Peggy Franck: respirare lentamente
Peggy Franck e l’esistere nel processo di definizione dell’identità che alimentiamo lavorando, o dipingendo
Il segno di Peggy Franck (Zevenaar, 1978) è curvo, fluido, continuo, colorato, e probabilmente si trova nell’alveo dell’espressionismo astratto, codificato negli Stati Uniti all’indomani della Seconda Guerra mondiale. È un tipo di pittura che si spinge oltre i codici della figurazione per esprimere in forma astratta l’universo interiore dell’artista stesso, la sua individualità, la sua spinta esistenziale. Se è poi vero che tutta l’arte è astratta (anche quella che per convenzione si chiama figurativa) è anche vero che non tutta l’arte muove dagli stessi principi, o è in grado di ottenere i medesimi risultati espressivi. Già, perché più della sensazione di piacere che si può provare guardando una certa opera, ciò che in ogni epoca o regione del mondo ne ha determinato il successo artistico è proprio l’espressività, vale a la capacità dell’opera di condensare nei propri valori formali la complessità dell’essere umano e della sua esistenza. Ed è questo che chiediamo anche a Peggy Franck, che prova a parlarci in un contesto ormai lontanissimo da quello in cui hanno dipinto Jackson Pollock, Robert Motherwell o Helen Frankenthaler (per altro, tutti autori che come Franck hanno preferito lavorare con superfici poste in posizione orizzontale), e sulla scorta di quanto accaduto in un frattempo ormai lungo settant’anni.
Il primo ricordo dell’infanzia artistica di Peggy Franck è un libro per bambini dedicato ai giardini di Claude Monet. Senza perciò voler sopravvalutare il valore di un aneddoto, qui si potrebbero già leggere due fondamentali premesse di metodo. Con la propria pratica infatti Franck non solo intende dare consistenza fisica a qualcosa che sta al proprio interno, ma anche esprimersi riguardo alla propria relazione con lo spazio architettonico (è successo anche nello stand di Arcade ad Artissima 2023, dove abbiamo conosciuto l’artista). Proprio come se tra le varie modalità in cui l’essere si definisce le interessasse anche quella dell’abitare, interpretando il proprio spazio come anche Monet ha in qualche modo faceva a Giverny. Si rivela così il motivo per cui Franck sia interessata a portare il proprio sistema segnico oltre la verticalità, oltre la bidimensionalità, e anche oltre la tela, diventando fotografia (come vedremo più avanti), tappeto stampato, parte di un assemblaggio, oppure spingendosi fino ad aderire direttamente all’elemento architettonico ( …intanto i fantasmi dell’espressionismo astratto svaniscono all’orizzonte).
“Quando posso preferisco lavorare nel luogo in cui l’opera verrà esposta” dice Peggy Franck, estendendo il senso della sua pratica verso il territorio dalle pittura installativa a vocazione scultorea. Questo approccio accompagna Franck sin dalla residenza presso la Lucebert House, a Bergen, tra il 2015 e il 2016, nell’ambito della quale è stata prodotta la prima pubblicazione dell’artista, un libretto edito in 500 copie intitolato Salmon leaping time to a standstill Peggy 01 (esiste già un Peggy 02, qui). I dipinti sono appesi senza telaio agli elementi dell’arredo, si sovrappongono ai tendaggi, colonizzano strutture di supporto diventando tessere di composizioni più ampie, oppure stanno sdraiati sui tavoli e ricadono a terra, come fossero coperte. Si diceva del concetto di libertà. Abbandonare la tirannia del telaio è anche un modo per offrire alla pittura la possibilità di assumere, rispetto allo spazio, un nuovo status. In tempi recenti hanno seguito questa via autori come Wade Guyton (soprattutto nelle opere in collaborazione con Kelly Walker) e Katharina Grosse, Franz Ackermann, Sarah Morris o, più di recente, Sonia Kacem.
A questo punto il dipinto a pavimento (il primo) prodotto da Peggy Franck in occasione della recente mostra da Solo Club (Breda, 2023) non può sembrar altro che la naturale conseguenza di un processo di liberazione. La pittura scardina il vincolo a un supporto specifico, o a un certo formato. Dopotutto destrutturare significa anche escludere la standardizzazione, così tipica dell’arte asservita al mercato. Al contrario, Franck sembra più interessata a misurarsi con i limiti della pittura stessa e con il modo in cui l’impronta dell’individualità che essa produce possa dialogare con gli ambienti domestici, prima che con i grandi spazi pubblici. Di nuovo, è un percorso nell’esistenza, pensato per mettere al centro l’uomo invece che la struttura che lo possiede.
Oltretutto, la pratica volontariamente ondivaga di cui stiamo parlando non è nemmeno limitata al medium pittorico, ancorché destrutturato. Spesso il dipinto diventa, attraverso la fotografia, immagine di sé stesso, assumendo una sorta di esistenza alternativa, o meglio parallela al gesto pittorico in sé. Si tratta di una fotografia cocciutamente analogica, calda, autentica perché priva di ritocco, alternativa (e per Franck preferibile) al tipo di documentazione prodotta dalla fotografia professionale. Anche in questo caso si preferisce presentare il supporto senza telaio o cornice, scommettendo sulla presenza scenica del foglio libero, privo di costrizioni. Il cerchio si chiude dove era partito. L’artista non si lascia incasellare. Esprime liberamente il suo essere, abitando gli spazi, trovando sul luogo la propria posizione, e con essa la miglior versione di sé. La questione non è più quella di esprimere, ma di esistere nell’esprimersi, in quel costante processo di definizione dell’identità che ogni uomo/artista alimenta con il suo lavoro. Qui essere leggeri aiuta, e il guazzo funziona più dell’olio, così come uno spazzolone può diventare molto più preciso di un pennello.
November 23, 2023