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Raffaele Mattioli, promotore di cultura umanistica

Barbara Costa

Una mostra alle Gallerie d’Italia ripercorre il collezionismo dei grandi banchieri, dai Medici ai Rotschild, passando da Raffaele Mattioli

“…mi aveva ricordato uno di quei vecchi senza tempo che vivono negli affreschi di Michelangelo. Mi resi conto di essere in presenza di un patriarca del Rinascimento offerto temporaneamente in prestito al ventesimo secolo” -- Joseph Wechsberg

“Ma egli non fu mecenate perché non chiese mai contropartite all’arte e alla cultura, ma le spronò sempre alla ricerca, all’approfondimento, e tese a liberarle d’ogni forma di servilismo”: così Giulio Einaudi, commemorando nel 1975 l’amico banchiere, coglieva uno dei tratti distintivi dell’approccio di Raffaele Mattioli ai diversi ambiti culturali nei quali esplicò la sua azione. 

Sostenere le espressioni più eminenti della nostra cultura era per lui, principalmente, un impegno civile attraverso il quale contribuire nel modo più “alto” allo sviluppo del paese. E in quanto espressione della “cultura” in senso ampio, al pari della letteratura e della musica, Raffaele Mattioli apprezzava l’opera d’arte non solo dal punto di vista estetico ma anche e soprattutto per i valori e il contenuto che essa rappresentava, testimonianza del mondo e della cultura che l’aveva prodotta, e in questo senso andava, prima di tutto, letta. Così essa diventava un tramite per “dialogare” con i suoi autori, con i grandi del passato, e per far proprio il loro insegnamento, eredità da cui l’uomo moderno non può prescindere nel proprio cammino di crescita e di progresso. Per questo il rapporto con le opere d’arte e le varie espressioni della cultura va rinnovato e ravvivato di continuo, “per rendersi conto di come si sta, di dove si è, e di dove si va”, così da tenere bene la rotta.

Raffaele Mattioli nella biblioteca della sua abitazione con Riccardo Bacchelli, Milano, novembre 1969. Fotografia di Giovanna Borgese; Archivio Storico Intesa Sanpaolo

In tale prospettiva l’opera d’arte per Raffaele Mattioli è un bene che trascende il suo puro valore materiale. Si spiega così come il suo approccio alle arti visive non fosse quello del collezionista, mosso dal desiderio dell’esclusivo possesso fisico, ma dello “studioso”, del conoscitore che si adopera per la salvaguardia, la conoscenza e l’incremento del patrimonio artistico. È un principio, questo, alla base di tutta l’azione di Mattioli, tanto in ambito economico, quanto in ambito culturale in senso lato, e in particolare in quello letterario. Nella sua nota attività di editore, con la casa editrice Riccardo Ricciardi (da lui acquistata nel 1938) si mosse sempre affinché i titoli validi uscissero, anche a costo di cederli a un altro editore, per dare la possibilità a studiosi promettenti di compiere i primi passi nella ricerca. Anche la sua passione per i libri fu innanzitutto guidata dal suo desiderio di conoscenza e di sapere – i libri, prima di essere collezionati, vanno letti – che spesso si tradusse in donazioni e arricchimenti di biblioteche pubbliche e universitarie. 

Il cenacolo Mattioli e le notti di via Bigli

Sin dal suo trasferimento a Milano nel 1920, e durante la prima metà degli anni venti del Novecento, all’epoca delle esperienze alla “Rivista Bancaria”, alla Bocconi e alla Camera di Commercio, prima dell’assunzione alla Banca Commerciale Italiana (1925), Raffaele Mattioli frequentò, insieme a intellettuali e studiosi di diversi orientamenti e provenienze, alcuni giovani esponenti del mondo delle arti. Costoro entrarono a far parte del suo ristretto, ma variegato entourage bohémien..

Fra questi si può ricordare, in primo luogo, il trentino Gigiotti Zanini, pittore e architetto distintosi per i paesaggi dai tratti primitivistici; il critico d’arte e scrittore, nonché pittore, Benso Becca; il gallerista Enrico Somaré, fondatore del periodico “L’Esame. Rivista mensile di Coltura e d’Arte”, dove pubblicarono Soffici e Carrà.

Si aggiunsero poi l’architetto e urbanista Giuseppe de Finetti, uno dei più interessanti e singolari della prima metà del Novecento italiano, attivo nel “club degli urbanisti” in opposizione al gusto dominante sotto il fascismo e, in posizioni più defilate, l’incisore, pittore e scrittore Anselmo Bucci, uno dei fondatori del gruppo Novecento, e il pittore e scenografo Mario Vellani Marchi, allievo di Pio Semeghini e amico dello scrittore Riccardo Bacchelli, a sua volta uno dei più intimi amici di Raffaele Mattioli. Oltre a loro non si può non menzionare Sergio Solmi, collaboratore di Mattioli nell’ambito del servizio legale della Comit e futuro capo dello stesso, che allora incominciava a muovere i suoi primi passi come critico d’arte, oltre che come critico letterario.

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“Notti di via Bigli”, casa Mattioli, Milano 1934. Da sinistra: Raffaele Mattioli, Arrigo Cajumi, Gino Scarpa, Sergio Solmi, Antonio Pescarzoli e, in primo piano, Antonello Gerbi e Lucia Mattioli Fotografia con autoscatto di Antonello Gerbi Archivio Storico Intesa Sanpaolo

Questo “cenacolo” si accrebbe negli anni successivi, dando vita alle cosiddette “Notti di via Bigli”, i “notturni convegni amichevoli in casa di Raffaele Mattioli”, come scrisse Riccardo Bacchelli, uno dei pochi punti d’incontro, discussione e riflessione liberi nella pesante atmosfera dell’Italia fascista.

Proprio tali frequentazioni avvicinarono dunque Raffaele Mattioli al mondo delle arti, con il costante coinvolgimento nelle animate dissertazioni in tema dei suoi amici “artisti”. Mattioli stimolò la loro attività, oltre a garantirne i mezzi di sostentamento, con commissioni spesso legate alla Comit, di cui nel frattempo, nel 1933, era diventato amministratore delegato (carica che manterrà sino al 1960, per poi assumere quella di presidente fino al 1972). Così negli anni trenta affidò a de Finetti e a Zanini la ristrutturazione di vari immobili della banca, tra cui la sede della direzione centrale in piazza Scala a Milano, oltre che del proprio appartamento in via Bigli 11. Comprò anche alcune loro opere, come nel caso di Zanini e di Bucci, quest’ultimo coinvolto inoltre in imprese editoriali sostenute da Mattioli, per la stesura delle tavole nei volumi.

Guttuso, Morandi, Manzù

Con la fine della Seconda guerra mondiale, le relazioni di Raffaele Mattioli si allargarono ulteriormente ed egli giunse, tramite amicizie comuni, a entrare in contatto con alcuni dei maggiori esponenti delle arti visive italiane della seconda metà del Novecento: basti menzionare i nomi di Renato Guttuso, Giacomo Manzù e Giorgio Morandi. In tutti e tre i casi si trattava di personalità già affermate, o che si stavano affermando; nonostante ciò, anche nei loro confronti il banchiere svolse un’azione di stimolo e compartecipazione alla loro creatività, oltre che di pronto appoggio, sia materiale che morale, in caso di bisogno (ad esempio introducendoli ad altri possibili committenti). Ciò vale per Manzù e Guttuso. Il rapporto con Morandi sembra invece limitarsi a quello più tradizionale tra artista e committente: le testimonianze archivistiche conservatesi attestano un vivo e profondo apprezzamento dei quadri del pittore bolognese da parte del banchiere, che ne acquistò alcuni esemplari. Mancano però totalmente le tracce di possibili sviluppi di tale relazione.

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Lettera autografa di Giorgio Morandi a Raffaele Mattioli, Bologna, 28 dicembre 1948; Archivio Storico Intesa Sanpaolo

Se questi sono i “grandi” dell’arte contemporanea che portarono ad affermare, in un articolo uscito su “Il Popolo” il giorno seguente la scomparsa del banchiere, che “molti dei nomi più illustri delle arti figurative italiane sono sbocciati all’ombra di questo grande mecenate”, l’orizzonte dei suoi interessi e contatti comprese anche altri autori, meno noti e significativi, ma pur sempre parte del côté artistico dell’epoca.

Un sguardo organico, tra presente e passato

Negli anni sessanta Raffaele Mattioli, che pure era molto lontano dalle nuove correnti artistiche, avallò il progetto di Vittorio Corna, capo del personale e responsabile delle collezioni d’arte della banca, di una collezione di opere di artisti italiani contemporanei dagli anni cinquanta in avanti, divenuta nel corso dei decenni uno degli elementi identitari della collezione d’arte della Commerciale.

Accanto, e parallelamente, all’attenzione per il presente egli propugnò un’azione di tutela e di studio delle opere d’arte del passato, indispensabili all’orientamento del paese e della società, secondo quell’impostazione di ampio respiro di cui si è detto sopra: “conservare l’Italia, conservare i classici e i monumenti, conservare la tradizione; essere uomo di tradizione per essere innovatore”, come efficacemente sintetizzato da Piero Treves. Così, lungo tutto l’arco della sua vita, Raffaele Mattioli si adoperò per il loro salvataggio e la conservazione in musei e istituzioni culturali ove fossero accessibili al numero più ampio possibile di fruitori, perché, come scrisse Roberto Longhi in un saggio dedicato a Mattioli per i suoi settantacinque anni, “le opere d’arte appartengono a tutti, sono bene comune dei cittadini di tutto il mondo”, con vantaggio per gli stessi musei, in tal modo “più vivi e in continuo accrescimento”.

L’opera appartiene al suo contesto

Egli battagliò, altresì, affinché alcune opere non venissero strappate ai luoghi a cui erano legate o, viceversa, a essi potessero ritornare. Era questo per lui un principio fondamentale: l’opera nasce in un contesto, vi si relaziona, diventandone parte inseparabile e in esso va conservata. Già nel 1937 la Comit, sotto la guida di Raffaele Mattioli, donava l’Adorazione dei Magi di Gaetano Previati alla Pinacoteca di Brera, su proposta dell’allora presidente della banca Ettore Conti, a capo dell’Associazione degli Amici di Brera. Il caso più emblematico e noto di questo tipo di interventi rimane però quello della Pietà Rondanini di Michelangelo, ora conservata al Castello Sforzesco di Milano, di cui Mattioli nel 1952 contribuì, in modo sostanziale, quanto defilato, a evitare la vendita e l’espatrio negli Stati Uniti, reggendo le fila di una raccolta di fondi per il suo acquisto, a favore del Comune di Milano.

Tanti altri sono gli episodi simili riconducibili al banchiere, che riguardano ogni angolo d’Italia. Sempre a Milano, Raffaele Mattioli riuscì a far arrivare nel 1970 alla Pinacoteca di Brera il dipinto Cristo in trono adorato dagli angeli di Giovanni da Milano, rilevato, con un suo “determinante interessamento”, dal conte Alessandro Augusto Contini-Bonacossi, che lo possedeva. Una attenzione tutta particolare venne inoltre da lui riservata al patrimonio della città di Napoli, alla quale era affettivamente legato: ne è testimonianza il dono, nel 1959, alla Galleria dell’800 del Museo di Capodimonte, del bronzo di Vincenzo Gemito Fanciulla napoletana, di proprietà della Comit dal 1956.

Non mancarono casi in cui Raffaele Mattioli indirizzò alla banca i capolavori destinati alla dispersione: il suo primo atto in tal senso, in qualità di amministratore delegato della Comit, fu il rilievo nel 1933 del Ritratto di Fattori di Giovanni Boldini – esposto in questa mostra – dalla raccolta Gualino, allora in liquidazione. Un altro esempio è offerto dal quadro di Largo di Palazzo a Napoli, del pittore olandese Gaspar van Wittel o Gaspare degli Occhiali, anch’esso in mostra. Oggetto di attente ricerche da parte di Mattioli, una volta individuato e acquistato per conto della banca, venne da lui custodito nel proprio ufficio alla rappresentanza di Roma, non senza averne favorito la conoscenza con la pubblicazione di un accurato studio del suo amico letterato e storico, allora soprintendente alle Gallerie e Opere d’Arte della Campania, Gino Doria.

Raffaele Mattioli
Raffaele Mattioli ritratto nel suo ufficio alla Rappresentanza di Roma della Banca Commerciale Italiana, 1966. Alle spalle, il quadro “Il largo di Palazzo a Napoli” di Gaspar van Wittel, Fotografia di Franco Pinna; Archivio Storico Intesa Sanpaolo

Tale lavoro di salvaguardia avrebbe potuto essere edificato su solide fondamenta solo se fosse stato accompagnato da una puntuale mappatura di base dei beni artistici, ovvero da quella “erudizione che le dà corpulenza concreta”, secondo l’efficace definizione di Leo Valiani. Per questo Raffaele Mattioli, all’inizio degli anni settanta, si fece promotore della catalogazione scientifica dei beni dei musei e delle gallerie di Milano, di cui non si aveva un quadro completo. Si sarebbe così creata anche una solida base per lo sviluppo degli studi di storia dell’arte, aspetto a cui Mattioli riservava pure grande importanza.

Raffaele Mattioli e il rapporto con gli studiosi

Come si è accennato sopra, il banchiere infatti sin dalla giovinezza era stato in contatto con critici d’arte, e nel corso degli anni successivi risulta legato ai suoi massimi esponenti, quali Bernard Berenson, Lionello Venturi, Roberto Longhi, Paola Barocchi e Lamberto Vitali; nei loro confronti fu “sempre sollecito assertore d’ogni nostra più seria esigenza culturale”, secondo le parole dello stesso Longhi nella dedica a Raffaele Mattioli del proprio saggio nel volume collettaneo per i settantacinque anni del banchiere. A Venturi assegnò il saggio sulla “storia dell’arte” nell’opera Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946, il consuntivo sugli studi italiani nell’ultimo cinquantennio, curato da Mattioli e da Carlo Antoni per gli ottant’anni di Benedetto Croce. Di Berenson rese possibile l’uscita nel 1961, in traduzione italiana, della fondamentale opera, I disegni dei pittori fiorentini, con Electa, oltre a perpetuarne la memoria con la pubblicazione presso la propria casa editrice Riccardo Ricciardi dell’edizione italiana del volume Berenson. A biography, di Sylvia Sprigge. In virtù della sua sensibilità storica e della sua attenzione filologica, coinvolse invece Paola Barocchi nell’attività della Ricciardi, per la quale la studiosa curò nel 1962 la poderosa opera di Giorgio Vasari La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568 (pubblicata nella collana “Documenti di Filologia”) e successivamente, all’inizio degli anni settanta, per “La Letteratura Italiana. Storia e Testi”, Scritti d’arte del Cinquecento, il cui secondo tomo vide la luce proprio nell’anno della morte del banchiere.

Tra gli ultimi atti della sua vita, con sguardo lungimirante, Raffaele Mattioli pensò ad assicurare le nuove leve per tali ricerche con la costituzione di una alta scuola di perfezionamento, la Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, la cui nascita fu da lui fortemente voluta insieme allo stesso Longhi. Scomparso quest’ultimo, fece in modo che il progetto potesse trovare attuazione e così, sotto la sua presidenza e con il saldo ausilio della biblioteca e della fototeca dello studioso, incominciarono a essere allevate le nuove generazioni di storici dell’arte, sul modello dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli.


Nota dell’autrice:  si ringraziano Francesca Gaido per il fondamentale supporto alla ricerca e Gianni Antonini per la generosità con cui ha condiviso i suoi personali ricordi, aiutandomi a rispondere ai molti quesiti ai quali le fonti d’archivio non riuscivano a dare risposta.

Nota di redazione: il presente testo è stato estratto dal catalogo della mostra “Dai Medici ai Rothschild. Mecenati, collezionisti, filantropi”, presso Gallerie d’Italia, Milano, dal 18 novembre 2022 al 26 marzo 2023.

January 18, 2023