanalata che taglia la composizione come la piega del foglio nel fascicolo di un libro. Il cielo è di un singolare color vinaccia digradante verso il blu, che richiama in tutto per tutto la cromia delle pagine dei preziosi codici purpurei dove la pergamena era tinta in una mistura di carminio e azzurro. Anche la città degrada, dall’architettura medievale sullo sfondo fino a quella romana in primo piano, dove domina la facciata di un palazzo ricca in lapidi e decorazioni marmoree che sicuramente Mantegna aveva tratto dallo studio di sarcofagi. Sulla medesima parete, si scorgono busti di dignitari dentro nicchie quadrangolari a cassetta, intorno a esse medaglioni in marmi policromi e pietra d’Istria, secondo una moda del tempo. Alcuni decenni più tardi Annibale Maggi da Bassano, un architetto e antiquario il cui unico obbiettivo nella vita era inserire Tito Livio nella propria linea genealogica, con quegli stessi medaglioni decorò la Casa degli Specchi in via del Vescovado, da secoli considerata da alcuni cittadini tra cui la madre dell’autrice casa stregata (d’altronde simili medaglioni decorano Ca’ Dario a Venezia).

Andrea Mantegna, St. Sebastian, 1456–1459. Panel, 68 × 30 cm. Kunsthistorisches Museum, Vienna

La bipartizione della composizione torna nel celebre San Sebastiano del Kunsthistorisches di Vienna, in cui a sinistra v’è la pietra naturale, la pietra di Monselice, e a destra la pietra lavorata dall’uomo, i rotti marmi dell’Impero. In quest’opera compaiono per la prima volta il motivo dei putti vendemmiatori e un piede di statua pagana (che tornerà nel San Sebastiano del Louvre), elementi in tutto e per tutto uguali ad alcuni frammenti d’età romana conservati tra Aquileia e Padova. Con il passare degli anni, l’intera composizione di Mantegna assomigliò sempre più alla pagina interamente miniata di un codice, laddove le finestre architettoniche, i finti marmi, le porte, i fregi, e ogni mania antiquaria poteva corrispondere idealmente a una finestra di testo fitta di lettere. Il tripudio di questa pienezza finemente ponderata, oltre ai Trionfi, è l’episodio della Circoncisione del Trittico degli Uffizi. Ma in Mantegna la pienezza non corrisponde mai a promiscuità compositiva. Guido Piovene ebbe a notare, scrivendo della Camera degli Sposi, che si trattava di “un ritratto suddiviso in alcuni grandi riquadri”, anzi di “un romanzo narrato in alcuni capitoli”.

Andrea Mantegna, The Triumphs of Caesar I: picture-bearers, 1484-92. Royal Collection, Hampton Court Palace.

Lo si immagina, il giovane Mantegna, aggirarsi per Padova e prestare notevole attenzione ai muratori e ai tagliapietre più ancora che a Giotto e Giusto, raggiungere a cavallo le cave euganee che lo appassionarono a tal punto da ricostruirle nella Madonna delle Cave. Lo si immagina non solo studiare la roccia dal vero, ma anche cercarla laddove era già stata rappresentata, poiché Mantegna, per quanto in apparenza sembri assetato di dettaglio, si fida della sintesi. La Bibbia di Leone ora conservata al Vaticano, un manoscritto costantinopolitano risalente al 940 circa, riporta una miniatura di Mosé che riceve le tavole della legge ove sono rappresentate alture che somigliano grandemente a quelle dell’Orazione nell’orto del pittore padovano.

Lo si immagina rigirarsi tra le mani antiche monete romane, sul cui lato di verso, quello opposto al volto dell’Imperatore, erano riprodotti edifici e motivi decorativi ch’egli prontamente riportava nei propri affreschi come dimostrano le cornucopie incrociate e le stelle a otto punte nell’Assunzione della Vergine di Padova. Mantegna non si limitò a copiare l’antico, ma lo perfezionò e lo portò nell’uso comune, unito alla compagine di coetanei, copisti e antiquari ventenni, con cui spartiva la passione. Nelle sue opere, ogniqualvolta dipinga iscrizioni e cartigli, compare la cosiddetta littera mantiniana, ovvero un carattere dalle proporzioni larghe e con le grazie a completamento dei tratti, la P non chiusa e un succedersi arioso delle lettere, ispirata a una grafia tipica dei primi decenni dell’Impero.

Andrea Mantegna, Madonna of the Caves, 1489. Uffizi, Florence.

Benché alcuni critici abbiano accostato a Mantegna la qualifica di romantico, i più lucidi hanno notato come in lui la passione antiquaria non tradisca alcun impeto emotivo, alcun “episodio di passionalità non sorvegliata” per usare le parole del Ragghianti. Mantegna è un realista che reperisce nell’antico, riportato sulle pagine di un codice o sul dorso di una moneta, un vocabolario di motivi e soluzioni formali tanto saldo da permettergli di depurarsi dalle mode del suo presente. Utilizza il passato, quantunque fastoso, per purificare il presente.Tra tutti gli antichi maestri è forse il più utile a comprendere che l’abbondare di elementi visivi non coincide con l’abbondare di senso e che il quadro più fastoso può essere un numero primo, una bottiglia di vetro piena d’acqua. Per questo Mantegna seppe essere al contempo il pittore dei Trionfi e delle sue tenerissime Madonne, tra le più dolci di ogni secolo: perché in Mantegna non esiste dimensione simbolica. Il frammento di un piede marmoreo è un reperto archeologico, non una vanitas; una foglia di fico non è simbolo della pace messianica; un putto è un bambino grasso e alato. La rinuncia al simbolo in funzione di un inventario di oggetti scelti per pura sympathia portò Mantegna all’immacolatezza di cui scrisse Sir Philip Anstiss Hendy:

Negli affreschi della chiesa degli Eremitani il ragazzo diciottenne… è il primo e il più grande degli pseudo-classicisti, e, mentre egli guarda interiormente a un mondo di sua propria creazione, questo distacco dall’umanità è il solo a rendere possibile l’immacolatezza del disegno.

Leggere un affresco di Mantegna non significa aprire la narrazione insita in ogni oggetto rappresentato, ma intravedere il disegno complessivo di cui l’oggetto è solo mattone. Non c’è dettaglio che valga quanto la cornice in cui è inserito; persino la lapide esiste in funzione del suo ruolo di cornice; e il contenuto è utile a delimitarla cromaticamente. Il fasto è il disegno di un fasto, lo spazio è il disegno di uno spazio. Mantegna non è un autore complesso in virtù della ricchezza o dell’accuratezza filologica del suo repertorio iconografico; utilizza magistralmente la prospettiva ma la sua maestria compositiva non è riducibile alla mera logica prospettica; il suo è un realismo cerebrale, e trasporta con sé l’algore della sintesi appresa guardando il mondo trascritto sulla pagina e inciso sulla pietra. La sua pittura ancora oggi sfida lo spettatore a pensare uno spazio diverso sia da quello onirico, sia da quello dell’oggetto favellante, sia dalla realtà dedotta dalla visione, per avvicinarsi, non senza difficoltà, a un mondo costruito da finestre di testo.

Bibliografia

Andrea Mantegna, a cura di Jane Martineau, Milano 1992

M. Bellonci, Il “solenne maestro”, in L’opera completa del Mantegna, Milano 1967

I. Favaretto, G. Bodon, Cultura antiquaria e immagine dell’arte classica negli esordi di Mantegna, in Mantegna e Padova, 1445-1460, Milano 2006

www.academia.edu/15503060/Andrea_Mantegna_e_la_maiuscola_antiquaria_in_Mantegna_e_Padova_1445_1460_a_cura_di_Davide_Banzato_Alberta_de_Nicol%C3%B2_Salmazo_e_Andrea_Maria_Spiazzi

April 13, 2022