Gli oggetti auto-operativi di Vera Palme
L’opera di Vera Palme genera sensazioni di pancia, dove la pancia è l’opposto del tedesco “gut” (buono), ma senza cattiveria
Lo scorso anno ho curato una mostra all’Arthub di Copenhagen con dodici dipinti Vera Palme. Una sera avevo in programma di portare a cena un’amica, ma prima volevo farle visitare la mostra. Abbiamo passato molto tempo davanti a SOS (1), del 2020, una grande tela che raffigura quello che so essere un vaso cinese trovato nel catalogo di una casa d’asta, ma che in questa interpretazione – e come suggerisce il titolo -, ha acquisito un senso di allarme. Il vaso lotta per mantenersi contro un sfondo color fango; le pennellate turbinano dentro e intorno all’oggetto, come in preda al panico. La mia amica ha dovuto improvvisamente andarsene, aveva perso l’appetito. Il quadro le aveva fatto qualcosa. Le era entrato nelle viscere e vi si era insediato, come una sensazione di inquietudine – “nel modo migliore”, mi ha assicurato – ponendo domande a cui, durante la cena, non avrei potuto trovare risposta.
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Ha senso iniziare una conversazione sui quadri di Vera Palme rendendo conto del loro effetto corporeo proprio perché essi stessi sono corpi, di personaggi. Come i membri di una famiglia, sono difficili ma preziosi. Oppure, piuttosto, il merito e il mentre (il significato e il tempo) sono di poca importanza, poiché ciò che abbiamo di fronte è una presenza inconfutabile. Le sue opere sono piene di ambivalenza e di dubbio, ma anche di un rifiuto di accettare questi stati; il che equivale a una sorta di ossessività, una tagliente implacabilità che è quasi crudele, ma così umana.
Ho trovato il codice per spiegare la presenza dei quadri di Vera Palme in un saggio della poetessa americana Louise Glück. In Against Sincerity (Contro la sincerità), del 1992, l’autrice affronta il divario tra verità e attualità. Il compito dell’artista, scrive, “comporta la trasformazione dell’attuale in vero”, un’impresa che “dipende dalla volontà consapevole di distinguere la verità dall’onestà o dalla sincerità”. Per Glück, il discorso sincero è un sollievo perché si riferisce a ciò che già sappiamo, e presuppone una convergenza tra il poeta e l’oratore. Ma l’artista “interviene, gestisce, mente e cancella, al servizio della verità”. In Self Operating Subject, 2021, il vaso cinese di SOS riappare come qualcosa di più scheletrico su una tela allentata e rigonfia. Come un ricordo ossessionante, o una pelle rimossa, qui c’è una creatura completamente diversa, che ammette una totale mancanza di sincerità proprio mentre esprime la scomoda verità che il vaso non è mai stato solo una cosa, e che anche questi dipinti hanno ben poco interesse a definire cosa quella cosa avrebbe potuto essere.
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La serie Time stamp paintings, prodotta nel 2022, che è in mostra questa primavera da Braunsfelder a Colonia, condivide questa pretesa di esistenza, scarna ma severa. Vera Palme è anche una scrittrice. I suoi testi, densamente poetici, sono nebulosi come i suoi dipinti. “Tutto era leggero, come la speranza, quasi dolorosamente grigio e confuso alla vista” scrive Vera Plame in un saggio pubblicato nel catalogo della personale di Raphaela Vogel alla Kunsthaus Bregenz (entrambe hanno studiato alla Städelschule), per descrivere un nuovo corpo di lavori in cui gli elementi architettonici cadono dentro e fuori dalla vista, vestiti di tonalità molto vicine al colore dolorosamente grigio della tela grezza. Mentre ampie parti del dipinto sono solitamente lasciate intatte, certe pennellate fangose si coagulano in magnifiche e brusche eruzioni pittoriche. In tali episodi di spessore e densità potremmo vedere un volto, o qualche altro contorno vagamente familiare; ma più che altro notiamo che quel che Palme offre è sempre un’impalcatura per qualcos’altro; è una commerciante di sublimazioni, speranzose oppure confuse.
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È ovvio che se c’è un corpo questo deve assumere una postura. E così la fisicità forsennata che sta alla base della produzione di Vera Palme e della sua veritiera insincerità ha bisogno di assumere una posizione. Come ha sottolineato anche Glück, una conseguenza della verità come contrario dell’onestà è il capire che poeta e oratore non sono una cosa sola. Disseminate nel cast delle astrazioni enigmatiche di Vera Palme ci sono strane ancore di apparente leggibilità: Untitled (wave), 2020/21, è una piccola copia dell’iconica onda di Hokusai; A bread roll, 2021, è l’immagine offensivamente ravvicinata di un panino, cornice inclusa; oppure c’è la serie di bouquet floreali del 2019, ognuno dei quali è firmato con una grafia troppo grande, con un carattere che può ricordare la copertina dell’album Purple Rain di Prince: “Palme”.
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Tuttavia, come un discorso onesto, tale leggibilità è solo un falso rilievo. C’è un elemento di gioco in queste opere che ci richiede di vedere non solo il divario tra verità e realtà, ma anche quello tra fisico e fisionomia, cioè tra l’aspetto esteriore di una cosa e ciò che pensiamo possa dirci del suo carattere. Qui il pittore diventa narratore, ossia un attore della storia dell’arte, per rivelare nient’altro che una finzione dipinta. Ma poiché posture e corpi lavorano insieme, e i corpi sono costantemente attuali, non ci si può fidare di questo narratore. In Influx and efflux, del 2020, la studiosa Jane Bennett scrive che anche se “la cultura entra nel corpo attraverso le posture, […] le posture sono più che espressioni della cultura: ne sono artefici”. Credo che questa sia la fonte della sensazione viscerale che mi procurano le opere di Vera Palme: può accadere che esse provochino un movimento reale, uno spostamento di qualcosa dentro di te, che, per quanto lieve, potrebbe richiederti di saltare la cena e prenderti un momento per riflettere.
May 2, 2022