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Roger-Edgar Gillet: tragico contemporaneo

Sofia Silva

L’autoesilio di Roger-Edgar Gillet dall’Art Informel per inseguire una figurazione intrisa di tragico è ciò che lo rende contemporaneo oggi

Certi autori del Novecento ai quali oggi si torna a guardare restituiscono allo storico, al critico, allo spettatore, un senso di familiarità col tragico. Rivolgersi a loro è come tornare a casa, anche laddove la casa sia rotta e disperata. Studiare questi artisti è bello, anche perché spesso nei loro percorsi sono stati più importanti i passi indietro di quelli fatti in avanti, in una maniera ormai non più rintracciabile nella produzione artistica attuale, dove la diacronia – il divenire nel tempo di soluzioni, stili, tematiche, movimenti – è stata soppiantata da una frenetica parzialità. Spaziando tra geografie e decenni, rincuora trovare il senso di Derain che torna alle terre, la rabbia di Guston nell’abbandonare l’astrazione, il tremore di Hélion nel cominciare a dipingere zucche. Con Roger-Edgar Gillet ci addentriamo in una di queste storie, per arrivare a comprendere che è proprio in virtù della sua fedeltà a un sentire tragico radicato nel passato che la sua arte parla al pubblico giovane, riverberando in quella di alcuni artisti emergenti.

Roger-Edgar Gillet
Roger-Edgar Gillet, Les Binches, 1968, 114 x 146 cm. Photo credit: Yves Guigon. Courtesy Fonds Roger-Edgar Gillet & rodolphe janssen, Brussels.

Siamo nella Parigi dell’immediato dopoguerra; a Saint-Germain-des-Prés le gallerie espongono le mostre germinali dell’Art Informel. Nel 1948 muore Antonin Artaud, al cui funerale presenzia il giovane Gillet, al tempo incisore, insegnante, attore, scenografo e pittore, a proprio dire influenzato da Bonnard. Nel 1952, quindi a soli ventott’anni, Gillet è incluso nel celebre libro del critico Michel Tapié, Un art autre; in quel breve lasso di tempo ha già avuto modo di esporre in collettive con coetanei quali Georges Mathieu e Jean-Paul Riopelle. La sua prima mostra personale, nel 1953, alla galleria di John Craven, ha larga risonanza, tanto che a seguire alcuni suoi quadri sono esposti in Belgio con opere di esponenti del gruppo Cobra. In seguito si lega anche al critico rivale di Tapié, Charles Estienne, allargando ulteriormente il proprio pubblico e vincendo premi prestigiosi.

Alla fine degli anni Cinquanta Gillet è un astrattista austero con una predilezione per le terre; sin da subito ha combattuto con numerosi compagni le battaglie culturali del proprio tempo, ma d’un tratto qualcosa si rompe e il pittore imbocca solitario la strada della figurazione. Elencare le influenze storiche e contemporanee a Gillet che si raccolgono in ogni sua opera successiva alla fine degli anni Cinquanta sarebbe un esercizio fine a se stesso. Gillet ha visto tutto e a tutto accenna: Rembrandt, Goya, Ensor, infiniti ritratti di fanciulla tardo-ottocentesca dans le tub, Jean Fautrier, Alberto Burri…

Per comprendere quello che Gillet stesso cerca in un quadro è invece utile risalire a un viaggio negli States che l’artista intraprende nel 1955, a trentun anni. Al MET di New York il giovane Gillet s’imbatte nell’Inquisitore Don Fernando Niño de Guevara ritratto da El Greco e si sente ri-guardato. Questa del sentirsi ri-guardato, dello “sguardo che penetra nel corpo” dice Gillet, è una sensazione forse comune per un amante dell’arte, ma rara e peculiare per un artista, che tra gli occhi e il cuore ha sempre lo schermo della propria pratica. Quando succede c’è da tenerne conto: a Gillet accade con un ritratto del figlio di Cézanne e con questo inquisitore occhialuto, paradossalmente bonario nello sguardo ma mefistofelico nel dettaglio di un dito mignolo curvo in uno spasmo. Quello di El Greco è un quadro accartocciato: le aree della veste sembrano fogli di carta, fluttuanti ma graficamente duri; l’incarnato del viso è posticcio, così diverso da quello delle mani da sembrare cipria apposta su un corpo morto; gli occhiali raggrumano le caratteristiche somatiche creando un fastidioso punctum in questo capolavoro spettrale e disarmonico. La figura, insomma, è già quella che Gillet analizzerà in innumerevoli opere: una testa centripeta cucita a un corpo verticaleggiante posto al centro di una composizione.

Roger-Edgar Gillet
Roger-Edgar Gillet, Sur canape, 1968, oil on canvas, 45 3/4 x 32 inches, 116.2 x 81.3 cm. Courtesy of the artist and Petzel, New York.

Dagli anni Sessanta fino alla morte, Gillet dedicherà una parte della sua produzione a ritratti di grottesche creature, devastate e al contempo in grado di generare simpatia e affetto nello spettatore. Personaggi scorticati, schiacciati, dilaniati; si pensi a la Femme assise del 1966, così archetipicamente simile a tanti ritratti di donne anziane da Giorgione a I vecchi che mangiano della Quinta del Sordo, o a Sur Canape del 1968, dove un corpo semi cancellato simile a quello di una rana o a una muffosa spatolata riesce comunque a risultare, in virtù della posa plastica, spavaldo e divertito quanto quello di un’attrice di Bertolucci. Nei decenni Gillet rimane molto fedele a questa chiave figurativa, tanto che saltando verso un dipinto del 1996, La Dame au houla hoop, non si incontrano grandi differenze formali e il pittore sembra ancora intendersela con il gusto di Goya per la temperatura umana dell’aberrazione.

Nel 1945 all’età di 19 anni Gillet era stato chiamato a servire per l’esercito francese, ma nel giro di pochi giorni gli era stata diagnosticata la poliomelite. La sindrome post-poliomelitica, che si può manifestare anche dopo 40 anni dall’infezione, si presenta come debolezza muscolare progressiva e forte affaticamento. Sicuramente questo spettro e quello della guerra rimangono presenze costanti nei personaggi di Gillet che urlano, si stropicciano, si ammassano e si degradano tra i bruni e le paste d’ocra, senza mai decidere di esistere, senza mai acquisire una forma. 

Nella prima delle conferenze tenute nel 1946, lo psichiatra sopravvissuto ai lager Viktor E. Frankl dice: “Tutto si era ridotto alla nuda esistenza. Reso incandescente dal dolore, tutto l’inessenziale si era fuso riducendo l’essere umano a ciò che, in ultima analisi, era: o uno qualunque nella massa, cioè nessuno di reale – cioè in realtà nessuno -, l’anonimo, l’elemento senza nome che era diventato, nient’altro che il numero di matricola di un prigioniero; oppure riducendolo al suo sé. C’era stato, dunque, qualcosa di simile a una decisione? Non ci meraviglia; perché «l’esistenza» – alla cui nudità e inermità l’uomo era stato ricondotto – non è altro che questo: decisione”. [1]

Roger-Edgar Gillet
Roger-Edgar Gillet, La Dame au houla hoop, 1996, oil on canvas. 39 1/2 x 31 3/4 inches, 100 x 81 cm. Courtesy of the artist and Petzel, New York.

Per esistere è necessario decidere di esistere e questa decisione pertiene sempre all’individuo, anche qualora la società cerchi di annichilirlo. Se decidere di non esistere equivale a togliersi la vita, potremmo dire che il nostro tempo abbia svicolato dalla febbrile tragicità del binomio vita/morte per imboccare una terza strada, più spalmata, grigia e anche più lunga, quella del non-decidere di esistere, che oggi raccogliamo sotto il vaporoso spettro della parola depressione. Penso che parte del fascino di Gillet, che ne determina oggi una riscoperta da parte di un pubblico più giovane, sia da ricondurre al fatto che l’artista è arrivato al nuovo millennio portandosi dietro la tragicità degli anni della sua giovinezza, senza indulgere in alcun post-moderno spianamento o volatizzazione del dolore. La grottesca, accartocciata ritrattistica di Gillet raccoglie un senso di tumida anonimità, di caos grasso e sovrabbondante che sembra non aver conosciuto benessere né sollievo, e tantomeno la seduzione dei colori della moda, delle comunicazioni, della Pop Art; insomma: impermeabile al nuovo mondo. 

Roger-Edgar Gillet
Roger-Edgar Gillet, La Maison de fous, 1997, oil on canvas, 114.3 x 194.9 cm, 45 x 76 3/4 in. Photo credit: HV photography. Courtesy Fonds Roger-Edgar Gillet & rodolphe janssen, Brussels.

A livello storico-artistico, la grottesca tragicità insita in Gillet, come d’altronde quella del suo collega Eugène Leroy, è un coacervo di possibilità, un pozzo di latenza dove tra frattaglie e scarti di ruggine vivono, o forse muoiono, boccheggiano, si sciolgono nell’acido, alcune speranze del modernismo. Nonostante sia esponente di una cultura pittorica molto più oblique di quella del francesissimo Gillet, il pittore anglo-tedesco Frank Auerbach torna utile per un raffronto: entrambi gli artisti cercarono di risolvere l’interrogativo della figurazione martoriando i volti di figure centrali alla composizione, come se l’insolvibile tensione tra il dipinto che veicola uno sguardo e il dipinto che veicola se stesso, tra l’apostrofare e l’avere una risposta, tra l’espressione e la riflessione, fosse da risolvere in quei centimetri quadrati di volto in cui El Greco aveva ironicamente dipinto degli irritanti, sgraziatissimi, occhialetti da inquisitore.  


[1] Frankl V. E., 2022, Sul senso della vita, Mondadori, Milano, p.9.

January 9, 2023