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Immagine di un’immagine: Jonathan Monk per René Daniëls

Piero Bisello

At the show with the artist: le scenografie di Jonathan Monk sono vedute di altre mostre, come i dipinti di René Daniëls sulle vedute di altre mostre

Si può pensare a Jonathan Monk come a un artista pop in un mondo in cui il “pop” corrisponde al mondo dell’arte. (Immaginate Andy Wharol che lascia da parte le sue zuppe e prende di mira le opere di altri artisti e l’istituzioni in cui si trovano). Monk può contare su una sufficiente consapevolezza del proprio ambiente di lavoro, dei suoi codici e della sua storia; può elevare la propria arte al livello del commento – in modo squisitamente postmoderno, persino divertente. Ci sono alcune scelte dirette — come quella di sgonfiare un coniglio di Jeff Koons (Deflated Sculpture No 1, 2009) o di pisciare su una scultura di Richard Serra (la giovanile In war time, this would be a tank [Pissing on Serra], 1994) –, ma anche usi più sofisticati dell’arte altrui, come un progetto di aggiornamento del Minimalismo per un’epoca che, da allora, è molto cambiata. (Monk sembra voler trovare la rilevanza del movimento storico dell’arte in un contesto – il suo – in cui le ideologie politiche sono radicalmente diverse, se non del tutto scomparse). Anche quando le cose sembrano familiari anche ai non addetti ai lavori, come nel caso dei disegni infantili che Jonathan Monk ha impiegato in certe installazioni, o la riflessione sulla relazione ancestrale padre/figlio nel suo Father & Son Walls (2016); Monk reimmette il mondo dell’arte attraverso l’arte di altre persone. Infatti, i disegni dei bambini si trovano in un libro di John Baldessari; il muro di mattoni di Father & Son Walls serve ad appendere le opere d’arte di una collezione locale.

Jonathan Monk
Jonathan Monk, Exhibit Model One, Kunsthaus Baselland, 2016. Courtesy of Kunsthaus Baselland and the artist.

Una delle serie più riuscite di Jonathan Monk è quella che lui chiama Exhibit Models. Si tratta di vedute di installazioni di mostre proprie o di altri artisti stampate e incollate a parete in modo che queste possano ‘ospitare’ altre opere. Nasce un collage, che a volte si trasforma in una spirale infinita; opere reali appaiono accanto a opere stampate che contengono altre opere, e così via. I visitatori dell’editore parigino Three Star Books a Milano (presentato negli spazi di CFAlive) assistono all’ultimo episodio di questa serie, che in questo caso raccoglie i libri di altri undici artisti. In quest’occasione Jonathan Monk ci ha oltretutto detto di non aver mai capito l’intendere una mostra collettiva come una sequenza di mini mostre personali. “Mi piace quando le opere si disturbano l’una con l’altra” afferma Monk, come se stesse di nuovo commentando le pratiche standard del mondo dell’arte. E aggiunge che in realtà Exhibit Models è iniziata alla Kunsthaus Baselland, durante Art Basel, per contrastare la classica presentazione di “prodotti” artistici tipica della fiera elvetica, che è puramente commerciale, ancorché fondamentale.

L’atteggiamento di Monk è però troppo vicino all’umorismo per esser inteso come sovversivo. In questo senso ricorda piuttosto i quadri “bowtie” di René Daniëls, recentemente visti a Wiels, a Bruxelles, prima che diventassero oggetto del dialogo che segue. Non si tratta di papillon, ma di rappresentazioni di vedute di mostre, rese con immagini che, nonostante la loro piattezza, ricordano all’artista stesso, e a noi spettatori, che dove ci troviamo realmente, anche se temporaneamente, è il mondo dell’arte. Il passo dell’artista fuori dal suo contesto, e il suo sguardo verso una tipica autocoscienza postmoderna gonfiata di arguzia, non sono lontani dallo spirito di Jonathan Monk. Abbiamo quindi pensato di chiedergli della sua affinità con René Daniëls, di fatto sviluppando un’idea per un soggetto che, fortunatamente, già aveva elaborato personalmente.

René Daniëls, Installation view ‘Fragments from an Unfinished Novel’, WIELS, 2018. Photo: Hugard & Vanoverschelde Photography.

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Il “papillon” di René Daniëls, la visione espositiva del punto di fuga che tra il 1984 e il 1987 ha ampiamente ripetuto nei suoi dipinti, è stato letto come un commento all’atto di guardare alla memoria stessa. Crediamo invece che l’artista non fosse motivato da preoccupazioni di carattere filosofico, ma istituzionale, che lo spingevano a giocare con umorismo con i codici del mondo dell’arte del suo tempo — vale a dire il sempre più importante white cube, che poi è anche lo stand fieristico. (Come esperimento di pensiero, si pensi ai dipinti di Daniëls sulle gallerie come a una di quelle rappresentazioni di collezioni d’arte di Hieronymus Francken II, spogliate della loro forza documentaria, ma cariche di arguzia e commenti).

In che misura il tuo lavoro sulla carta da parati, che comprende anche vedute di installazioni, condivide le preoccupazioni di Rene Daniëls in termini di critica istituzionale?

Jonathan Monk: Prima d’ora non avevo mai inteso il mio lavoro nel contesto della critica istituzionale. Credo che ad essa sia in qualche modo correlato, e che condivida preoccupazioni simili; ma ha senz’altro bisogno dei muri, come struttura portante. Del resto, la critica alle istituzioni sembra sia qualcosa di superato. Molti musei d’arte accolgono e dunque espongono le critiche al loro stesso processo. Inizialmente Exhibit Model era un modo per allestire una grande mostra facendo pochissime spedizioni. L’opera vera e propria non doveva spostarsi; viaggiava solo la sua documentazione. Così ho potuto collegare opere che non erano mai state esposte l’una accanto all’altra, facendo confluire in un unico luogo gli spazi delle gallerie di diversi Paesi. Mi sono sempre piaciuti i quadri d’installazione di René Daniëls, come schizzi di possibili mostre. Forse ora, con la proliferazione delle fiere d’arte, i suoi dipinti diventano ancor più diretti. La sua fluttuante visione prospettica di opere su tre pareti, simili a un papillon, è pioneristica. Il motivo originale è stato semplificato fino al punto di non ritorno. La finestra pop-up di uno schermo nello schermo è probabilmente il modo in cui la maggior parte dell’arte viene attualmente vista; dopotutto la documentazione è più facile da digerire rispetto alla realtà.

Jonathan Monk
Jonathan Monk, Exhibit Model Six, CCA Tel Aviv-Yafo, 2019. Courtesy of CCA Tel Aviv-Yafo and the artist.
Jonathan Monk
René Daniëls, Installation view ‘Fragments from an Unfinished Novel’, WIELS, 2018. Photo: Hugard & Vanoverschelde Photography. Painting on the right:

Tranne che per una patina bianca semitrasparente, una coppia di dipinti di René Daniëls, Doorlopend near busted e Titelavond, entrambi del 1987, sono copie quasi identiche dei dipinti di due dipinti di Jonathan Monk eseguiti all’incirca nello stesso periodo, Untitled e De terugkeer van de performance. Monk è noto per incorporare opere di altri artisti nelle proprie, e con pezzi di carta da parati ha incorporato le une (Daniëls) nelle altre (Monk). L’auto-appropriazione operata da Daniëls può essere dunque letta come un modo di dichiarare che la pittura era viva dopo l’incubazione concettualista degli anni Settanta, o almeno per parlare con scetticismo di arte figurativa, dopo che questa era caduta fuori dal perimetro di interesse della critica.

Stai lavorando in un momento storico e con un mezzo completamente diverso; cosa significa per te auto-appropriarsi di qualcosa?

Jonathan Monk: Mi viene naturale includere il mio lavoro nel mio lavoro. Auto-appropriazione è invece un termine scomodo. Credo di essere più interessato a riesaminare i lavori precedenti, a vedere come cose di periodi diversi possano stare insieme. Immagino che questa particolare serie svanirà nel vuoto della sua stessa documentazione. Come dite, l’idea di appropriazione oggi è molto diversa da quella degli inizi, alla fine degli anni Settanta. Oggi è molto più facile appropriarsi di qualcosa; quasi tutto in pochi istanti può essere copiato e ridistribuito come originale – trovo divertente che alcuni artisti si infastidiscano quando le loro immagini o il loro stili vengono copiati. Sol LeWitt mi ha detto che una volta che una sua opera d’arte è in giro per il mondo è a disposizione di tutti per essere usata e abusata. Il controllo si perde una volta che un’opera lascia lo studio. Quando impiego le opere di altri artisti cerco anche di creare dei collegamenti visivi o concettuali. Il lavoro di alcuni artisti mi ha seguito per anni; è diventato un importante controllore del mio processo, dunque cerco di abbracciare questa logica. È materiale di ricerca che spero mi permetta di comprendere meglio il mio percorso. A un certo punto mi piacerebbe includere un papillon di René Daniëls in una delle mie installazioni di Exhibit Model – non sono sicuro che se mi accadrà mai, forse…

February 10, 2023