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Niklas Taleb: va in scena il quotidiano, ma senza furbizia

Piero Bisello

Incontrare Niklas Taleb (è nato nel 1986, vive e lavora a Essen, in Germania) significa confrontarsi con un livello di umiltà molto maggiore di quello che l’incontro con una persona normalmente offre. L’esperienza di vita è a tal punto fondamento della sua arte che ci si potrebbe interrogare sulla sua dose di egocentrismo, se questa categoria psicologica fosse applicabile alla sua persona. Nel suo caso, invece, l’opera d’arte sta in uno spazio sicuro che si trova tra la modestia e il desiderio artistico di condividere la propria sfera privata. Per coloro che non hanno mai incontrato Niklas Taleb alberga nel modo in cui il suo lavoro riesce a trasmettere senza pretese, attraverso un’arte che sarebbe altrimenti profondamente egocentrica, appunto. E potrebbe esserlo per diverse ragioni. Per esempio, lo struggimento e il piacere della vita comune in una cittadina tedesca di medie dimensioni, una vita fatta di genitori, lavoro, amicizie, abitudini… l’esperienza è narrata in prima persona, con onestà e sottigliezza; con sensibilità Taleb riesce a scavare nella sua vita fino a toccare le preoccupazioni universali; o più semplicemente, colpisce la capacità di Taleb di non scivolare nel tono auto-promozionale in cui troppo spesso finisce che parla di sé agli altri. Ciò che conta qui è l’essere in scena senza astuzie, padroneggiando l’equilibrio tra forma e soggetto, immagine e oggetto, [1] interiorità ed esteriorità.

Installation view of Niklas Taleb’s s place at 15 Orient, New York. Photo: Niklas Taleb. Courtesy of the artist and 15 Orient.

Costruire con discrezione

Fotografo di formazione, Niklas Taleb si è fatto notare nel 2020. all’inizio della pandemia, con una mostra personale intitolata Dream again of better Generationenvertrag tenutasi alla Galerie Lucas Hirsch di Dusseldorf. Le fotografie esposte presentavano frammenti di vita quotidiana: sua figlia che mangia, una borsa da viaggio appesa al muro, un corridoio. Taleb ha poi aggiunto uno scatto di un suo caro amico ripreso in una pagoda vietnamita in Germania, dove, apprendiamo, l’uomo stava posando per la ragazza di Taleb, l’artista Phung-Tien Phan – con le altre opere in mostra questo lavoro rifletteva sui confini “estesi” della famiglia.

Le recensioni della mostra si sono aggrappate all’intimità delle fotografie, per arrivare a chiedersi fino a che punto questa intimità era stata manipolata attraverso i modi specifici del presentazione al pubblico: le cornici di legno fatte a mano; gli interventi sull’architettura della galleria; il display a vetri; specifiche composizioni di immagini; lo svolgersi della narrazione attraverso le serie di opere. Questi elementi si presentavano come accessori a quella che avrebbe potuto essere una mostra di fotografie dedicate questioni meramente personali. Erano questi, invece, i principali responsabili dell’estetica di Taleb. [2] Le forme si mescolavano alle sostanze. Il lavoro di Taleb camminava su una corda tesa, sospesa tra lo scatto rubato e la messa in scena: le sue immagini potrebbero essere descritte come informali, se non fossero costruite in modo così intelligente (materialmente e del punto di vista compositivo); o per usare le categorie dei molti seguaci di Jeff Wall, Niklas Taleb potrebbe essere allo stesso tempo “cacciatore e agricoltore”. [3]

Niklas Taleb, Ohne Titel (Hannover), 2020. Archival pigment print, passepartout, tulipwood frame 78 x 52,5 cm. Courtesy of the artist and Galerie Lucas Hirsch
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Niklas Taleb, Dream again of better Generationenvertrag. Installation view at Galerie Lucas Hirsch, 2020. Courtesy of the artist and Galerie Lucas Hirsch.
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Niklas Taleb, Dream again of better Generationenvertrag. Installation view at Galerie Lucas Hirsch, 2020. Courtesy of the artist and Galerie Lucas Hirsch.

Verità esperienziale

Nonostante la sua popolarità, il memoir come forma d’arte ha fin ora conosciuto pochi approfondimenti filosofici. Eppure questo genere letterario, così come le sue declinazioni visive, ossono fa sorgere domande complesse. L’opera di Taleb accenna ad alcune di queste, anche se non è un memoir in senso stretto – non riguarda tanto il sé dell’artista quanto ciò che lo circonda e ciò che intercetta i suoi percorsi nel mondo. Inoltre, nell’opera di Taleb non trovano spazio né il tipico discorso autobiografico della grande personalità che si fa artefice del proprio destino, né il piacere autoindulgente in cui facilmente incorre chi parla di sé.

Invece, nel dibattito sulla verità nell’arte autobiografica Taleb sembra assumere una posizione indipendente. Riguardo alle memorie letterarie Helena de Bres parla della differenza tra verità fattuale e verità emotiva, [4] dove la prima è la corrispondenza delle dichiarazioni artistiche con i fatti reali, mentre la seconda è ciò che rimane fedele solo all’opera d’arte. Quest’ultima è altrimenti detta “verità esperienziale” [5] e può aiutarci a capire cosa significa vivere ciò che vive l’artista. In questione non è la vita privata di Taleb ma l’esperienza e l’intenpretazione che Taleb offre della sua vita privata. Per citare i pensieri di Carlos Lynes Jr su Proust, forse l’autore che meglio di tutti ha nutrito l’arte con la propria esperienza: “[Dovremmo] esplorare il grande romanzo [di Proust] come una creazione poetica, una visione unica del mondo oggettivata in un insieme estetico autonomo e auto-consistente, piuttosto che una sottile reminiscenza autobiografica. […] Nel leggere un romanzo o un poema come tale non si è interessati principalmente all’autore o alla genesi dell’opera, oppure alla sua corrispondenza letterale con l’attualità, ma ci si aspetta di trovare il romanzo o il poema stesso direttamente significativo.” [6]

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Le Chauffage – Issue 02, 2021. Niklas Taleb, Operation Doomsday (1999).

In un suo recente contributo per la rivista Le Chauffage (2022), l’artista ha fatto del tema del numero – ossia la forma del saggio fotografico – un’occasione per presentarsi, con la consueta onestà. Questa volta Taleb si concentra sulle sue amicizie, assemblando una sequenza di fotografie più e meno recenti, scattate a un caro amico da poco trasferitosi dalla sua città natale, Essen. Taleb ci ha detto di come abbia vissuto l’esperienza della partenza dell’amico come fosse la morte di una di quelle persone famose che teniamo in grande considerazione. Il titolo, Operation: Doomsday (1999), che è anche il titolo di un album del defunto rapper MF Doom, allude alla perdita di chi ci è caro e suona allo stesso tempo sarcastico e apocalittico. Il gioco tra vicinanza e distanza, letterale o metaforica, è condotto con maestria. Taleb ha giustapposto le immagini dell’amico a quelle delle piante di un parco pubblico. I rami ricci e aggrovigliati, forse un’allegoria dell’incrocio delle strade, sono una pausa di riflessione nella narrazione della sequenza. Sfruttando le aspettative dei lettori di Le Chauffage, ai quali viene promesso un saggio fotografico (ancorché di carattere sperimentale), di nuovo Taleb sembra mettere in scena il soggetto con un’ingenuità senza pretese, raccontando i momenti di un’amicizia di lungo corso. Ciò che emerge è, appunto, verità esperienziale, ossia quel che è vero nell’esperienza di chi, attraverso l’arte, la condivide con noi.

Un centro sfuocato

L’amicizia, mescolata al contesto specifico del lavoro “supplementare” e “in nero” svolto dell’artista, è stata anche il tema della recente mostra di Taleb al Bonner Kunstverein, ossia Live in Paris (2021-22). Quasi tutte le foto esposte hanno come soggetto una collega di Taleb lavora – una persona che l’artista dice di rispettare in ragione della sua straordinaria integrità morale. L’apparente autocoscienza delle immagini di Taleb, che solo a prima vista sembra evitare strategie e messe in scena, si ripresenta in questa mostra con le stesse soluzioni viste nei lavori precedenti: il lato materiale delle fotografie, l’uso di cornici su misura e fatte a mano, il cui modo di presentazione non cerca mai la neutralità, così come le composizioni apparentemente casuali e presumibilmente scattanti. Ciò che qui è particolarmente interessante rispetto alla questione della memoria e al suo umile egocentrismo sono un paio di immagini in cui l’artista non sembra offrire altro che la nuda visione dalla sua scrivania. Per esempio, in Reading ( ) the lines, l’obiettivo puntato su un bicchiere d’acqua vuoto produce l’atmosfera di quello che altrimenti sarebbe un noioso ambiente d’ufficio – se non fosse per la collega ispiratrice. L’opera intitolata It can be done but only I can do it la ripresenta, fotografata dalla stessa scrivania, risolvendo così il problema di non essere in scena. L’immagine è di formato minuscolo, stampata su un pezzo di carta di scarto.

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Niklas Taleb: Live in Paris, Installation view, 2021, Bonner Kunstverein. Courtesy the artist and Lucas Hirsch, Düsseldorf. Photo: Niklas Taleb.
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Niklas Taleb, It can be done but only I can do it, 2021. Archival Pigment Print, Glass, tape.

La stessa immagine è stata parte della recente mostra di Taleb da 15 Orient, a New York (2022), nella quale l’artista ha presentato alcune opere recenti insieme ad altre più datate. Tra queste ce ne sono alcune che mostrano l’infanzia in diverse forme. Sappiamo che la bambina in questione è la figlia dell’artista, la cui ombra appare in due immagini – Main Character Syndrome (1) e Main Character Syndrome (2) – in quello che, sospettiamo, è l’appartamento di Essen della famiglia di Taleb. La bambina è presente anche in Für Opa, con uno dei suoi disegni. Taleb lo colloca sopra la tastiera di un computer, suggerendo il problema di destreggiarsi tra carriera e crescita di un figlio. Meno comunemente, quest’opera d’arte sembra proporre il dibattito sulla giustizia intergenerazionale, dove i doveri verso i giovani, o anche verso i non nati, sono talvolta visti come incompatibili con i doveri verso gli adulti attuali, e sicuramente verso noi stessi. [7]

Messa in scena e interpretata, eppure calata nella nuda realtà, l'arte di Niklas Taleb presenta un'immacolata intimità poetica
Installation view of Niklas Taleb’s s place at 15 Orient, New York. Photo: Niklas Taleb. Courtesy of the artist and 15 Orient.
Niklas Taleb, Boy at risk II, 2022. Digital C Print mounted on aluminum dibond, glass, tulipwood frame, multiplex.Inner frame 71 x 105 cm. Courtesy of the artist and 15 Orient.
Niklas Taleb, Für Opa, 2022. Digital C Print mounted on aluminum dibond, glass, tulipwood frame, multiplex Inner frame 70 x 104 cm. Installation view at 15 Orient. Courtesy of the artist and 15 Orient.

Altre opere esposte da 15 Orient sembrano confermare che Taleb è alla ricerca di quelle cose semplici che, come dice Charlotte Cotton, rappresentano “inneschi immaginativi di grande importanza.” [8] Ombre, disegni di bambini, tastiere di computer: sono strumenti per un esperto semiologo, che ancora una volta sembra felicemente combattuto tra schiocchi disinvolti e costruzioni precise, tutto in nome della condivisione del proprio spazio personale. L’opera intitolata Boy at risk II aggiunge il gioco del poker a questa cassetta degli attrezzi (metaforica) delle “cose semplici”. Raffigura una vista della scrivania di Taleb dove un secondo schermo mostra persone che giocano a poker. Come una sorta di musica visiva di sottofondo, l’artista ci ha detto che la presenza su uno schermo di persone concentrate su qualcosa lo aiuta a concentrarsi. Certi artisti hanno strane abitudini. Per esempio, Allison Katz dice che mentre dipinge le piace ascoltare – solo ascoltare, non guardare – le partite di tennis o di calcio. Ma non sono molti gli artisti che poi portano questi dettagli personali nella loro arte. I lavori esposti da 15 Orient, e l’attenzione prestata alla presentazione dei suoi sistemi auto-costruiti, confermano i suoi interessi artistici – ancora una volta l’io di Taleb è imprescindibile, anche a livello materiale.

Per i fotografi più ortodossi il lavoro di Taleb potrebbe essere una presa in giro del medium stesso: potrebbe sembrare che stia semplicemente rimescolando le categorie classiche – tra fotografia di posa e immagine rubata appunto – con troppa nonchalance; il suo interesse per la materialità della presentazione potrebbe sembrar fuori luogo se applicata a un medium che, per alcuni, è una pura creazione di immagini. Tuttavia, se qualcuno è propenso a credere che la fotografia consista nel pronunciare la realtà attraverso l’obiettivo, l’occhio, la mano e la vita dell’autore, il lavoro di Taleb non è un’umiliazione della fotografia, ma la sua più onesta sublimazione.


[1] Sulla differenza tra immagini e oggetti, dice Lucy Soutter in quella che lei chiama “fotografia d’arte contemporanea”: “Un’immagine è una forma visiva infinitamente riproducibile che può essere ingrandita o ridotta, tradotta da una forma all’altra, mantenendo la sua identità riconoscibile. Che sia vista su una pagina, un muro, uno schermo o un’altra superficie, una fotografia non è mai solo un’immagine – prende sempre una forma materiale specifica. La nostra spinta a leggere il soggetto delle immagini spesso sposta la nostra consapevolezza delle loro proprietà come oggetti”. Nel caso del lavoro di Taleb, le proprietà materiali delle fotografie sono accentuate non per togliere l’attenzione dal soggetto ma per completarlo nell’equilibrio che cerca. Citazione da Lucy Soutter, “Why Art Photography”, Routledge, 2013, p. 112-13

[2] Per quanto riguarda l’allontanamento dal significato e il suo ritorno nella forma, è interessante citare la fotografa Lynne Cohen sulla costruzione delle proprie cornici: “Penso che i pezzi risultanti siano più completi come oggetti e che il confine tra l’immagine e il mondo non sia più così brusco”. Dal catalogo di “No Man’s Land: The Photography of Lynne Cohen”, National Gallery of Canada, 2001.

[3] “Si dice che il cacciatore sia il fotografo che rintraccia e cattura le immagini, il contadino è colui che le coltiva nel tempo.” Jeff Wall parafrasato in Charlotte Cotton. 2014. “La fotografia come arte contemporanea”. Terza edizione. New York, New York: Thames & Hudson.

[4] Helena De Bres, “Artful Truths” – The Philosophy of Memoir. University Chicago Press, 2021, p.4.

[5] Ibidem, p. 65.

[6] Carlos Lynes, Jr, “Proust e Albertine: On the Limits of Autobiography and of Psychological Truth in the Novel”. Il Journal of Aesthetics and Art Criticism. Vol. 10, n. 4.

[7] Il filosofo Derek Parfit in Reasons and Persons pone la questione in termini di razionalità, sostenendo che è ragionevole e non semplicemente intuitivo preoccuparsi degli altri, compresi gli altri futuri, invece che di noi stessi. Per saperne di più su Parfit e l’arte, qui il link allo scritto che gli abbiamo dedicato.

[8] Charlotte Cotton. 2014. “La fotografia come arte contemporanea”. Terza edizione. New York, New York: Thames & Hudson, p. 9.

April 13, 2022