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Nuove attribuzioni per Giacomo Jaquerio e il Castello Della Manta

Simone Bonicatto (da Nuovi Studi, n. 26, 2021 anno XXVI)

Tra Ducato di Savoia e Marchesato di Saluzzo: una nuova proposta per Giacomo Jaquerio a Carmagnola e alcune riflessioni sul ciclo del Castello della Manta

Nel 1936 il canonico don Michele Marchetti, rettore della chiesa di Sant’Agostino di Carmagnola (in provincia di Torino), pubblicava un piccolo volume dedicato alla storia dell’edificio, già sede degli Eremitani, in cui si rendevano note alcune interessanti pitture murali che ornavano le pareti e i pilastri della chiesa, per la maggior parte riscoperte dallo stesso Marchetti negli anni immediatamente precedenti. Parallelamente, le pitture, poco dopo il ritrovamento, furono oggetto di due campagne fotografiche ad opera del fiorentino Mario Sansoni, alle dipendenze della Frick Art Reference Library di New York, e del torinese Guido Cometto. La precoce attenzione riservata agli affreschi carmagnolesi, collocabili principalmente entro il XV secolo, non evitò però che gli stessi rimanessero, negli anni a seguire, sostanzialmente esclusi dal dibattito storico-artistico sull’arte piemontese.

Giacomo Jaquerio
Giacomo Jaquerio, Sant’Agostino in trono, 1420 circa. Carmagnola, Sant’Agostino (fotografia di Guido Cometto, ante 1935, NEW YORK, Frick Art Reference Library

Nell’attesa che gli studi approfondiscano l’analisi delle pitture di Sant’Agostino, ora di proprietà comunale, e più in generale sulla chiesa e sui suoi arredi, in questa sede si vuole focalizzare l’attenzione su un particolare affresco, di notevole qualità pittorica e finora mai considerato dalla letteratura artistica, posto in corrispondenza della parete sinistra del presbiterio, a destra di una porta che consente il passaggio verso la navata sinistra.

Giacomo Jaquerio: Sant’Agostino in trono, particolare. Carmagnola, Sant’Agostino.
Giacomo Jaquerio: Sant’Agostino in trono. Carmagnola, Sant’Agostino.

Esso raffigura un santo vescovo in cattedra, identificabile con Sant’Agostino (in virtù dell’abito agostiniano nero che indossa sotto il piviale), seduto su un trono lapideo, impreziosito da alcuni intagli a motivi vegetali. Lo sguardo è rivolto verso i fedeli, che possono giovarsi della sua benedizione impartita con la mano destra, mentre con la mancina doveva probabilmente sorreggere il pastorale, oggetto di cui si sono perse le tracce pittoriche. Alle sue spalle si stende un drappo d’onore, che lascia intravedere sul retro alcune finestre gotiche e delle esili colonnine, a simulare l’interno di un edificio liturgico, che si legava ad un baldacchino architettonico dipinto, che presumibilmente sormontava il santo vescovo, come parrebbero suggerire la chiavi pendenti borchiate conservatesi. Il riquadro affrescato, chiuso in basso e a destra da una cornice con motivi vegetali intervallati da clipei, si presenta oggi decurtato di parte della pittura sulla sinistra e in alto, in quest’ultimo caso a causa dell’inserimento della decorazione seicentesca. Non è al momento possibile ipotizzare se il Sant’Agostino costituisse una raffigurazione isolata, o se invece si inserisse in una più complessa campagna decorativa del presbiterio. È certo, invece, che la sua realizzazione andò a coprire un riquadro, raffigurante presumibilmente un santo, facente parte della medesima campagna decorativa cui appartengono le raffigurazioni della Santa Betigunda e del Martirio di san Sebastiano posti alla destra del Sant’Agostino.

I tre riquadri, prima di essere riscoperti quasi sicuramente durante i restauri voluti da Marchetti, vennero occultati da uno spesso strato di calce e dal coro ligneo, ora posto ad alcune decine di centimetri dalla parete per consentire una parziale, anche se limitata, visibilità degli affreschi.

Lo stato di conservazione attuale del Sant’Agostino si rivela purtroppo mediocre, mostrando un diffuso impoverimento della pellicola pittorica, tale da generare un effetto di appiattimento delle superfici. Le condizioni di lettura attuali rendono, perciò, ancor più preziosa la ripresa fotografica realizzata di sicuro prima del marzo 1935 da Guido Cometto, in cui l’affresco, da poco ritrovato, venne immortalato in una condizione conservativa di gran lunga più apprezzabile. Nella fotografia riesce, infatti, più agevolmente ad emergere la forza espressiva del Sant’Agostino, nonché la preziosità di alcuni dettagli del viso e della mitra vescovile, rivelandosi un aiuto essenziale nell’analisi stilistica dell’abile artista che lo realizzò.

In questo senso, osservando nel complesso l’affresco carmagnolese, appare immediata la consonanza con gli esempi pittorici legati ad uno dei principali protagonisti della pittura delle Alpi occidentali nel primo Quattrocento, il pittore torinese Giacomo Jaquerio (documentato con sicurezza dal 1404 al 1453). Lo si può verificare, innanzitutto, osservando il forte e vivo realismo del volto del Sant’Agostino, dallo sguardo intenso che emana tutto il senso dell’autorità del celebre Dottore della Chiesa, mitigato da un velo di muta benevolenza e compassione. Una forza espressiva, unita ad un uso sapiente del modellato delle carni brune, dipinte per la maggior parte ad affresco, che trovano il loro più diretto confronto coi Profeti della parete settentrionale del presbiterio dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, unica opera firmata da Giacomo Jaquerio, realizzata presumibilmente attorno al 1413-1415 su volere del precettore Jean de Polley e vero manifesto del realismo jaqueriano, sviluppatosi a stretto contatto con gli esiti più alti dell’arte delle corti francesi, in particolare con i prodotti di Jacquemart de Hesdin e, nello specifico per queste figure, di André Beauneveu.

Il Sant’Agostino risulta infatti un degno compagno del Re Davide dell’abbazia antoniana, posto frontalmente e dotato di un intenso sguardo rivolto verso l’osservatore, o del primo profeta della serie sulla sinistra, purtroppo in parte perduto a causa della caduta dell’intonaco.

Giacomo Jaquerio
Giacomo Jaquerio, Profeta, particolare. BUTTIGLIERA ALTA, Sant’Antonio di Ranverso, presbiterio

Scendendo nell’analisi dei particolari del santo carmagnolese, i confronti più pregnanti non stentano a prendere la medesima direzione. La vezzosa attenzione a segnare i peli di barba e i capelli del Sant’Agostino che al fondo creano piccoli riccioli è, infatti, propria di alcuni personaggi ideati da Giacomo Jaquerio. In particolare, il pensiero va nuovamente ad uno dei profeti di Ranverso, il quinto da sinistra, intento a rivolgere gli occhi al cielo, ma anche alle due tavole superstiti del polittico realizzato dal pittore torinese per Vincenzo Aschieri, priore dell’abbazia dei Santi Pietro e Andrea di Novalesa dal 1398 almeno fino al dicembre 1452, e probabilmente destinato ad ornare l’altare maggiore della chiesa abbaziale (Torino, Museo Civico di Palazzo Madama). Nei due pannelli raffiguranti la Vocazione e la Liberazione di san Pietro, collocabili ragionevolmente tra primo e secondo decennio del XV secolo, la figura del primo degli apostoli presenta il medesimo effetto ‘lanoso’ di barba e capelli, oltre a possedere una fisionomia del volto non distante dal modello del Sant’Agostino di Carmagnola.

Giacomo Jaquerio, Liberazione di san Pietro, particolare. TORINO, Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama.

Quest’ultimo doveva inoltre vestire un piviale che, dalle gambe del santo fino al fondo, si movimentava in morbide ed elaborate pieghe, percepibili soprattutto dalla fotografia di Cometto, malgrado la sottoesposizione della ripresa. Anche in questo caso, la maniera di rendere i panneggi lo accomuna ad affreschi quali l’Angelo con il liuto di Ginevra (1411-1414 circa), e soprattutto la Vergine col Bambino del presbiterio di Ranverso, dove viene tra l’altro riproposto l’espediente di mostrare un lembo del tessuto ripiegato, rivelando l’interna foderatura di pelliccia d’ermellino, che si appoggia sulle gambe.

Giacomo Jaquerio, Vocazione di san Pietro, particolare. TORINO, Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama.

Anche il motivo decorativo che chiude il riquadro del santo vescovo carmagnolese e che orna la base del trono, composto da un sottile e semplice tralcio ondulato con foglie carnose, trova quale migliore paragone il fregio dipinto a finto rilievo che chiude il trono su cui siede la Vergine della precettoria antoniana.

Pare a questo punto lecito chiedersi se anche a Carmagnola il Sant’Agostino in trono, forse memore di esemplari figurativi quali i profeti miniati da Beauneveu nel Salterio del Duca di Berry (Bnf, fr. 13091), fosse sormontato da un elaborato quanto tridimensionale baldacchino simile a quello maestoso e mozzafiato che sovrasta la Madonna col Bambino di Ranverso, di chiara ispirazione oltralpina.

Tirando le somme di queste considerazioni, non apparirà quindi azzardato proporre, per il Sant’Agostino di Carmagnola, una realizzazione riconducibile alla mano di Giacomo Jaquerio. Un dato confermato dall’alta qualità dell’opera, che pare sposarsi perfettamente con le realizzazioni autografe del pittore torinese, allontanandosi invece dai brani affrescati in cui il linguaggio jaqueriano viene proposto da suoi aiuti e comprimari, a partire dalle Storie di sant’Antonio nello stesso presbiterio di Ranverso, in cui parrebbe già identificarsi l’intervento di un pittore strettamente legato a Jaquerio, ma dal linguaggio più grafico e appiattito, che risulterà attivo nei decenni successivi a Pianezza (San Pietro, presbiterio), a Ginevra (Saint-Gervais, cappella di Tous-les-Saints) e a Pinerolo (facciata del palazzo al civico 36 in via Principi d’Acaja).

Una proposta di datazione

Chiariti gli aspetti stilistici, rimane ora da affrontare il problema della datazione dell’affresco, tenendo conto dell’oggettiva difficoltà nel definire una sicura cronologia delle opere di Giacomo Jaquerio, in quanto nessuna risulta accompagnata da data certa. I confronti proposti in questa sede parrebbero suggerire un’esecuzione del Sant’Agostino di Carmagnola in un momento prossimo agli affreschi del presbiterio di Ranverso, o alle tavole provenienti dall’abbazia della Novalesa, opere per cui la critica è concorde nel proporre una datazione entro il secondo decennio del XV secolo. È infatti con le testimonianze pittoriche di questo periodo che si riscontrano le maggiori tangenze, che tendono invece a ridursi e ad affievolirsi nei cicli ad affresco jaqueriani più tardi. Si pensi, in particolar modo, alle pitture della sacrestia di Ranverso, realizzate presumibilmente attorno al terzo decennio del Quattrocento, dove emerge un nuovo e più marcato realismo; o ai cicli di Pianezza (1425 circa) e della cappella di San Biagio a Ranverso (1435) in cui, seppure in larga parte eseguiti da comprimari, pare in parte perdersi quel senso di monumentalità ed eroicità che non stentano ad emanare il Dottore della Chiesa affrescato a Carmagnola, al pari dei profeti e della Vergine della parete sinistra del presbiterio di Ranverso, oltre che di buona parte delle scene con la vita della Vergine (l’Annunciazione e la Dormitio Virginis in primis) affrescate nella cappella dedicata alla madre di Cristo nella stessa abbazia antoniana, ricondotte verosimilmente ad una fase giovanile di Jaquerio. 

La datazione del Sant’Agostino qui proposta deve però fare i conti con le vicende storiche del complesso agostiniano di Carmagnola, che solo a prima vista potrebbero stridere di fronte ad una datazione alta dell’affresco. Grazie al manoscritto Memoriale Quadripartitum, redatto dall’agostiniano carmagnolese Gabriele Bucci (1430 circa-1497 circa), siamo a conoscenza di come già nel marzo del 1397 si fosse deciso di erigere il convento agostiniano a Carmagnola, quando venne posta la croce sul luogo previsto per la costruzione della chiesa . Probabilmente a causa dell’instabilità politica del marchesato di Saluzzo, da cui dipendeva Carmagnola, e della città stessa (data in pegno al Delfino di Francia dal 1375 al 1410), la fondazione della chiesa venne rinviata al 1406. Un documento notarile redatto da Giovanni Milanesio, e trascritto da Bucci nel suo Memoriale, descrive infatti la celebrazione per l’inizio della costruzione dell’edificio, avvenuta il 26 maggio 1406, alla presenza dei “massari” della chiesa. Tale fonte specifica, inoltre, come in questo giorno si diede inizio alle fondamenta delle “trunarum”, ossia delle volte della chiesa, mentre due ampolle di vino e olio furono poste “subter duas pilias que sunt retro magnam truinam”, da identificarsi forse con i pilastri della volta della navata maggiore verso il presbiterio. Le successive notizie sono tratte dai libri degli ordinati comunali degli anni 1434-1440, i primi conservatisi, in cui emerge come la comunità stessa di Carmagnola si sia spesa in prima persona nel cantiere del convento degli Eremitani. Nonostante in un documento più tardo si specifichi chiaramente come la città sia intervenuta nella costruzione della chiesa e di parte del monastero, non si registrano interventi per terminare la costruzione della prima, bensì solamente spese per rifare il dormitorio (1435), che doveva evidentemente già esistere, e per costruire probabilmente la sala capitolare (1436). Tutto questo prima di decidere, nel 1437, di inviare due ambasciatori presso il marchese di Saluzzo “ut placeat dare licentia aperiendi ecclesiam sancti augustini”. Questi dati portano a pensare che già prima del 1434 la chiesa dovesse essere terminata, in attesa di una sua ‘apertura’ ufficiale solo al momento del completamento delle strutture monasteriali. Per meglio chiarire le vicende di un cantiere di inizio Quattrocento, quale il Sant’Agostino di Carmagnola, si può chiamare a confronto l’altra grande impresa architettonica all’interno della medesima diocesi torinese, del tutto contemporanea: la Collegiata di Chieri. Iniziata la costruzione nel 1405, la chiesa venne consacrata solo nel 1436. La struttura, però, doveva già essere in buona parte terminata da tempo, così come si evince dalle numerose fondazioni e dotazioni di cappelle già alcuni anni dopo l’avvio dei lavori, oltre che dalle testimonianze artistiche presenti, databili tra il secondo e il terzo decennio. Inoltre, è risaputo come i cantieri ecclesiastici venissero avviati dall’area presbiteriale, anche al fine di consentire in tempi brevi la celebrazione delle funzioni presso l’altare maggiore.

. Giacomo Jaquerio: Annunciazione, particolare. Buttigliera Alta, Sant’Antonio di Ranverso, sacrestia.

Queste considerazioni, in aggiunta alle chiare indicazioni stilistiche fornite dall’analisi del Sant’Agostino, ci consentono quindi di concludere come non sia azzardato ipotizzare che già in anni precoci l’area presbiteriale del complesso agostiniano di Carmagnola venisse arricchita da campagne decorative. Inizialmente, un pittore di caratura non elevata, figurativamente orientato verso una cultura lombarda non troppo dissimile dall’alessandrino Giacomo Pitterio e soprattutto dal pavese Dux Aymo (attestati nel Piemonte occidentale sabaudo già tra primo e secondo decennio del XV secolo), dovette realizzare una prima successione di riquadri con scene sacre (il Martirio di san Sebastiano, la Santa Betigunda e almeno un altro affresco). Pochi anni dopo, si decise di mettere nuovamente mano alla decorazione del presbiterio, affidando ad un artista di ben maggiore levatura quale Giacomo Jaquerio il rinnovamento di parte della decorazione più antica.

Per cercare di definire un arco cronologico più preciso, un aiuto può esserci fornito dalle tappe documentate della prima parte della vita del pittore torinese, attivo spesso tra Ginevra e le residenze ducali sulle sponde del lago Lemano. Egli è attestato con sicurezza per la prima volta a Torino nel 1404, insieme al fratello Matteo. Dal 1411 a fine 1412 è ricordato come abitante a Ginevra e al servizio del duca, e in questi anni presumibilmente realizza gli Angeli musicanti per la cappella di Jean de Brogny a Ginevra. Tra 1415 e 1418 risulta al servizio dei principi d’Acaia a Pinerolo, e nel 1426 è attivo nuovamente per il duca Amedeo VIII a Thonon. Negli anni immediatamente seguenti è documentato a Torino e a Ginevra, per poi apparentemente stabilirsi nella città piemontese con continuità fino alla fine della sua vita, nel 1453.

Escludendo senza dubbio il primo intervallo cronologico utile 1404-1411 (sono anni troppo vicini alla fondazione del complesso agostiniano), e il periodo successivo al 1427, che mal si concilia con lo stile dell’affresco carmagnolese, è quindi probabile che la realizzazione del Sant’Agostino vada posta tra il 1415 e il 1426. Le vicende storiche del cantiere agostiniano, protrattosi comunque fino al 1436, e la presenza di una prima campagna decorativa ci inducono però a spostare prudentemente il primo riferimento cronologico almeno verso l’inizio del terzo decennio del XV secolo. Dal settembre del 1418 Jaquerio scompare per otto anni dalla documentazione sabauda, mentre la bottega di famiglia a Torino risultava gestita (forse al suo posto) dal fratello Matteo, che nel novembre del 1418 compare anch’egli in qualità di pittore di corte per gli Acaia. L’affresco di Carmagnola, qualora fosse confermata una datazione in questi anni di silenzio documentario, potrebbe testimoniare come Giacomo fosse comunque rimasto a lavorare in Piemonte, magari trasferendosi in altre città al servizio di altri signori o committenti esigenti, proprio negli anni in cui il suo linguaggio doveva risultare al culmine del suo fascino. Del resto, Carmagnola, seppur non lontana da Torino, faceva comunque parte del territorio di un altro ‘stato’, ossia il marchesato di Saluzzo. Al di là dell’impossibilità di stabilire ad oggi se la volontà di realizzare la raffigurazione di Agostino debba spettare solamente al collegio agostiniano o se fosse stata presa in accordo con la comunità e le autorità cittadine, l’attività di Jaquerio a Carmagnola riveste un maggiore interesse proprio se posta a confronto con i dati storici relativi alla città, che la vedono in stretto rapporto con la figura di Valerano, il raffinato committente degli affreschi del castello di Manta, il ciclo quattrocentesco più celebre (e problematico) dell’arco alpino occidentale e tra i capolavori del gotico internazionale a livello europeo, ormai da tempo ricondotto ad un abile e anonimo comprimario di Jaquerio.

Riflessioni sul ciclo del Castello della Manta

Il marchese Tommaso III, che nel 1413 fu costretto alla sottomissione nei confronti dei Savoia, morì tra 1416 e 1417, lasciando in eredità lo stato a suo figlio Ludovico, di sei o sette 28 SIMONE BONICATTO anni. Per gestire tale momento delicato per il marchesato, la reggenza venne affidata alla moglie Margherita di Roucy, affiancata da uomini di fiducia di Tommaso, tra cui il figlio illegittimo Valerano detto il Burdo che, negli anni a seguire, rivestì sempre più un ruolo centrale nella gestione dello Stato durante la minorità del fratellastro. La fiducia paterna di cui godeva Valerano, in un momento in cui si dovevano definire i rapporti con i nuovi dominatori, emerge dalle parole del testamento di Tommaso che dispose come il figlio fosse nominato “castellanum et rectorem” a vita di Carmagnola, centro strategico e di notevole importanza per il marchesato, affinché Valerano fosse “magis propinquior illustrissimis dominis de Sabaudia ad eis debite et fideliter serviendum et eorum parendo mandatis pro Ludovico filio pupillo suo atque universali herede”.

Immaginare Jaquerio attivo nel marchesato negli anni in cui Valerano rivestiva un vero e proprio ruolo di governatore dello stato, e più precisamente nella città dove il figlio illegittimo di Tommaso III doveva occupare una carica di grande responsabilità, non lascia sicuramente indifferenti, rendendo più che plausibile una conoscenza diretta tra l’abile pittore torinese e il raffinatissimo committente saluzzese.

Mancava, del resto, una prova certa di un’attività di Jaquerio nei confini del marchesato, visibile finora solamente in sottotraccia (e limitato ai decenni centrali della prima metà del Quattrocento).

Il ritrovamento carmagnolese potrebbe quindi dare nuova linfa vitale ad una vicenda tra le più complesse del tardogotico piemontese, circa la cultura della bottega attiva per Valerano nella residenza del suo feudo di Manta attorno al 1420, oltre che, in anni immediatamente successivi, dei frescanti attivi nelle chiese del medesimo centro urbano. In particolare, il dibattito sulle pitture castrali, attribuite in passato a buona parte degli esponenti di spicco della pittura piemontese (da Bapteur, a Dux Aymo, da Jaquerio a Iverny) aveva trovato un sicuro approdo negli autorevoli giudizi di Giovanni Romano del 1992. Egli evidenziava come in esse convergessero “elementi stilistici dello Jaquerio più internazionale e […] i tratti di estrema raffinatezza cari ad Aimone Duce”, in un gioco di rapporti (di cui fanno parte anche gli affreschi degli edifici religiosi di Manta) in cui si proponeva di vedere negli esiti pittorici del centro saluzzese un riflesso delle esperienze figurative maturate attorno a Pinerolo, sede del principato dei Savoia Acaia, nel cui castello (distrutto nel Seicento) lavorarono i pittori di corte Giacomo Jaquerio e il pavese Dux Aymo, tra 1415 e 1418. La complessità del problema fu quindi assecondata con prudenza, identificando lo straordinario pittore a capo della bottega del castello di Manta come un ‘eroico’, ma ancora anonimo, comprimario di Giacomo Jaquerio. Dopo circa vent’anni, lo stesso Romano tornava quasi in punta di piedi sulla questione, ponendosi però una significativa domanda, ossia se “a quel livello di qualità, il maestro [della Manta] abbia una sua fisionomia autonoma o convenga riconoscerlo come un momento felicissimo di Jaquerio in persona”. Da tale considerazione, in buona sostanza sfuggita finora agli studiosi, traspare quindi un’inaspettata apertura alla ridiscussione del problema attributivo degli affreschi saluzzesi da parte del compianto storico dell’arte piemontese.

Nulla osterebbe, del resto, all’ipotesi che Valerano possa essersi servito di Jaquerio, il quale, dal 1418, alla pari di Dux Aymo, si svincola dagli impegni di corte presso i Savoia-Acaia, ramo collaterale della famiglia ducale che di lì a poco si sarebbe estinto con la morte del principe Ludovico avvenuta l’11 dicembre 1418. Gli anni in cui vennero realizzati gli affreschi del Salone di Manta combacerebbero difatti bene col periodo in cui il pittore torinese risulta assente dalla documentazione sabauda e torinese, per comparire invece in qualità di frescante presso la Carmagnola ‘di Valerano’.

Tuttavia, l’analisi generale del ciclo rivela ancora oggi delle problematiche che non rendono agevole una sicura attribuzione. Alcuni modelli, infatti, parrebbero in parte differire rispetto allo Jaquerio che conosciamo nel presbiterio di Ranverso (va ribadito, l’unica sua opera certa) o nella sacrestia della medesima chiesa. È il caso, ad esempio, degli occhi dei personaggi che presentano spesso una forma notevolmente allungata e sottile, particolare presente di rado nelle pitture murali di Ranverso (come nella Presentazione al Tempio della cappella mariana), ma al contrario ampiamente utilizzato nei volti delle sante del presbiterio di Pianezza.

Ma la maggiore differenza, ben evidenziata dagli studi di Bernardo Oderzo Gabrieli, parrebbe emergere a livello tecnico, in particolare nell’utilizzo a Manta di un ampio, elaborato e ricco repertorio decorativo (mascherine, ornamentazioni a pastiglia, lamine metalliche) assente in buona sostanza a Ranverso, ma che risulta ben attestato nelle consuetudini di altri artisti, in primo luogo nell’opera di Dux Aymo, pittore dalle suggestive ed eleganti cadenze di stampo lombardo, il cui linguaggio è stato ancora di recente avvicinato alle pitture del castello saluzzese. Per come lo si conosce nella sua opera di maggior livello qualitativo, ossia il ciclo della cappella di Missione a Villafranca Piemonte, l’artista pavese non pare tuttavia mostrare una sapienza pittorica tale da potergli attribuire la direzione delle pitture di Manta. Inoltre, non si deve dimenticare come alcune delle mascherine utilizzate per il ciclo saluzzese ritornano anche nel repertorio decorativo di un pittore come il chierese Guglielmetto Fantini che, al di là del suo possibile coinvolgimento o meno nel cantiere di Manta, rivela un’indiscutibile formazione a contatto della pittura jaqueriana.

Al di là di tali problematiche e considerazioni storiche (e in mancanza di documentazione sugli artisti attivi in quegli anni per i marchesi di Saluzzo) sulla base delle nostre conoscenze Jaquerio rimane ad oggi la figura artistica più prossima al frescante di Manta e l’unica, tra quelle a noi note, che pare mostrare nelle prove a lui direttamente ricondotte le capacità necessarie a concepire un prodotto così straordinario e a dirigerlo servendosi di valenti aiuti.

Bottega del Maestro della Manta (Giacomo Jaquerio?): Fontana della giovinezza, particolare. Manta, castello, salone ‘Baronale’.

Basti citare a confronto gli eroi più âgées raffigurati sulla parete settentrionale del castello saluzzese. La fisionomia del Carlo Magno e del Giulio Cesare, la maniera in cui sono disposti, così come il trattamento dei particolari quali le rughe e i peli della barba e dei capelli sono elementi che le accomunano strettamente ai Profeti di Ranverso e, proseguendo su questa pista, allo stesso Sant’Agostino di Carmagnola. Non mancano interessanti confronti con Jaquerio neanche per le raffinate Eroine, quali Sinope.

Maestro della Manta (Giacomo Jaquerio?): Sinope, particolare. Manta, castello, salone ‘Baronale’.

Il trattamento del viso eburneo, toccato da ombre solo dove strettamente necessario, messo in risalto dall’accensione cromatica della chioma bionda, così come la contenuta espressione di stupore, accomunano l’amazzone all’arcangelo Gabriele affrescato a destra nella scena dell’Annunciazione presso la sacrestia dell’abbazia di Ranverso.

Ma anche la raffigurazione delle espressioni stupite e pensierose di altri personaggi, comprese quelle della Fontana della Giovinezza di Manta, trova immediati confronti nel mondo jaqueriano 47.

Tuttavia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, i grandi buchi neri di cui è costellato il panorama pittorico del Piemonte occidentale suggeriscono ancora una certa cautela. In attesa di nuovi ritrovamenti, la risposta a tale questione dovrà innanzitutto passare attraverso un attento riesame della figura e dell’attività di Jaquerio (ma ancora di più dei suoi collaboratori). Sarà, inoltre, d’obbligo interrogarsi su quanto la sua pittura, la preziosità e la varietà di materiali utilizzati potessero mutare a seconda del supporto, ma soprattutto a seconda del contesto (finora Jaquerio è noto per lo più per pitture murali e sempre in ambito religioso o per soggetti sacri) e della committenza che, nel caso di un illustre ciclo quale il salone di Manta, doveva presumibilmente pretendere un certo grado di ricchezza nell’ornamentazione, caratteristica propria della decorazione di interni profani 48. Proprio su questa linea, si dovrà infine valutare in che misura possa aver influito sulle sue scelte tecniche un contatto con artisti come lo stesso Dux Aymo, attivo con Jaquerio, come visto, negli stessi anni presso il castello di Pinerolo.

In conclusione, la riscoperta dell’affresco col Sant’Agostino a Carmagnola, al di là della sua innegabile importanza per la ricostruzione dell’attività pittorica di Giacomo Jaquerio da tempo priva di nuove aggiunte, mostra quanto la ricerca territoriale, così come l’indagine documentaria, possano ancora garantire inaspettate novità, le sole a poter consentire delle possibili riaperture di interrogativi cruciali relativi a fatti storico-artistici bisognosi di assestamento.

May 26, 2022